WALL OF VOODOO – Urban Cowboys

Un tempo me ne fregavo di tutto.

Non sapevo cos’era lo spread (e non lo so ancora), i grassi idrogenati, le metastasi, gli amidi modificati, il digitale terrestre, le lampade a basso consumo, gli accordi sospesi, gli allergeni, la pensione integrativa, l’ovulazione, la prostatite, il push-up, la fase down.

Mi bastava poco per essere felice: Pane e Nutella, i giornaletti di Sukia e una cassetta dei Wall of Voodoo. E un gucciniano “a culo tutto il resto” non me lo toglieva nessuno. .

 

Quando mi passò sopra, nell’autunno dell’81, Dark Continent mi lasciò addosso le sue impronte come nessuno era ancora riuscito a fare.

Avevo undici anni e quel beat box impazzito mi aveva pestato le carni come un cingolato da avamposto militare.

Frenetica e sconnessa, con la chitarra di Marc Moreland appollaiata come un condor su una distesa di synth e diatoniche morriconiane cercando di educare le smorfie spastiche di Arto Lindsay alle arie western di Dominic Frontiere, Ennio Morricone e Dimitri Tiomkin.

Stan Ridgway è l’uomo dietro la macchina da presa, colui che commenta sugli sguardi torvi di Eli Wallach e Lee Van Cleef raccontando storie dalla “nuova frontiera”.

Apparentemente un pasticcio. In realtà la più incredibile musica partorita durante l’apologo della stagione new-wave.

E “nuovi” lo furono per davvero, i WOV, almeno per lo spazio dei primi due immensi album. Cavalcavano nella polvere del deserto, ma circondati dai neon dei cavalcavia di Los Angeles.

Sirene ululanti, luci rosse e blu, spie dentro macchine rubate e iguane cotte al barbecue: lì dentro c’era praticamente tutto. Due dischi da epopea post-moderna.

 

Country music dell’era digitale. Pistoleri con i cappotti sporchi di polvere di silicio.

Belle da schiantare le musiche dei Wall of Voodoo, sospese tra noir e spaghetti western, tra epiche arie da frontiera texana e inquietanti architetture sintetiche. Sintetizzatori, Hohner morriconiane, chitarre figlie di Duane Eddy e Tex Owens e la voce atipica, nasale di Stan Ridgway ovvero il più grande narratore di storie dell’epoca new-wave. L’unico in grado di raccontarti un intero romanzo nel giro di tre minuti (i suoi album solisti, The Big Heat in testa, sono autentici saggi di sceneggiature bonsai, NdLYS). Un’alchimia perfetta tra futuro e tradizione. Talmente perfetta che durerà lo spazio di due soli dischi, finendo per banalizzarsi una volta alterata la tavola periodica che l’aveva generata (con l’ingresso di Andy Prieboy nel ruolo di cowboy lasciato vacante da Ridgway). E talmente inviolabile che nessuno, NESSUNO, avrebbe più osato miscelare quelle cazzo di polveri che l’avevano generata. Nessuno avrebbe mai più suonato come i Wall of Voodoo, sancendone il definitivo stato di band-culto.

 

Cosa separa il paradiso dall’inferno?

Un deserto di sabbia e di pietra infuocata.

Una distesa di polvere rossa.

Un Continente Buio dove tutti sono eroi.

Dove ogni campana suona per te.

Dove ogni luce rossa lampeggia per te.

Dove ogni sirena fende il buio della notte solo, esclusivamente per te.

 

Era questo, oltre alla sua innovativa e peculiare fusione di elementi new-wave, elettronici e vagamente morriconiani, il punto di forza della musica dei primi Wall of Voodoo. Ciò che li rendeva unici ed irripetibili, che li distingueva concettualmente da altri eroi del synth-pop (i Devo, i Suicide, i Depeche Mode, i Kraftwerk): questa totale identificazione tra i protagonisti delle storie surreali di Ridgway e noi ascoltatori in un gioco di ruolo facilmente assimilabile, complice la struttura vagamente western delle canzoni e la voce atonale, vulnerabile di Stan, a quella cinematografica dei film di Sergio Leone e alla sua epopea del vecchio west. Dark Continent è uno dei debutti più importanti di tutta la new-wave americana.

Un disco dove l’elettronica è sempre incalzante ma non è mai protagonista assoluta ed è costretta a venire a patti con la tradizione a stelle e strisce dell’armonica a bocca o della chitarra twangy.

