YO LA TENGO – Painful (Matador)

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Nell’estate del 1992 gli Yo La Tengo affiancano i My Bloody Valentine e i Buffalo Tom per quattro date fra Canada e Stati Uniti.

Il set della band di Hoboken si apre con una lunghissima jam strumentale di mezz’ora, lasciando interdetti i suoi fans. I Heard You Looking è un pezzo che, sin dal suo titolo sibillino che ancora nessuno conosce, sembra voler portare il pubblico da qualche altra parte, probabilmente proprio sulle braccia dei My Bloody Valentine. La destinazione apparirà più chiara quando, l’anno seguente, uscirà Painful, il disco con cui Yo La Tengo abdicano da sé stessi e si spostano verso un’altra galassia. I Heard You Looking vi appare come traccia conclusiva, ridimensionata ad un terzo della sua durata live. Ad introdurre il viaggio è invece la languida Big Day Coming, lunga uguale, languidissima e appoggiata ad un loop di organo, appena appena accarezzata da un arpeggio di chitarra e qualche borbottio delle valvole che aspettano il loro momento di gloria nella loro gabbia amplificata. Quel momento arriva molto più tardi, nella versione elettrica del pezzo che chiude su un solo accordo l’intera storia del Paisley.

Painful si dibatte fra queste due anime, nello stridente contrasto tra la volontà di allargare a dismisura le maglie del suono fino a renderlo filigranato (Nowhere Near, A Worryng Thing, The Whole of the Law) e quello di identificarsi come dei moderni Efesto in grado di governare un urticante calor bianco che si fa largo sottoforma di lingue mefistofeliche su brani come I Was the Fool Beside You Too Long o Double Dare. La sterzata è netta in direzione shoegaze ma il margine di manovra è ampissimo e produce piccoli capolavori trasversali come Sudden Organ, From a Motel 6 o le due versioni speculari di Big Day Coming, fra le altre.

Gli Yo La Tengo saltano il fossato. Grande quanto tutto l’oceano.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE TELESCOPES – Growing Eyes Becoming String (Fuzz Club)

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Ripescato dopo dieci anni di oblio, Growing Eyes Becoming String avrebbe dovuto essere l’ottavo album dei Telescopes. Invece, slittando di un bel numero di caselle, viene pubblicato, recuperato quando sembrava destinato ad essere andato smarrito per sempre, come sedicesimo tassello di una discografia sempre più corposa e ottundente. Registrato in due sessions separate e rifinito durante l’epidemia di cui serbiamo memoria, esce oggi un disco-capolavoro.

Chicchi di grandine shoegaze grandi come noci trascinati orizzontalmente da un vento tagliente che a volte assumono le forme e le volute di una slavina di piombo, altre volte precipitano in orbite spiraliformi come fossero coriandoli di lapilli, condotti dalla voce profondissima di Stephen Lawrie, Belzebù aristocratico e rabdomante intrappolato in questo mondo che per nostra fortuna ci troviamo a condividere. Perle come Vanishing Lines, Dead Head Lights e il requiem alieno di Get Out of Me riportano in vita i Telescopes più corporei e insieme ricchi di trasparenze vitree. Rivoli shoegaze da un mare in perenne tempesta.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BEBALONCAR – Diary of a Lost Girl (Rubber Soul)

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Avviluppato nel suo spolverino nero il sound dei Bebaloncar torna ad incantarci a due anni dal debutto, riportandoci alla memoria quell’intercapedine degli anni Ottanta che lasciò aperta la camera a gas del dark per farlo evaporare nella nuvola aeriforme dello shoegaze. Di quest’”espansione” i Bebaloncar raccolgono il testimone, senza disperdere il senso di oppressione da cui era stata generata, in un folk chiaroscurale sgombro di ogni frivolezza.

Sono microparticelle che generano per osmosi delle strutture dilatate che ricordano quelle dei Telescopes, culle vellutate dove potersi mettere a covare le proprie frustrazioni e vederle germogliare in qualcosa che valga la pena salvare dalle lordure del mondo.

Oppure coccolarle, sapendo che alla fine sono le cose che ci sono sempre state a fianco.

Sfogliando un diario che è anche il nostro.     

