TEENAGE HEAD – “Frantic City” (Attic)

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Dopo il bellissimo disco di debutto i Teenage Head proseguono verso una canonizzazione estetica che passa fondamentalmente attraverso una rilettura ortodossa del rock and roll di base: le riletture di Somethin’ Else, Wild One e Brand New Cadillac e pezzi autoctoni come Somethin’ on My Mind e Those Things to Do ne chiariscono gli intenti lasciando solo una piccola feritoia da cui il vecchio amore per il punk-rock newyorkese può ancora filtrare e prendere forma nei cinque minuti abbondanti di Infected.

Il pezzo più bello del lotto è però Total Love, piccolo gioiello power-pop che illumina la prima facciata del disco. Disgusteen è invece la traccia più ambiziosa, quella in cui la band canadese prova ad andare oltre il panorama rassicurante che ci hanno mostrato lungo tutto l’album e a mostrarci qualcosa di inedito, una sterzata inaspettata verso una sorta di “drama” musicale che non troverà purtroppo ulteriore sviluppo.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE FALL – Grotesque (After the Gramme) (Rough Trade)

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Come dei cowboy che girano su dei ronzini tra le mura rosse di Manchester e che ogni tanto si fermano per scolarsi qualche bottiglia e urinare. I Fall, con le loro canzoni da due accordi suonate con strumenti che sembrano fatti di latta e cartone, diventano la versione “grottesca” e nord-britannica del rockabilly per cui qualche critico conierà il neologismo di Mancabilly, che è come un rockabilly suonato dai soldati di latta.

Canzoni come The Container Drivers e Pay Your Rates, per intenderci. Con Mark E. Smith che canta come un ufficiale delle SS e i Fall che sembrano un plotone con i fucili inceppati, sgraziati nel portamento e nel loro passo di marcia.  

Rispetto a draGnet e pur nell’immobilità a volte anche prolissa di alcuni pezzi (C ‘n’ C Mithering su tutte) si percepisce che la band mancuniana sta andando da qualche altra parte, anche se non è chiaro in che direzione e senza tuttavia muoversi di un solo millimetro da dove essa ha piantato le sue radici, come un albero secolare piantato nella terra del Nord, cosicché non può far ombra ma solo muovere i suoi rami minacciosi, finendo per agitarsi come una sequoia dalle dita prensili allo scopo di lasciare un’impronta, proiettandosi nel cielo se proprio non può farlo sulla terra. Piombo in un cielo di piombo. Fuliggine nella fuliggine.

In un venerdì orfano del sabato.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CODE BLUE – Code Blue (Warner Bros.)

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Lasciati i Motels prima che diventassero i Motels, Dean Chamberlain forma i Code Blue, una delle tante meteore del power-pop californiano, una di quelle band marginali alla storia del rock che a me piacciono un sacco. Come del resto mi piace un sacco il loro album omonimo, pubblicato nel 1980 dalla Warner Bros., un disco che si muove da una ballata ammiccante come Face to Face tutta gingillante di arpeggi e armonici ad una scatenatissima Other End of Town che verrà ripresa dieci anni dopo dai Droogs, da un reggae di filo spinato come Burning Bridges a una luminosa garage-song come The Need finita cinque anni dopo, a band ormai dissolta assieme ad altri due pezzi dei Code Blue medesimi e a quelli ben più torbidi di Cramps e Horseheads nella bella colonna sonora de I ragazzi della porta accanto , da uno scattante inno mod buono per le corse in Lambretta come Whisper/Touch senza mai perdere di classe a una Somebody Knows che picchia come uno sfollagente ad un raduno oi!.

Una piccola meraviglia perduta dentro la clessidra del tempo.

           

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

JOHN FOXX – Metamatic (Virgin)

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Il sogno di John Foxx di fare degli Ultravox una band all’avanguardia nella gestione dei suoni elettronici era naufragato miseramente scontrandosi con la volontà del resto del gruppo di diventare una rock band. Curiosamente, sia i reduci della vecchia formazione che l’ex-leader giungeranno invece al medesimo risultato una volta scisse le loro strade, realizzando separatamente Vienna e Metamatic, totalmente inghiottiti da quella sorta di buco nero che era diventato il Blitz Club di Steve Strange e che dal Covent Garden, attraverso un buco spazio-temporale, ti portava nel cuore delle Mitteleuropa.