Un disco dal taglio epico e decadente, con i beat della drum machine che picchiano come zoccoli di un cavallo al galoppo, le chitarre che svisano in polverosi richiami al Morricone degli spaghetti-western, le tastiere che tracciano ipnotiche linee da film di spionaggio, la batteria di Joe Nanini che sbuffa come una locomotiva e l’armonica mariachi di Stan che geme come il fischio del vento tra le ossa dei teschi del deserto. Un rodeo meccanico di bit pulsanti e di riff sghembi che si muove con disinvoltura dal drammatico (Red Light, Crack the Bell, Back in Flesh) al buffo (Animal Day, Full of Tension, Call Box) e che rappresenta l’esatta deriva sintetica del mondo grottesco e paradossale dei Cramps (quando vola la TseTse Fly come non andare con la mente alla loro Human Fly? e quando passano i vagoni di Two Minutes Till Lunch con la sua chitarra riverberata come non pensare al tremolo di Poison Ivy?).

Seppure i dischi che lo avevano preceduto (l’omonimo EP del 1980 e il debutto Dark Continent dell’anno successivo) gli fossero assolutamente equivalenti se non superiori in termini di contenuti, Call of the West dell’82 contiene quella perla di Mexican Radio: uno di quei pezzi che la Apple dovrebbe inserire da default su ogni Ipod e senza il quale un’isola deserta diventerebbe un luogo banale come la riviera romagnola.

Andamento ciondolante e voci captate da una radio di confine, Mexican Radio è un’autentica cavalcata attraverso il deserto americano. E’ un cavallo che attraversa la frontiera portandosi addosso la polvere rossa del canyon e l’odore del whisky tracannato dal suo cowboy. Un luogo-non luogo da inserire nel programma per il World Heritage Fund.

Ma non è l’unica perla di un disco enorme. C’è la dolcissima cantilena cibernetica di Lost Weekend (ambientata in una delle “location” preferite da Stan per dipingere le sue vignette: quella delle automobili in fuga), quel capolavoro assoluto di Factory, paradigma tutto della teatralità mutante della musica dei WoV col suo tappeto di armoniche a bocca e sintetizzatori e quel parlato “immobile” di Ridgway, oppure il passo marziale e funereo di They Don‘t Want Me o ancora il tribalismo plastico che farcisce il sarcasmo di Spy World dove la vocazione per un “glamourous job” come quello dell’agente segreto si spegne infine con una ammissione grottesca come “I‘m tired of wearing these sunglasses” detta tra I denti. Look at Their Way e Hands of Love simulano altre tessiture glaciali, farcite di rumorismi assortiti fino all’apoteosi finale della melodrammatica Call of the West, il mito della frontiera fatto a pezzi da un’irrisolta frattura interiore. La corsa all’Ovest che diventa una raccolta di cocci dei propri fantasmi, come un The Wall ambientato nella striscia del confine americano, tra coyotes che ululano alla luna, carcasse umane impiccate agli alberi di cactus e iene che ridono ad ogni tuo passo.

Mostri meccanici che camminano tra serpenti a sonagli e mucchi di ossa bovine.

 

Dopo l’addio di Stan Ridgway i Wall of Voodoo scenderanno velocemente i gradini dell’oblio bruciando per sempre e in maniera perversamente oscena una delle più avvincenti e insolite storie della new-wave americana.

“Non erano più i Wall of Voodoo” ammetterà Stan anni dopo. E fu chiaro a tutti che non lo sarebbero più stati. Andy Prieboy, l’affascinante pistolero che viene chiamato a rimpiazzare Ridgway all’indomani del tour del 1983 non ha lo stesso carisma del suo predecessore, a dispetto del suo look da cowboy gentiluomo. Per rinvigorire il gruppo è necessario richiamare alle armi Bruce Moreland che fa quel che può ma non abbastanza per salvare Seven Days in Sammystown dallo sfacelo.

La dignità è garantita da un paio di tracce: Big City incalzante e dinamica come ai vecchi tempi e la già più prevedibile spaghettata western di Far Side of Crazy fatta con i fagioli in scatola. Tutto il resto (con un po’ di rammarico per il nervoso scioglilingua alla Adam and The Ants di Room with a View, NdLYS) scivola nell’oblio, prodotto malamente da Ian Broudie. Uno che ha più simpatia per le chitarre che per le tastiere. E che quindi azzanna il suono dei Wall of Voodoo più di quanto non sia già monco di suo. Il suono della band losangelina sembra essersi inceppato e l’assenza della voce e dell’armonica a bocca di Stan Ridgway pesa nonostante tutto e a dispetto degli sforzi dei fratelli Moreland e di quelli del nuovo frontman.

A Sammystown, il settimo giorno, Dio si riposò.

