THE PROFESSIONALS – I Didn’t See It Coming (Virgin)

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Mentre John Lydon “avanza” verso la destrutturazione del rock, i vecchi compagni Steve Jones e Paul Cook “regrediscono” verso il pub-rock e il power pop. I Professionals, questo il nome scelto per la nuova band, diluiscono il punk in una sorta di combat-rock abbastanza inoffensivo che vede Steve Jones impegnato anche nel ruolo di cantante, come ai tempi pre-Pistols degli Swankers. Rispetto a quel progetto effimero, i Professionals sarebbero diventati la “sua” band più o meno definitiva nonostante un precoce scioglimento già l’anno successivo all’uscita di I Didn’t See It Coming, secondo album registrato ma primo ad essere pubblicato dal gruppo, intanto liberatosi dal bassista che ne aveva impedito la pubblicazione.

L’album si lascia ascoltare ma non ha momenti esaltanti e la chitarra di Steve sembra come “imprigionata”, costretta a confrontarsi col rifferama privo di potenza e di idee di Ray McVeigh e a spartirsi la scena con una piccola sezione fiati che cerca di mettere in pratica i rudimenti del soul, senza mai riuscirci del tutto. Lasciando, come l’intera band, ben pochi segni memorabili del suo passaggio.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

EUGENIO FINARDI – Finardi (Cicogna)  

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Pensato in inglese e tradotto in italiano dal quinto Pooh Valerio Negrini, Finardi è il disco con cui il cantautore lombardo si affranca dalla Cramps e dalle nebbie milanesi.

Il disco con cui, senza voltare le spalle al rock (Prima della guerra, Mayday, Computer, F 104), Finardi piazza in apertura, con la complicità di Gigi Tomet e Aldo Banfi, una “trappola” new wave che lo riallinea col vecchio compagno di scuderia Alberto Camerini.

Una rivoluzione annunciata ma non compiuta, perché il resto del lavoro (ad eccezione dei ninnoli digitali di Patrizia) si riallinea con il Finardi già conosciuto, quello innamorato del rock e del reggae e che spesso si ferma a guardare le stelle in attesa di un messaggio alieno, il Finardi innamorato e irrequieto, a cui piace esplorare il mondo ma pure chiudersi in gabbia. Se rivoluzione c’è, lo è nella scelta di chiudere definitivamente con la politica, di tenersi fuori dalla propaganda e dalle prese di posizione, dopo l’escalation di violenza culminata con la strage di Bologna.

“Sposta l’orizzonte”, per usare una frase a lui cara. Pur restando a vedetta. 

Per il resto Eugenio Finardi continua a suonare quel che pochi sanno suonare in Italia, a raccontare le periferie e le metropoli del Nord e a denunciare i compromessi che segano le gambe alle rockstar e li riducono a nani del cattivo gusto. Che arriveranno in gran parata proprio negli anni Ottanta annunciati da Finardi.     

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

EARTH, WIND & FIRE – I Am (Arc)  

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Che forza gli Earth, Wind & Fire.

L’equipaggio dell’Enterprise che fa festa a suon di R&B, soul e funky.

E, allo stesso tempo, una folla di gente che applaude al loro atterraggio e canta un gospel universale sotto un arcobaleno di conga.  

I Am è l’album che arriva dopo la partecipazione al Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Bee Gees e al singolone September destinato ad aggiungere argento, e poi oro, e poi ancora platino al loro culto per gli elementi.
È l’album di Boogie Wonderland e After the Love Has Gone che, se abitate questo pianeta, avete incrociato almeno mille volte sul vostro cammino. Ma è pure il disco dove il groove inconfondibile degli EW&F si dipana lungo pezzi come Can’t Let Go, Let Your Feelings Show, Rock That!, In the Stone, coi puttini neri che sfilano le trombe dalle custodie e suonano seduti sulle pelli di Ray Barretto. Gli stessi che l’anno successivo proveranno a portare la luce dentro In the Air Tonight di Phil Collins.

I Am è la celebrazione eucaristica sulla pista a scacchi dello Studio 54.  

L’equipaggio tocca terra senza mai poggiare entrambi i piedi nello stesso momento.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

THE DAMNED – Phantasmagoria (MCA)

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Susie Bick, la futura signora Cave, vestita da strega.

Dave Vanian, il futuro marito di Patricia Morrison, agghindato da vampiro.  