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BEBALONCAR – Suicide Lovers (Rubber Soul)

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La musa ispiratrice è, ovviamente, l’attrice jugoslava ricordata in Italia per Ho incontrato un’ombra e per gli sketch con Lando Buzzanca e Gino Bramieri. Chi si immaginasse però una pioggia di colori vintage alla Pizzicato Five, resterà deluso: Bebaloncar è una band impregnata di umori folk anche abbastanza cupi e introversi, quasi sempre adagiati sui suoni felpati di una chitarra acustica cui si innesta un organo retrò ma anche strumenti orchestrali che ne accentuano la drammaticità, ne forgiano il carattere umbratile, schivo che a me ricorda più Douglas Pearce che i Velvet Underground e i Jesus and Mary Chain citati dalla band stessa e quindi, come è abitudine della pigra stampa ufficiale italiana, adottata per creare il framing del prodotto. L’uso del flauto sprigiona semmai qualche paragone con il neo-folk anglosassone dei primi anni ’70, pur senza assorbirne lo spirito progressista ma riadattandolo al livore contemporaneo, creando un disco di grande fascino. Uno shoegaze inaridito, a piedi scalzi, purulento come le ferite che si aprono sulle piante rinsecchite dei nostri piedi.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BREATHLESS – A piedi scalzi sui carboni ardenti

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Il gioco delle biglie di vetro è un gioco complicatissimo.

Per spostare ogni pezzo non basta essere abili giocatori e neppure scaltri bluffatori.

Occorre essere dei filosofi. Elaborare congetture, conoscere l’alchimia e le ineffabili catene che legano l’arte e lo scibile umano in una maglia esoterica di cui quasi tutti sconoscono non solo le regole ma anche l’esistenza.

È il gioco supremo della mente eletta. Un Monopoli per virtuosi.

Lo inventa Herman Hesse nel 1931. Ed è talmente complicato che egli stesso ci mette più di dieci anni per fantasticare sulle sue regole.

Da allora hanno provato in tanti a giocarci, facendone addirittura una sorta di versione “ignorante” da tavola.

Tra i più bravi, quattro efebici ragazzoni inglesi in apnea con i nomi da epopea gaelica: Dominic Appleton, Gary Mundy, Ari Neufeld, Tristam Latimer-Sayer. 

Una band di cui nessuno pare più ricordarsi ma che allora stregò Ivo-Russell che si rosicò a lungo le mani per non averli nella sua scuderia di purosangue.

The Glass Bead Game fu il disco che presentò al mondo il tedioso e concettuale post-punk dei Breathless, ginecologi capaci di far partorire il corpo macilento dei Joy Division dal ventre psichedelico dei Pink Floyd di Set the Controls for the Heart of the Sun.

Il disco viene registrato in due differenti sessions, con la consulenza del “terzo orecchio” di John Fryer, l’ingegnere del suono, lo stratega che con la sua tecnica di registrazione ovattata avvicina il suono dei Breathless alle profondità delle lagune del mondo 4AD. I pattern di batteria vengono prima amplificati a dismisura poi avvolti dalle spirali di synth e chitarre, quindi ammansiti dalla voce nasale e monocorde di Dominic che se da un lato caratterizza lo stile del gruppo londinese, dall’altra ne rappresenta forse il limite più tangibile, l’ostacolo più evidente alla lievitazione che le strutture stratificate della band invece suggerirebbero.

È come se Dominic portasse inizialmente il suono dei Breathless a sganciarsi da terra e poi gli impedisse di raggiungere le quote prefissate, lasciandolo appena sotto le nuvole. Il gioco delle biglie, per tornare alla metafora iniziale, diventa alla lunga difficile non solo da praticare ma anche da seguire per chi sta seduto a questo tavolo viola, proprio per questa sua uniformità che ne appiattisce e omogeneizza lo svolgimento. 

Rimane il fascino di una musica che si muove come placenta di metallo fuso inquinata dalle sue stesse tossine.   

  

Siamo nel 1987. L’anno in cui anche la vecchia guardia del post-punk inglese si è ormai compromessa abbondantemente con il mercato. L’anno dei Cure di Why Can’t I Be You? e Hot Hot Hot!!!, dei Banshees di The Passenger, dei New Order di True Faith. I Breathless, arroccati nel loro ancestrale castello privato, difendono invece le mura di un suono “a placche” con Three Times and Waving, con nove macchie di mercurio fuso che scivolano su un piano di vetro, seguendo le inclinazioni dell’asse, espandendosi e rimpicciolendosi a formare piccoli grumi molecolari pronti a scollarsi ad ogni nuovo sussulto.

Sono canzoni che rifiutano di farsi imprigionare, quelle dei Breathless. Canti pagani e sciamanici che ricordano la solenne grevezza dei Dead Can Dance. Ma c’è, in questo loro secondo disco, un’ispidezza che se non è del tutto nuova, è di certo più marcata (Say September Sings, Dizzy Life, Three Times and Waving) rispetto al passato. Come di un paradiso inquinato e invaso dalla gramigna, se riuscite a rendere concreta un’immagine simile. Perché in fondo nessun posto è del tutto refrattario alla barbarie.    

 

Coerente allo stile dei primi due album, Chasing Promises conferma la statura dei Breathless come depositari di una formula replicabile all’infinito in cui le canzoni si sviluppano per osmosi facendo precipitare gli elementi che le compongono, legandosi in forme molecolari illimitate ma sempre riconoscibili. Il nuovo album svela da un lato la necessità di approcciare il materiale in maniera più strutturata, dall’altro la tendenza a lasciarsi trascinare inesorabilmente dalla corrente, allungando spesso il risultato oltre la soglia dei sei minuti, ovvero il doppio della durata media di una pop song.    

Martyn Watts conferisce un ritmo più incalzante a pezzi come Smash Palace, Hearburst, Compulsion ma le vette del disco sono le canzoni dal passo più avvolgente ed onirico come Moment by Moment, Better Late than Never, Glow e Here by Chance in cui Joy Division e Cure precipitano in un materasso di acque canterburyane delineando di fatto quelli che saranno i tratti distintivi dei primi Porcupine Tree.

Chasing Promises è un disco imperfetto, embrione di una metamorfosi non ancora compiuta ma di cui si avverte l’esigenza. Una “promessa inseguita”, come onestamente ammettono loro stessi. Fino a che non riusciranno a mantenerla.

 

Quasi all’improvviso la musica dei Breathless sembra ossigenarsi, disfarsi della sua cuticola che sembrava soffocarla e trasformarsi in una crisalide pronta e adatta al volo. Succede all’alba del nuovo decennio, in quel capolavoro di Between Happiness and Heartache in cui le tastiere scompaiono quasi del tutto per venire sopraffatte da un suono cristallino di chitarre arpeggiate (adesso manovrate anche dalla bellissima bassista Ari Neufeld) e, novità assoluta per il quartetto inglese, pronte anche a qualche assalto solista come quelli di Help Me Get Over It e della cover di Flowers Die degli Only Ones oppure nelle falde che scivolano lungo il finale di I Never Know Where You Are.  

La fuga tentata con Chasing Promises diventa adesso compiuta e la ricerca di un approccio meno cerebrale e più attento al songwriting si perfeziona in maniera mirabile anche grazie alla produzione “aperta” di Drostan Madden, che in quel periodo armeggia con la batteria e soprattutto con gli arrangiamenti dei Wolfgang Press di Queer. Tutto diventa all’improvviso meno esoterico. Eppure nella chiesa dei Breathless continuano ad entrare in pochi.    

 

