Pete Townshend spera di poter morire giovane.
Il tempo gli darà l’opportunità di potersi smentire.
Lui per primo sa che sta mentendo.
Eppure è proprio così: l’età uccide. Le idee, i sogni, le ambizioni, la rabbia.
Uccide tutto quello che loro rappresentano nel 1965.
Loro CHI? Gli Who. Piccoli “vandali vestiti da chierichetti” (come li definirà Kit Lambert, l’uomo che assieme a Chris Stamp si occupa di creare l’immagine del gruppo, NdLYS) costretti a suonare in locali così piccoli che faticano a muoversi sul palco con gli strumenti addosso. Locali che sono taverne. Come quella del Railway Hotel di Harrow. Un buco dove i Who nel Settembre del 1964 suonano di malavoglia, sfiancati dal caldo e con le teste piegate.
E fanno la loro fortuna.
Perchè è qui che Pete Townshend, in un maldestro movimento, fora con la paletta della sua Rickenbacker 360 il solaio posticcio che copre il palco suscitando l’ilarità dei presenti, compresa quella di alcuni compagni dell’Art School contro la quale lui sta combattendo per via della sua proboscide. Pete non può lasciare che accada di nuovo, non mentre suona con la sua band. Così afferra il toro per le corna e trasforma l’incidente in un’arte, riducendo a brandelli il suo strumento.
Jerry Lee Lewis lo aveva già fatto. Ma nessuno prima d’ora lo aveva fatto con una chitarra elettrica.
Il pubblico è in delirio. Gli Who sono appena nati e sono già entrati nella storia, passando per l’ufficio dello sfasciacarrozze.
È sempre là che Kit Lambert lì nota mentre sta girando alla ricerca di un gruppo sconosciuto ma con una identità forte e guerriera per un film pop che vuole documentare il fermento della scena musicale della Capitale.
Il film non uscirà mai. Ma alla fine dell’anno successivo, quando la band ha già licenziato e riassunto Roger Daltrey a causa del suo temperamento incandescente, esce My Generation, l’album-manifesto della generazione mod inglese. Poi ne verranno tanti altri, Quadrophenia su tutti, ma-ma-ma-My Generation è quello che forgia il movimento e ne legittima l’esistenza.
L’idea iniziale è quella di mettere su un disco con la collezione northern soul che i ragazzi portano nei club sin dai tempi in cui si chiamavano Detours e High Numbers: Ooh Poo Pah Doo, Leavin’ Here, Anytime You Want Me, I‘m a Man, Please Please Please, Daddy Rolling Stone, Got Love If You Want It ma il repertorio che Townshend sta mettendo su è così convincente che Shel Talmy, il produttore dei Kinks che Pete convince a produrre il gruppo dopo avergli fatto ascoltare esattamente un anno prima il riff di I Can‘t Explain per telefono, decide di gettare via gran parte delle covers e riaggiornare la scaletta con i pezzi del gruppo.
In cinque giorni il disco è già pronto.
Settimana corta, per gli impiegati del rock ‘n roll, che possono concedersi il loro fine settimana a base di zuffe, anfetamine e feste da ballo.
My Generation è un disco scoppiettante, come i candelotti di dinamite che sono una delle passioni di Keith Moon, il matto giocoliere seduto dietro la batteria che di tanto in tanto si diverte a riempire di esplosivo, a completare le coreografie distruttive che fanno il successo del gruppo e lasciano sgomenti pubblico e presentatori televisivi.
Keith, come Pete, ha uno stile tutto suo. A differenza di tutti gli altri batteristi girati verso il rullante, Keith suona “frontale”, così da percuotere con agilità e scioltezza tutto quello che il suo kit gli offre. E lui picchia ovunque. Tamburi e piatti. È un polipo con le bacchette in mano e un sorriso da eterno bambino in faccia.
L’album tiene però il freno innestato sull’irruenza live del quartetto concentrandosi più sull’eleganza melodica dei pezzi (con grande lavoro sulle voci, caratteristica costante di tutti i dischi degli Who, NdLYS) che sulla loro forza esplosiva. Ma siamo in un’epoca in cui sono ancora i singoli a dettare le leggi di mercato, ed è in questa direzione che Talmy, Stamp e Lambert guardano: canzoni brevi ed efficaci, messe una di fianco all’ altra pur mettendo in luce nature spesso diverse, mostrando la mutazione in atto nel gruppo che sta lentamente abbandonando le marcate tinte soul e doo-wop degli esordi (qui ben rappresentate dalle due cover di James Brown) e le dure offensive kinksiane (The Kids Are Alright, My Generation, Out in the Streets, A Legal Matter) in favore di un suono più elaborato e sfuggente (The Good‘s Gone, Circles, Much Too Much, The Ox) che si apre alle contaminazioni con la psichedelia, la musica da circo, il proto-hard che troveranno forma compiuta nei dischi successivi e soprattutto, una omogeneità concettuale che creerà i piccoli (Sell Out), grandi (Quadrophenia, Tommy, A Quick One) e impossibili (Lifehouse) capolavori su cui Pete Townshend spenderà notti insonni. My Generation buca l’appuntamento con l’eccellenza, ma ci mostra una band che non ha ancora fatto i conti con l’auto indulgenza e la prosopopea solenne che ne incrineranno l’urgenza espressiva dei primi incredibili singoli e di quel balbettio molesto che ancora oggi rimane il manifesto di ogni scontro ideologico tra il vecchio che puzza di muffa e il nuovo che spinge da sotto. Why don’t you all f-f-fade away?
Franco “Lys” Dimauro
