URBAN DANCE SQUAD – Persona Non Grata (Triple X)

All’alba degli anni Novanta, il morbo del cross-over sta divorando il mondo.

Metal, funky, noise e hip-hop si stringono in un abbraccio che sembrerebbe eterno.

Non lo sarà.

Ma la febbre degli “incroci” coinvolge un po’ tutti, musicisti, stampa, ascoltatori, case discografiche.

Tutte le crew di rap vogliono una chitarra, tutti i gruppi alternativi vogliono un DJ alle loro spalle, o un MC con cui dividere il microfono.

Che si chiamino Ice-T, Sonic Youth, Boo-Ya Tribe, Faith No More, Pearl Jam, R.E.M., Cypress Hill o Dinosaur Jr. poco importa.

Come ogni nuova influenza virale, man mano che il virus si modifica, c’è chi si rialza dal letto più forte di prima e chi ci lascia le penne.  

Insomma, un casino.

Gli Urban Dance Squad vengono da Amsterdam e nascono già “contaminati”, folgorati dalle smanie macho-funk dei Red Hot Chili Peppers.

Hanno un chitarrista che si chiama Tres Manos.

Ma a loro non bastano: ne aggiungono altre due, posizionate sopra delle ruote d’acciaio, come ai tempi di Grandmaster Flash. Cominciano a sperimentare campionando vecchi vinili di Ray Barretto e Otis Redding e suonandoci sopra.

Ne viene fuori un bel disco di soul music moderna, tonda come le chiappe sulla copertina di Trick Bag dei Meters.

Life ‘n Perspectives due anni dopo riaggiusta le dosi: la musica nera sbiadisce come la pelle di Michael Jackson e Tres Manos informa il mondo che non solo lui ha tre mani, ma ha pure due piedi.

Uno dei quali perennemente poggiato su un distorsore, o quasi.

Dj DNA non è molto contento della cosa e, così come era stato il primo deejay a entrare a tempo pieno in una formazione di impianto rock, è il primo ad andarsene.

Quando esce Persona Non Grata i Dance Squad sono già un quartetto.

Come i Rage Against the Machine che nel frattempo stanno mettendo a ferro e fuoco il mondo intero. Solo che, a differenza di Tom Morello che cerca di tirare fuori dalla sua chitarra dei suoni fischianti che possano essere confusi con quelli di un turntablist, Tres Manos continua a fare la sua cosa, fottendosene del resto.

Ne viene fuori il disco più duro della band Olandese: portentosi riffs di chitarra su cui le rime di Rudeboy si scuotono come palline dentro un flipper.

Demagogia funky e apologia dei Beastie Boys come quella sputata sul pezzo di apertura, manifesto della “nuova onda” degli UDS.

Il suono si è volgarizzato, perdendo la grazia “colta” dei samples di DNA però l’album funziona a meraviglia e ha quella compattezza che prima mancava.

Non è un album di cocci, ma un macigno.

Se prima la band lanciava sassi da un mosaico bizantino, ora lanciano massi da una cava di pietra. E i vetri vanno in frantumi.

È una gangbang di chitarre distorte con tutto il corredo di ordinanza e che trova il suo naturale sbocco nel nuovo assetto live del gruppo, in questa doppia ristampa ben documentata dal secondo cd che riprende quello del 12 aprile 1995 al Double Door di Chicago.

Da allora si comincerà a vociferare del decesso del rock. Senza rendersi conto che si era semplicemente spostato, mentre gli allocchi continuavano a guardare sempre nella stessa direzione.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

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