Una ragazza non più giovanissima ma col volto fresco da studentessa, col braccio appoggiato alla finestra che canticchia una canzone “nuda”, senza alcun accompagnamento. Come quando si è da soli al ristorante, in attesa di un pasto o di un caffè. Una ripresa dall’esterno si alterna con una dall’interno. Per due minuti e poi sfuma, come in tutti i video degli anni Ottanta. Il budget è poverissimo ma l’investimento è insolito: fare un videoclip su una canzone senza strumenti. Tom’s Diner apre così, mettendoci da subito in confidenza col mondo intimo di Suzanne Vega, il secondo album della folksinger trapiantata a New York. È una delle canzoni più anziane del disco ma la palma di più vecchia spetta a Gypsy, scritta quando la ventottenne Suzanne di anni ne aveva appena compiuti diciotto.
Spetta ancora una volta a Lenny Kaye ricucire tutto in una sequenza organica e filtrare quelle immagini attraverso un tubo catodico che possa incollare gli ascoltatori allo stereo come spettatori davanti alla tv, trovare il “piano sequenza” giusto perché una ragazza con i guanti di velluto possa farsi un varco fra i colossi che quell’anno portano i nomi di The Joshua Tree, Appetite for Destruction, Sign O’ the Times, Bad, …Nothing Like the Sun, Kick.
Rispetto al disco di esordio stavolta i musicisti vengono coinvolti anche in fase compositiva pur senza invadere la comfort zone di Suzanne Vega, con misurata prossimità, perché in fondo Solitude Standing è un disco che parla di incomunicabilità e di solitudini abissali e disperate come quella di Luka, quella di Calypso o come quella di Casper Hauser. Una collezione di foglie secche da sfogliare mentre gli alberi sono in fiore, distribuendo lo sguardo fra le nostre ginocchia e il cielo finché il mostro non diventi tanto grande da non poterlo più sopportare.
Franco “Lys” Dimauro