Il biondo Foxx con Metamatic aveva battuto sul tempo gli ex-compagni, pur partendo entrambi dall’elaborazione comune di pezzi come Touch and Go e He’s a Liquid. Roba di qualche mese, ma era bastato per farsi trovare ancora nella top 75 al momento che Vienna viene portato dai distributori ai negozi di dischi. Un disco dove il lato emozionale, quello che Foxx aveva tentato di soffocare in seno alla band, viene totalmente rimosso lasciando spazio ad un suono robotico e “matematico”, figlio diretto dei Kraftwerk e freddo come quell’amore sferzato dal vento dell’Est e tagliato in due da un muro del Bowie di “Heroes”.

Metamatic sembra portare a parziale e formale compimento le teorie evoluzionistiche dell’uomo-macchina di The Man-Machine delineando i tratti dell’”A New Kind of Man” imprigionato in mille diapositive come un ologramma proveniente da una dimensione destinata al cut-off.

John Foxx presta il suo volto al passaggio dall’uomo analogico all’uomo digitale.

                                                                                             Franco “Lys” Dimauro

ULTRAVOX – Vienna (Chrysalis)

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Con l’abbandono di John Foxx e di Robin Simon e il reclutamento di Midge Ure dei Visage gli Ultravox precipitano nel baratro di una leziosità snob che tenta di simulare l’alterità del synth-pop germanico sposandolo all’eleganza new-romantic e alla decadenza neo-esistenziale tutta britannica sottolineata magistralmente dal bianco/nero fulminante di Anton Corbjim. L’album che ne deriva, Vienna o Torque Point che dir si voglia, è un disco altezzoso e presuntuoso sin dalle prime battute, affidate ad una lunga pippa strumentale intitolata Astradyne che tenta l’abbordaggio al synth-pop sinfonico. Mr. X, sulla seconda facciata, fa anche peggio. Ma lo fa leggermente più in fretta, anche se sono sei minuti e mezzo di interminabili scarti dei Kraftwerk.

Il pezzo nodale del lavoro è tuttavia uno dei più gelidi spaccati di tutto il synth-pop inglese: si intitola Vienna ed ha lo stesso soffio gelido dell’Eno degli anni Settanta, l’uomo che aveva fondato la new-wave quando la new-wave non esisteva ancora ed è una sorta di trasposizione dell’Heroes di Bowie nell’altrettanto gelida notte viennese. La batteria, filtrata attraverso una gigantesca macchina Roland, sembra evocare un immaginario di esplosioni lontane come di uno scontro a fuoco che fa da sottofondo al languido fluire dei sintetizzatori, paurosamente simili a quelli usati dai Scott Walker l’anno precedente per la sua The Electrician. Noiosa come i titoli di coda di un film ma in qualche modo iconica, Vienna è il letto del Danubio che separa la vecchia città degli Ultravox da quella nuova che dominerà la vallata del pop inglese per qualche anno.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

XTC – Black Sea (Virgin)

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Disco dalle grandi, grandissime ambizioni, Black Sea. È il disco dove le sovrastrutture beatlesiane cominciano ad agire dentro l’orologio a precisione svizzera degli XTC le cui lancette però sono ancora delle lame affilate come quelle di Travels in Nihilon e Paper and Iron (Notes and Coins) ma pure di quella Respectable Street che in apertura annuncia i Blur con quindici anni di anticipo e alla cui ombra i Madness comporranno la loro Yesterday’s Men.

Ma la lama, nella musica degli XTC, non viene mai affondata del tutto. Come certe katane telescopiche dei provetti illusionisti, scompare e riaffiora dentro un corpo che schiva i colpi muovendosi a scatti, spinta dai pistoni pneumatici dello ska e del reggae (Living Through Another CubaLove at First SightBurning with Optimism’s Flames) fino a spezzarsi dentro le marce pop-art di Sgt. Rock (Is Going to Help Me) e General and Majors come a simulare la Übermarionette di Gordon Craig in preda al singhiozzo.

