Il sarcofago che chiude i resti dell’alternative-rock americano pre-Nirvana si intitola Daydream Nation, il disco con cui i Sonic Youth suggellano un decennio su cui la loro ombra si è stesa come un mantello e del quale essi stessi sono diventati emblema estetico e riferimento vocazionale.
Un’egemonia condivisa con pochi altri (R.E.M e Hüsker Dü su tutti) e che verrà rimessa in discussione nel decennio che è alle porte proprio dai Nirvana, dei quali lo stesso Thurston Moore rimarrà folgorato tanto da portarseli a spasso all’epoca del tour di Goo e mediare con la Geffen per la stesura del loro contratto post-Bleach. Anni più tardi sarà proprio Thurston a firmare le note di copertina per il cofanetto commemorativo With the Lights Out.
Ma quella è un’altra storia.
Prima e dopo i Nirvana ci sono i Sonic Youth.
Soprattutto prima.
Gli intricati nodi di rumore delle prime prove discografiche e dei primi concerti del gruppo newyorkese si sono via via slegati per riannodarsi attorno a un concetto, un ideogramma di rock-song. Le limitazioni imposte dal formato-canzone erano tuttavia il più grande scoglio da superare per una band che aveva fino ad allora costruito se stessa sul concetto di improvvisazione se non addirittura di irriproducibilità delle proprie composizioni.
L’ostacolo venne parzialmente superato con la scelta di pubblicare un album doppio, sfruttando a fondo il budget messo a disposizione dalla Blast First (l’Enigma, responsabile della stampa americana del disco cercherà di risparmiare mettendo in giro delle copie con delle copertine di qualità mediocre, NdLYS).
Un disco che rappresenti il lato sperimentale della band ma anche la capacità di sintesi perfezionata con i dischi del periodo SST.
Un disco che celebra finalmente l’incontro a metà strada tra loro e un pubblico sempre più attento e assuefatto al rumore, un pubblico che ha progressivamente sostituito la stima fine a se stessa con l’ascolto attento e consapevole e che adesso è pronto a rovistare tra le macerie del rumore e tirare fuori quello che vi è sepolto sotto senza esserne schifato.
Un disco che si propone ironicamente, ma poi neppure tanto, come un “classico”.
Come il quarto degli Zeppelin a cui in nostri rubano l’idea degli istogrammi per rappresentare le quattro personalità della band.
E difatti, al di là dell’ovvietà, Daydream Nation rappresenta il “classico” del noise-rock, così come Zen Arcade lo era stato per l’hardcore e Double Nickels on the Dime per il punk sperimentale. Tre album che rinnovano i linguaggi musicali adolescenziali e al tempo stesso li accostano a una ritrovata coscienza politica e morale.
Tre album che sono le tre arche di Noè che porteranno in salvo l’alternative rock americano spingendolo ad oltrepassare i confini e fotografando ogni momento, dall’imbarco all’approdo.
Tutto lo scibile tecnico ed espressivo collaudato per un decennio dai Sonic Youth trova qui una sua forma compiuta, una sua configurazione ergonomica, riservandosi pure il suo spazio per la feroce dissimulazione del sogno americano, soprattutto nei 14 minuti di Trilogy. Dissonanze, accordi reiterati, accordature strampalate, giochi di armonici, canto monocorde e inespressivo, frenesia ritmica, tensione, rarefazioni, scatti repentini, sfuriate hardcore, clangori metallici, abrasioni elettriche, truci muri di chitarre.
I Sonic Youth pisciano torbido su quello che sono stati gli anni Ottanta, preparando il terreno per le lordure grunge che stanno per abbattersi sul continente.
Franco “Lys” Dimauro