Fatto fuori Captain Sensible, i Damned si attaccano definitivamente al vagone goth che proprio in quel momento sta transitando nelle parti alte delle classifiche e furoreggiando nei canali video. È il momento in cui se ne celebra il declino artistico alzando in alto i calici dell’avvenuta consacrazione commerciale, non priva di compromessi. Dalla torre più alta del suo castello, da dove scruta l’orizzonte come un corvo, Dave capisce che è il momento di scendere in picchiata e completare la lenta trasformazione dei Damned da gruppo punk a band neo-gotica. Non più un salto nel vuoto ma un atto compiuto e in qualche modo salvifico: il nuovo contratto con la MCA e l’airplay garantito sui canali audio/video fanno di Phantasmagoria un successo clamoroso e pur facendo arricciare il naso ai fans, ne conquista di nuovi. Clavicembali e organi da monastero fanno la loro comparsata su pezzi come Trojans e Sanctum Sanctorum, eccedendo spesso anche nel cattivo gusto ma canzoni come Grimly Fiendish, Street of Dreams, There’ll Come a Day (introdotta e interrotta dal riff di Dirty Old Man degli Electras, come estremo omaggio al Sixties-sound delle garage band amate da Dave, NdLYS) e The Shadow of Love consacrano Dave Vanian come il nuovo crooner delle tenebre, con le sue camice a sbuffo, le sue giacche da conte ottocentesco e il suo ciuffo bianco a fare pendant col bianco cadaverico del viso. Da allora i Damned girano nelle terre di mezzo. Non più punk, non ancora pop. Pipistrelli per una stagione come in quella immediatamente precedente erano state api intente a succhiare nettare beat-punk. Come attori pronti a cambiare pelle e vestiti, secondo ingaggio. Secondo cachet.       

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

XTC – The Big Express (Virgin)  

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Pelli di batteria e corde di chitarra nuovamente assieme.

Dopo la parentesi pastorale di Mummer, il suono degli XTC torna alla “meccanica” di base. The Big Express attraversa le province inglesi dell’era Thatcher sfavillando, sbuffando e fischiando lungo i binari di pezzi come Shake Your Donkey Up, Wake Up, The Everyday Story of Smalltown, Reign of Blows, Trains Running Low on Soul Coal.  

Nonostante l’aria sbarazzina delle sequenze ornitologiche di Seagull Screaming Kiss Her Kiss Her e I Bought Myself a Liarbird c’è un’aria di festa pre-apocalittica che incombe sul disco. Come se la locomotiva di The Big Express fosse in realtà il treno di Cassandra Crossing mentre il personale di bordo lancia coriandoli dai finestrini.

Però che spettacolo di sfrigolii e scintille, stavolta.

Quante volte ancora poggeremo la puntina su quel disco con l’orecchio teso a recepire il messaggio del capotreno.

 

In carrozza, signori. Si parte!   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MOJO NIXON & SKID ROPER – Root Hog or Die (Enigma)

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Il 1989 è l’anno chiave della carriera di Mojo Nixon: quello in cui viene chiamato a partecipare al film su Jerry Lee Lewis, quello in cui arriva in radio e su MTV con (619)239-KING salvo venire bannato dalla stessa pochi mesi dopo per il video di Debbie Gibson Is Pregnant with My Two Headed Love Child e a vita dall’anfiteatro del Wolf Trap National Park di Washington dopo un concerto ad altissimo tasso alcolico assieme a Violent Femmes e Pogues culminato con denti rotti, cocci di bottiglie e più che allusive dissertazioni sulla First Lady Barbara Bush. L’anno in cui il suo sodalizio artistico con Skid Roper si frantuma per sempre, proprio come le bottiglie di quel concerto con un ultimo disco e un concerto di addio assieme ai fIREHOSE e agli Screaming Trees.  

Insomma, sulla vetta del mondo come nello scatto di copertina di Root Hog or Die e subito dopo pronti a lanciarsi nel vuoto. L’ultimo album dei due scavezzacolli è il più ordinario del loro poker di long playing, con sporadici lampi di genio (I’m a Wreck, Debbie Gibson e la palude tenebrosa di Circus Mystery), un parodistico e alticcio tributo alla musica celtica derivata dall’assidua frequentazione con MacGowan come Pirate Radio e in generale la tendenza ad allungare il brodo, non più caldissimo, ben oltre la soglia dei cinque minuti (Burn Your Money!, High School Football Friday Night, She’s Vibrator Dependent, (619)239-KING, This Land Is Your Land, Chicken Drop). Non tutto funziona e non tutto diverte. E la tanto agognata telefonata del Re non arriva.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DADDY LONG LEGS – Street Sermons (Yep Roc)

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In fatto di efficacia blues, i Daddy Long Legs sono ormai una certezza: un’armonica a bocca di grande prestigio (cui è dedicata l’intera Harmonica Razor) e un suono che viaggia a metà fra blue-collar rock e rockabilly, quasi fossero una nuova versione dei Dr. Feelgood.

Il fatto di essere una certezza, ovviamente, elide il concetto di sorpresa. E infatti Street Sermons ne è privo.

Chi volesse però un caldo concentrato di spericolate corse col culo poggiato sull’asse da lavare, qui avrà di che divertirsi a lanciarsi nel pendio, risalire in cima e lanciarsi nuovamente, fino a farsi piatte le terga. Pezzi come I’ll Die Too o Electro-motive Blues hanno quel leggero quid in più per tentare la corsa fuori pista, ma il resto viaggia nell’ambito dell’ordinario. E i Daddy Long Legs, volendo, possono fare molto ma molto di più.   