Aspettando che qualcuno le batta la schiena.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GIORGIO GABER – Pressione bassa (Carosello)

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Un fossato circonda il castello abitato da Gaber e Luporini a cavallo tra gli anni di piombo e gli anni del riflusso.

La contestatissima tournée di Polli di allevamento, storicamente una delle più tormentate di tutta la storia della musica italiana, mette a severa prova la stabilità di Gaber e i rapporti con il suo gruppo di collaboratori storici, primo fra tutti Luporini. Il risultato è uno iato creativo di un paio d’anni.

Il ponte levatoio che Gaber decide di abbassare per superare quel fossato è duplice. Uno più rassicurante e comodo ma che di fatto degrada gradualmente e inavvertitamente proprio dentro quel baratro, quella palude di grigiore e di dubbio che si è insinuata nella mente degli autori. In realtà quel 1980 nasconde un inganno acheo, un cavallo di Troia che, scivolando sul ponte “canzonettaro” di Pressione bassa, si trova ad oltrepassare il guado non visto salvo sputare, una volta passata la sponda, tutto il veleno che Gaber si porta dentro. E se ne porta tanto.

Sono due dischi-cerniera tra il passato della lotta ideologica portata alle conseguenze estreme e di un presente che porta con se la consapevolezza del “non è più il momento”. Per confrontarsi col presente e vagheggiare un’idea di futuro, Gaber si trasferisce a New York, proprio nei giorni in cui uno dei suoi eroi della gioventù viene ucciso all’uscita del suo appartamento al Dakota Palace. E proprio con un copricapo alla Lennon tornerà, dopo una parentesi televisiva necessaria per tirare fiato, su un palco “caldo” come quello organizzato per l’autofinanziamento di Lotta Continua, cantando una Io se fossi Dio che ammutolisce tutti. Dio compreso.

Pressione bassa, crollo di ipotensione dovuto allo scoramento e allo sconforto per una rivoluzione che poteva esserci e non c’è stata, è un disco di ritratti mesti e gucciniani. Un disco dove l’allegria è illogica, ovvero immotivata e l’amore un rifugio destinato a crollare (“Il loro amore moriva come quello di tutti,
come una cosa normale e ricorrente, perché morire e far morire è un’antica usanza che suole aver la gente
” canta sulla conclusiva Il dilemma). Ora che il “sociale” è stato sconfitto e avvilito, è necessaria la ricerca di un nuovo centro di gravità individuale, soggettivo dopo lo scombussolamento che è seguito all’agghiacciante ascesa del fenomeno brigatista e davanti ad un decennio il cui fuoco non riesce ancora a spegnersi ma che viene in qualche modo “oscurato” dalla nascita delle televisioni commerciali dove viene impacchettata una tv che sostituisce all’apocalisse l’apolitica a suon di gettoni d’oro, soubrette scosciate, pubblicità di merende e detersivi per i piatti, mettendo in circolo l’idea farlocca di un nuovo “boom economico” creato in vitro che esiste solo dentro gli studi di Canale 5. Fuori, nel mondo reale, ci sono invece i licenziamenti alla FIAT, il raddoppio del prezzo del petrolio, la strage di Ustica e quell’altra che ferma le lancette della stazione di Bologna alle ore 10.25 di un 2 agosto mai così caldo. Il disimpegno aggredisce la classifica musicale a suon di Loretta Goggi, Heather Parisi, Gianni Togni, Julio Iglesias, Miguel Bosè e sigle dei cartoon. Si respira, lungo le otto tracce di Pressione bassa, un avvilimento e un disfattismo che è l’esatta antitesi della furiosa débâcle di Io se fossi Dio resa possibile dal simulato cambio di soggettiva, con il geniale e megalomane escamotage di sostituirsi all’onnipotente, pur di declamare il suo “personalissimo giudizio universale”. Laddove Io se fossi Dio scava fin dentro la carne, tirando fuori la rabbia occultata nelle viscere come grumi di sangue, Pressione bassa si ferma all’epidermide.            

