La copertina è di quelle buone per i dischi da edicola, da mettere a fianco agli espositori delle Mentos® con analoga linguaccia, messe sul mercato proprio a ridosso dell’uscita di Blue & Lonesome, ventitreesimo (e probabilmente ultimo) album dei Rolling Stones che, troppo annoiati per scrivere qualche nuova canzone, decidono di affidarsi ai più banali dei blues da birreria per tirarne su la scaletta.
Un disco in cui le emozioni stanno a zero, abbattute da un semplice compitino in classe. Un po’ come chiedere la certificazione di conformità al proprio elettricista di fiducia, e metterla in carpetta. Un disco dove si suona il blues e lo si suona benissimo. “Il ritorno alle radici”, diranno in tanti (lo hanno già detto, prima di avere il disco sul piatto, pregustando l’odore di salsa di pomodoro misto a legna che esce dal forno mentre preparano la loro pizza margherita), ma solo presunto. Perché laddove i primi dischi degli Stones, quelli in cui gli esercizi erano fatti sul medesimo ciclostile, tuonavano di urgenza e praticantato giovanile e avevano lo scopo di educare i loro coetanei alla forza primitiva e selvaggia della musica nera, Blue & Lonesome per forza di cose non ha nulla di tutto ciò. Di dischi così nei cinquanta anni che lo separano dagli altri ne sono passati a tonnellate. Di canzoni così si è riempita la radio, la tivù, la rete e scendendo sul personale, anche qualcos’altro.
Nessun ritorno alle radici quindi. Solo un disco da regalare a quell’amico che ama B.B. King ed Eric Clapton (ah…a proposito, è anche lui qui dentro guarda caso) e non disdegna Zucchero.
Magari di canna, che è più grezzo.
Il che fa molto blues. Non è così?
Franco “Lys” Dimauro