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

U2 – Songs of Surrender (Island)

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La data di uscita è stata scelta con precisione svizzera, più che irlandese: il giorno di San Patrizio del 2023, celebrando e allo stesso tempo autoproclamandosi successori al vecchio protettore d’Irlanda. Il titolo invece sembrerebbe alludere al terzo atto della trilogia iniziata con Songs of Innocence ma in realtà è una sorta di colonna sonora a Surrender, il libro in cui Bono analizza quaranta fra le canzoni più celebri degli U2.

In effetti, più che una colonna sonora, è una Colonna Traiana, un monumento autocelebrativo dove ad essere scolpite sono le gesta gloriose di Bono e compagni al posto di quelle di Traiano sui Daci.

Songs of Surrender è dunque un bignami di quaranta brani della loro carriera, reinterpretati e riformulati secondo la nuova sensibilità del gruppo, quella di The Edge in particolare. Che è quella dei sessantenni in crisi produttiva che cercano disperatamente di tenere accese quelle luci che si sarebbero dovute spegnere all’incirca trent’anni fa.

Sono canzoni con la lacca, un po’ come il ciuffo che Bono espone sulla copertina di entrambi. Con un pianoforte un po’ salottiero ad assumere il ruolo centrale nell’economia musicale della band, a volte sostituito da una bella chitarra acustica, come quella esposta sulla versione intimista di Out of Control, su Who’s Gonna Ride Your Wild Horses o in quella di Bad, spogliata di ogni lirismo e ridotta a canzone da bivacco e che ricordano, tutte, la versione “da metropolitana” degli U2 più recenti. Songs of Surrender segna la definitiva consegna del repertorio della band alla generazione boomer. La disfatta definitiva. La resa.      

           

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SUZANNE VEGA – Solitude Standing (A&M)

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Una ragazza non più giovanissima ma col volto fresco da studentessa, col braccio appoggiato alla finestra che canticchia una canzone “nuda”, senza alcun accompagnamento. Come quando si è da soli al ristorante, in attesa di un pasto o di un caffè. Una ripresa dall’esterno si alterna con una dall’interno. Per due minuti e poi sfuma, come in tutti i video degli anni Ottanta. Il budget è poverissimo ma l’investimento è insolito: fare un videoclip su una canzone senza strumenti. Tom’s Diner apre così, mettendoci da subito in confidenza col mondo intimo di Suzanne Vega, il secondo album della folksinger trapiantata a New York. È una delle canzoni più anziane del disco ma la palma di più vecchia spetta a Gypsy, scritta quando la ventottenne Suzanne di anni ne aveva appena compiuti diciotto.

Spetta ancora una volta a Lenny Kaye ricucire tutto in una sequenza organica e filtrare quelle immagini attraverso un tubo catodico che possa incollare gli ascoltatori allo stereo come spettatori davanti alla tv, trovare il “piano sequenza” giusto perché una ragazza con i guanti di velluto possa farsi un varco fra i colossi che quell’anno portano i nomi di The Joshua Tree, Appetite for Destruction, Sign O’ the Times, Bad, …Nothing Like the Sun, Kick.

Rispetto al disco di esordio stavolta i musicisti vengono coinvolti anche in fase compositiva pur senza invadere la comfort zone di Suzanne Vega, con misurata prossimità, perché in fondo Solitude Standing è un disco che parla di incomunicabilità e di solitudini abissali e disperate come quella di Luka, quella di Calypso o come quella di Casper Hauser. Una collezione di foglie secche da sfogliare mentre gli alberi sono in fiore, distribuendo lo sguardo fra le nostre ginocchia e il cielo finché il mostro non diventi tanto grande da non poterlo più sopportare.

  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CRIME + THE CITY SOLUTION – Shine (Mute)  

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Il livore dei primi due dischi dei City Solution si attenua con Shine, trasmutandosi in una sorta di versione apocalittica del folk-rock dei primi Waterboys (On Every Train). Sono canzoni che si muovono orizzontalmente, quelle di Shine. A volte con passo lentissimo (Angel, Home Is Far from Here, Steal to the Sea). Canzoni con pochissime aperture drammatiche, cercando l’effetto cinematografico di una tensione latente, strisciante, hitchcockiana, sottolineata da effetti cinematici di grande effetto (Home Is Far from Here, Steal to the Sea ma anche i gradini di tastiere e violini su cui Simon puntella i piedi pur di condurre in porto la ciurma su Fray So Low).

Condotte, anzi trascinate come il famoso can per l’aia. Rasentando spesso il basso muro della noia. Forse solo perché nel frattempo al cane è venuta necessità di far pipì ma molto più verosimilmente perché Simon Bonney ha finalmente raggiunto la giusta consapevolezza e la necessaria fiducia nelle proprie capacità melodrammatiche e dunque eccede un po’ nella logorrea da cerimoniere maledetto. Che è tuttavia peccato non nomenclato fra i sette vizi capitali e merita dunque oltre al perdono divino anche il nostro, anche perché i difetti di forma stavolta (ma non sarà più così con Paradise Discotheque, NdLYS) sono più dovuti ad un confronto impari con i due capolavori precedenti che ad altro. E dunque Crime + The City Solution continuano a “brillare” come una lampada di Wood. Emettendo un sibilo elettrico simile al rantolo di un moribondo.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro