La (apparente) pausa discografica tra It’s a Love Cult e Black Hole/Black Canvas porta a risultati prodigiosi. Nel frattempo Håkon Gebhardt ha modo di annoiarsi e lasciare il posto vacante, un “buco nero”. Black Hole/Black Canvas è pertanto l’unico lavoro del terzetto norvegese a non essere registrato in trio.
Ma, nonostante le premesse infauste, è un disco che riporta i Motorpsycho ai fasti del decennio precedente e scioglie gli zuccheri dei dischi che lo hanno preceduto in un (nuovamente) vigoroso impasto di acidi psichedelici e hard-rock proteinico.
Tecnicamente si tratta di un ottimo compromesso tra il furioso grunge dei dischi degli anni Novanta e la visione pop degli ultimi lavori, con l’obiettivo focalizzato sugli elementi chiave della forma-canzone (riff, ritornello, melodia, assolo) piuttosto che sulle sovrastrutture di sostegno e sul climax d’insieme riuscendo quindi a trovare un abilissimo equilibrio fra i due tipi di approccio.
Un doppio album che regala all’antologia della band alcuni tra i passi più memorabili del già fittissimo canzoniere: gli intrecci Sonic Youth di No Evil e Kill Devil Hills, le cavalcate hard raggrinzite come un lenzuolo grunge di Hyena e The Ace, gli spasmi di In Our Tree e L.T.E.C., il brutale passo Blue Cheer di Coalmine Pony, la ballata alla Dinosaur Jr. di With Trixeene Trough the Mirror, I Dream with Open Eyes, la fuga chitarristica di Before the Flood. Concepito senza troppa autoindulgenza, pensando più ad illustri precedenti altrui come Daydream Nation e Zen Arcade che ai propri, Black Hole/Black Canvas diventa la nuova vetta da cui i Motorpsycho guardano il mondo.
Franco “Lys” Dimauro