Il peggio però deve ancora arrivare. Ma arriva.

Nel 1987 i WoV danno alle stampe Happy Planet. Loro sono schierati in fila, come dei Kraftwerk proiettati nella Chicago degli anni ’20. Uno sguardo al futuro e uno, più profondo e nostalgico, al passato. Happy Planet è infatti, nelle intenzioni, un disco che rende omaggio alla memoria. Brian Wilson è la nuova icona (è sua la Do It Again che apre il disco e sua la faccia presa in prestito per il video del singolo) ma anche Elvis e il mondo del cinema fanno parte del Pianeta Felice che tale è solo nel titolo. Perché in realtà se qualche sorriso c’è, è più un sogghigno che una reale smorfia di gioia.       

Dal synth-pop al pop sintetico.

La metamorfosi è dunque compiuta.

La spiaggia californiana al posto del deserto del Messico.

Cernie invece dell’iguana a friggere sul barbecue, nonostante attorno alla griglia sia tornato il vecchio produttore Richard Mazda.

L’Happy Planet sembra in realtà il set di I’m a Celebrity…Get Me Out of Here!. Analoga tristezza, analogo simulato sfoggio di imbarazzata normalità, analoga parata di vecchie star di cui nessuno ricorda le gesta.

E infatti, come per la troupe del reality show, i Wall of Voodoo si trasferiscono in Australia, l’unica terra che pare gradire la loro mutazione genetica, a chiudere la loro carriera, come vecchi elefanti pronti a morire. La testimonianza di quell’ultimo tour, orfano nuovamente di Bruce Moreland come già successo cinque anni prima all’indomani di Dark Continent, è quello che la I.R.S. pubblica a band ormai sciolta con il titolo di The Ugly Americans in Australia per cercare di mettere in cassa qualche altro dollaro australiano e guadagnarci col cambio. Un disco costruito sul nulla con Andy costretto a parodiare Ridgway sui classicissimi della band (Red Light, Ring of Fire, Mexican Radio) e a provare a lanciare in orbita gli ultimi successi come Far Side of Crazy, Blackboard Sky, The Grass Is Greener e qualche nuovo brano di cui è meglio tacere e su cui la band stessa ha già deciso di porre una pietra tombale.  

Nel 1989, poco prima del Muro di Berlino, crolla il Muro del Voodoo. 

Dio abbia in gloria i Wall of Voodoo e vegli sui loro sepolcri.

 

E ora, che con gli anni mi sono diseducato alla felicità ed è cresciuta l’invidia per voi che stretti nelle vostre giacche di sartoria e soffocati dai nodi delle vostre cravatte salite pieni di accessori sulle vostre SUV lucide come le gambe delle vostre mogli dopo la depilazione. Notebook, bluetooth, tom-tom, I-Pad, guanti di lattice e boccetta di Amuchina e via, verso l’approdo sereno del vostro ufficio lindo e profumato, pronti a lucidare qualche sedere o a farvi leccare il vostro.

Vi invidio, tribù di terrestri.

Vi guardo dal buco della mia parete di tufo e vi ammiro.

Poi però metto su un disco dei Wall of Voodoo e torno a sbattermene del mondo.

Quello vostro, intendo.

Mi siedo sul mio toro meccanico e giro per la pampa messicana cantando Mexican Radio, divento un agente dei servizi segreti in fuga mente ascolto Red Light, mi sistemo il bolo e i cinturoni mentre passa Far Side of Crazy, provo a disegnare un cuore che non sanguina mentre incalza Crack the Bell, sistemo i miei fagioli in scatola nelle bisacce intonando Call of the West, preparo il mio barbecue sotto la pioggia di microchip di Factory, fumo il mio peyote alle porte del deserto del Mojave spinto dai cingoli elettronici di Big City, lucido i miei speroni dopo aver attraversato la palude di Ring of Fire e non vi invidio più quando volo sull’Interstate 15.

Vi guardo come un bonzo dalla sua pagoda e rido di voi.

E tengo il conto dei capelli che ho perso, come un bambino che ha paura della carie.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

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7 thoughts on “WALL OF VOODOO – Urban Cowboys

  1. Mentre in sottofondo c’e Copendium casualmente ma non troppo leggo il tuo blog e vado a
    Wall Of Woodoo, uno dei miei gruppi preferiti, solitamente leggo ma non commento.
    Adesso si, solo per dirti che questa e la cosa piu’ bella letta su Wall Of Woodoo.
    Complimenti.
    Giovanni da Roma
    Una curiosita’, non scrivi piu’ su Rumore?
    Ciao

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