Dopo la pubblicazione di Between Happiness and Heartache, le uscite dei Breathless di diradano, a dimostrazione che per Dominic e Ari gli impegni coniugali hanno sostituito quelli artistici nell’ordine prioritario delle loro vite. I Breathless rimangono ai margini (come in fondo, inspiegabilmente, è sempre stato) del mercato musicale importante, pur influenzando trasversalmente molte delle band che stanno emergendo nella prima metà degli anni Novanta, Sigur Ròs e Mogwai in primis. La Blue Moon è quella che albeggia nel 1999 dopo otto anni di oscurità, innalzando le maree soniche dei Breathless ad un livello, seppur intuibile, mai arrivato prima. Sono lunghe pieces per lo più strumentali e quasi totalmente improvvisate in studio, secondo una visione krauta che era già palpabile negli album della prima stagione e che il fenomeno post-rock ha nuovamente riportato all’attualità di quegli anni e che raggiungono il culmine orgiastico nelle tre lunghe riprese che documentano l’allunaggio e intitolate Moonstone. Se i primi due movimenti furono pubblicati all’epoca in edizione limitata, il terzo rimarrà inedito fino alla ristampa in doppio supporto (digitale e vinile) targata 2016 assieme ad un altro frammento lunare come Blue Moon. Sono tredici minuti di ronzii elettronici e fischi che inseguono il sogno spaziale dei primi Pink Floyd e che ben si inseriscono nel filone tracciato sull’album da pezzi come All the Reasons Slide o No Answered Prayers o dai vortici galattici che avvolgono brani come Come Reassure Me o Magic Lamp che emulano lo sciabordio elettrico dei Telescopes o dei My Bloody Valentine.

Il marchio di fabbrica dei Breathless, quella psichedelia densa, avvolgente e tantrica, ossequiosa del passo indolente della notte non è andata però perduta. Walk on the Water e Goodnight si riallacciano infatti al passato storico della formazione inglese, pur cedendo il passo a certe derive quasi new-age o a certi cerebralismi che navigano nelle orbite di band come Stereolab o Tortoise e che tracciano traiettorie inedite per la una delle più preziose e, ahimè, sconosciute formazioni di tutto il post-punk inglese.    

 

Un organo cerimoniale introduce Behind the Light (unico disco dei Breathless ad uscire solamente su supporto digitale) facendo da tappeto ad After All These Years, un brano liquido e sospeso fuori dal tempo e dallo spazio, carico di una placida malinconia consolatoria.

Poi i Breathless accendono i motori. Che stavolta sono macchine tedesche in sfilata. And So the Dream Goes On è un motorik che ci sveglia dal torpore, con le sue ruote dentate che marciano inesorabili.

Le atmosfere mutano di nuovo con Stay Beside You per trasformarsi in piccolissime guglie di cristallo. Poi anche questo scampanellio si ferma: Nobody Knows è solo il soffio di vento artico che le faceva tintinnare e nulla più. Tutto resta come sospeso, in una immobile catarsi leggermente ascendente. È il momento propedeutico per la fase più psichedelica del disco, inaugurata con una Rising che discende direttamente dai Pink Floyd di Live at Pompeii, protratta dal lungo volo cosmico di Behind the Light e chiusa dall’ambient strumentale di Fade in cui un pallone aerostatico equivale ad un paracadute.

Dipende da dove volete dirigervi. Perché la mente è tutto.       

 

Sprofondare nell’autunno.

Due volte.

I Breathless tornano a soffiarci addosso nel 2012 con un doppio album intitolato Green to Blue, fino a ficcarci il freddo dentro le ossa.

Ci sono due modi per ascoltare la musica dei Breathless.

Uno è a basso volume, abbandonandosi all’accidia di una musica che sembra l’imperturbabile silenzio urlante di una morte nel sonno.

L’altro è quello che io chiamo “ad immersione”. A volume altissimo.

Lasciandosi colare addosso questo blob di psichedelia vestita di viola.

Facendosi tramortire da un muro di suono che stordisce i sensi dopo averli sedati e resi docili ed arrendevoli. Una parete di vasellina che ci sommerge, inarrestabile nella sua corsa a passo di lumaca.   

Chi potrebbe essere così dissennato e cinico da permettersi la leggerezza di cantare sotto questi immobili vapori purpurei se non Dominic Appleton con quel suo unico, interminabile guaito di un cane lasciato dietro la porta di casa.

Accanto a lui, come ai tempi delle biglie di vetro, Gary Mundy alla chitarra, la bella principessina dark Ari Neufeld al basso e Tristam Latimer Sayer alla batteria.