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE JOE JACKSON BAND – Beat Crazy (A&M)

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Le influenze giamaicane che si annusavano su Look Sharp! e I’m the Man diventano prepotenti su Beat Crazy, con una chiassosa copertina che si discosta dalla severità tutta inglese delle cover dei primi due album e una baraonda grafica che si traduce nella dispersiva scaletta musicale che racchiude.  

Introdotto da un giro che sembra rubato alla Women appena pubblicata dai Foreigner, il terzo disco del musicista dello Staffordshire ha una doppia chiave di lettura: una sincronica che lo impone come l’alternativa “autoriale” al reggae-rock di band come Police e Clash e una diacronica che lascia intravvedere quella tendenza verso le torch-song con cui diventerà una star internazionale qualche anno dopo, con i capolavori di Night and Day e Body and Soul e che qui prende già un clamoroso avvio su un pezzo come One to One e nella più tormentata In Every Dream Home (a Nightmare).

Per il resto Beat Crazy rinuncia in gran parte a quei ganci melodici di cui era ricco il campionario di Jackson e cerca soluzioni più atipiche fino ad approcciare il canone narrativo della dub poetry e le inflessioni ragga e le sincopi ska della musica caraibica.

Joe Jackson esce dal pub e viene travolto dal carnevale. Noi, per un breve tratto, condividiamo la strada con lui.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

PETER GABRIEL – Peter Gabriel (Charisma)

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Non sono solo le chitarre di Paul Weller dei Jam e di Dave Gregory degli XTC a legittimare il terzo album di Peter Gabriel come uno dei capolavori “borderline” della new-wave inglese, quanto piuttosto la sua tensione drammatica e il suo approccio disinvolto verso i suoni contemporanei, la sua capacità di avvinghiare la scrittura archetipica del musicista inglese (quella che qui fa capolino su Family Snapshot) all’art-pop senza apparenti cesure, come se non dovesse dare conto del suo passato. Libero di volarci sopra e, volendo, di cagarci sopra, di accostarsi al nuovo senza l’indugio ottuso di sentirsi già vecchio per quel mondo.

Senza venirne travolto ma mostrando tutta la sua curiosità, Gabriel cede al fascino di musiche taglienti e all’occorrenza percorse da un senso di aspra inquietudine (la Intruder con la quale si introduce in casa nostra animato da pessimi propositi durante le nostre ore di sonno, facendo un rumore che sveglierebbe anche Cristo oppure l’affilata stilettata di I Don’t Remember) per affacciarsi alla fine verso quel “terzo mondo” musicale cui dedicherà grandissima parte della sua vita, con l’immortale inno di Biko, la canzone per i diritti civili per antonomasia, almeno per tutto quel decennio.

Peter Gabriel continua a guardare avanti, lungo una strada di cui non scorge la fine e che svelerà un prodigio nascosto dietro ogni sasso. Si plasma e riplasma all’infinito inseguendo la forma perfetta dell’uovo. Scorza, tuorlo ed albume. Proteine e vita.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

UTOPIA – Deface the Music (Bearsville)

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Abbandonate le velleità prog e convertitisi al pop più spensierato, gli Utopia pubblicano nel 1980 un omaggio “mascherato” alla musica dei Beatles ed a tutto il Merseybeat sulla stregua di quelli realizzati dai Rutles, ovvero operando un rimaneggiamento dei loro riff opportunamente decodificati in giri armonici nuovi che però ne sfruttano il richiamo mnemonico, attivando il trasporto nostalgico e lavorando su una semantica stilistica nitida e definita.

Concepito come atto d’amore verso i Beatles Deface the Music mette in mostra dunque tutti i cliché della musica del quartetto di Liverpool e smaschera la coeva scena power-pop creando un falso d’autore spudorato che rivendica la paternità di un intero genere che a mille miglia di distanza sta vivendo il riflusso del dopo-punk sulle onde di un revival della Beatlemania.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro