DAFT PUNK – Random Access Memories (Columbia)

La musica dei Daft Punk è il punto di intersezione tra la coolness e la tamarraggine.

Tra la voglia di fuga e la voglia di figa.

Nel senso che ciò che è mascherato da invito al cyberspazio è in realtà un invito a ballare. I Daft Punk abitano in quel punto da anni, seduti nella loro astronave che punta allo spazio ma con gli occhi incollati allo specchietto retrovisore.

Come se ti dovessero portare chissà in quali mondi e rimanendo invece sempre nel medesimo punto da dove si era partiti. Come quelle giostre in 3D che si scuotono come tori di un rodeo nei luna park di tutto il mondo.

Quello che Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homen-Christo vendono è in fondo la stessa illusione.

L’illusione di un viaggio intergalattico che, se viaggio è, non è altro che un viaggio all’indietro nella memoria. La loro, la nostra.

Synth-pop, funky, disco, house, techno, ambient.

Con la novità, stavolta, che la musica biologica ha preso il sopravvento su quella creata in laboratorio.

Il singolo Get Lucky, in tutta la sua demenziale essenzialità funky, è di quelli che funzionano. Lo dimostrano le statistiche di Spotify e non solo.

Un pezzo costruito (e destinato a) per diventare un tormentone. O un tormento.

Dipende da che livello di contagio riuscite a sopportare. Però, al di là delle valutazioni critiche che si possono fare su un pezzo costruito su un unico, insistente riff (suonato da Nile Rodgers) e uno scioglilingua da movida estiva, Get Lucky è l’unico brano del nuovo Daft Punk in grado di brillare della luce della storica Music Sounds Better with You. Per il resto Random Access Memories non mantiene quello che sembrerebbe promettere o che potrebbe giustificare l’hype che si è nuovamente cementificato attorno al duo parigino. Mi chiedo ad esempio a chi potrebbe interessare qualcosa di sorbirsi un’intervista a Giorgio Moroder su una base electro lunga nove minuti che ci fa rimpiangere Sandy Marton, di un triste musical pinkfloydiano come Touch o di un Einaudi stuprato dal vocoder come Within. E del resto, essendo in giro (vi piaccia o meno) il nuovo Strokes, anche qualche numero come Instant Crush o Beyond ha pochi motivi per esistere così come del resto avendo in casa C’est Chic, TNT o Aja diventano del tutto superflue Give Life Back to Music, Motherboard e Fragments of Time.

E chi ha rughe abbastanza profonde per ricordarsi dei dischi di Alan Parsons Project, Yellow Magic Orchestra, Jean Michel Jarre o addirittura Christopher Cross troverà inutile tutto il resto. Ma Random Access Memories è un disco destinato ai Supergiovani. Quelli, per intenderci, che non sanno neppure cos’era Discoring ma a volte rimangono affascinati da certi pantaloni a zampa d’elefante e dalle palle a specchio che passano sui canali di Vintage.  

Non è un disco per figli di puttana.

È un disco per figli e basta.

La modernità di cui si fascia, la robotica cartoonesca ostentata a livello estetico, il tessuto misto-sintetico con cui viene avvolto, noi lo abbiamo già bazzicato più e più volte, anche quando erano loro stessi a riproporlo ai tempi di Da Funk.

Ed è una miccia stilistica ormai disinnescata.

Random Access Memories è quindi, al di là della saporita lista di ospiti e della produzione sontuosa e curata (cosa ormai quasi alla portata di tutti, il che non dovrebbe più essere una notizia, NdLYS) un album modaiolo (il vecchio che fa trendy) ma sgombro di idee.

Uno di quelli in cui i riempitivi durano più delle due/tre canzoni necessarie.

Un disco che, porzionato, può andare bene per l’estate appena iniziata. Ma che, tutto intero, è un interminabile inverno.

My name is Franco Lys Dimauro, but everybody calls me Lys.  

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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