È il 1962 quando i Beach Boys prendono le armonie vocali doo-wop e le agganciano ai riff di Chuck Berry. Poi, dalla riva, raccontano quel che succede fra le onde che loro non riescono a cavalcare ma che altri usano come una pista acquatica semovibile. Così, da un granello di sabbia, inventano la California e i suoi archetipi climatici e di genere (“blue eyes, blonde hair, lips like a movie star”) perennemente attivati in modalità “fun” (“surfin’ is the only life, the only way for me”).
La spiaggia come un immenso parco divertimenti dove è possibile dimenticare la noia domestica o, come nel caso dei fratelli Wilson, le cinghiate e i pugni in testa del padre, proprio quel Murry Wilson che si impone da subito come manager del gruppo, privando i figli anche di quella libertà artistica che il successo del primo singolo gli sta già garantendo e su cui lui si butta come uno sparviero, cercando di placare l’acredine accumulata per non essere riuscito a fare in quarantacinque anni quello che i figli hanno fatto in sei mesi e intestandosi i diritti delle canzoni dei Beach Boys per poi rivenderle per l’equivalente di cinque milioni di dollari odierni nel 1969. Insomma, di merda su cui galleggiare ne hanno tanta i Beach Boys. Eppure la loro musica suona sempre come la celebrazione del divertimento più sfrenato e del disimpegno come legge universale, vendendo al mondo un’immagine spensierata a metà strada fra quella dei cherubini e quella di una boy band provocando la prima febbre pandemica dai tempi di Elvis mentre a Liverpool quattro coetanei trascinano a spalla i loro strumenti dal Cavern Club dentro gli studi di Abbey Road per preparare un antidoto similia similibus curantur.
Franco “Lys” Dimauro