E, come a quei tempi, i Breathless riescono a dipingere piccoli capolavori di mestizia post-punk. Come Rain Down Low che indossa il suo spolverino migliore per prendere il posto della April Skies dei Jesus and Mary Chain nel guardaroba degli orfani dei Joy Division, la fantastica coda di pavone che si apre sul finale di Fade Away, i flutti molto Cure di Please Be Happy, la moviola intorpidita di Everything Is Us, le grinzose lenzuola di J Mascis usate per coprire il letto disfatto di Walk Away.

Qualcosa di magico si muove dentro la musica dei Breathless. Qualcosa che si fa beffe del tempo, quello destinato ad allungare le rughe del nostro viso e ad accorciare l’ossigeno ai nostri polmoni.

L’incidente d’auto che ha portato in coma Tristam Latimer Sayer ha imposto ai Breathless di “ripensare” in corsa l’atteso disco del ritorno, con Ari Neufeld costretta a reinventarsi in qualche modo batterista, ovvero a sezionare frammenti di ritmo e a svilupparne il loop su macchina, in modo da fornire un seppur sparuto e labile gancio ritmico ai nove pezzi di See Those Colours Fly, l’album che a dieci anni da Green to Blue arricchisce la tavola di colori della band inglese con qualche tonalità più accesa. Sintetiche e ripensate al laptop sono anche gran parte dei tappeti melodici creati e poi sviluppati da Ari durante il periodo del lockdown e della sua convalescenza medica che le ha impedito per lungo tempo di imbracciare uno strumento a corda.

Indipendentemente dalle sue peculiarità circostanziali, See Those Colours Fly è un disco che emana grande bellezza e che si muove dentro spazi infiniti e pinkfloydiani (come il fluire algido di The City Never Sleeps o quel lento meriggiare alla Red House Painters o alla Galaxie 500 che dilata il suo tempo dentro Somewhere Out of Reach), eterei e trascendenti. So Far from Love esplode invece come una sfera di pluriball che rilascia molecole di gas shoegaze decompresse ma la compostezza dei Breathless, la loro forza antigravitazionale rimane immutata. Sospesa a miglia e miglia dal suolo, la band inglese galleggia come una massa gassosa fra noi e il resto della galassia. Lasciandoci senza fiato, ça va sans dire.

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro

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MY BLOODY VALENTINE – loveless (Creation)

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Fra i paradigmi dell’uso dello studio di registrazione come laboratorio di arte effimera, loveless è l’harakiri dei My Bloody Valentine, il gesto estremo con cui la band di Dublino si consegna alla e si congeda dalla storia. Un disco seduttivo ed inebriante ma pure fastidioso come una puntura d’ape. Montagne di rumori, tastiere monumentali, chitarre sfasate, voci angeliche sovrapposte e manipolate infilate dentro un inferno di colori purpurei che esplodono come grosse lastre di vetro temperato in uno scintillio di grandine di cristallo. Rispetto all’articolato debutto, loveless mette in mostra un “mood” più definito e compatto a dispetto della lista di ingegneri del suono impegnati a definirne la struttura e degna del centro di ricerca di una università. Una lunga e frastornante alba boreale che si espande come un mandala inghiottendo tutto l’orizzonte in una vampa accecante. Un disco che rischiò di seppellire, proprio come prefiguravano i suoi muri di chitarra, la Creation sotto una montagna di debiti. Perché certo, era stato registrato eoni dopo Metal Machine Music di Lou Reed e secoli dopo i dischi di Factrix o Cabaret Voltaire, era uscito dopo Psychocandy di J&MC e You’re Living All Over Me dei Dinosaur Jr eppure era in qualche modo un disco ancora disturbante. Magari non più alieno ma di certo fuori dai canoni tradizionali della musica indie ben pettinata o ben catalogata. loveless suonava, e suona, come un sogno andato a male. Basterebbe dare un ascolto a quella sinfonia di imenotteri di to here knows when per comprenderne il potere logorante che è in grado di suscitare se solo lasciasse fluire il suo lato più eversivo affrancandolo totalmente dall’ammaestramento alle regole minime della musica di consumo cui resta legata da un filo di velluto fragilissimo.

Che potrebbe essere il filo sottile dell’amore. O forse il filo sottile della sua mancanza.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LOOP – Heaven’s End (Head)

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Nel 1987 i Loop “isolano” il ronzio delle chitarre dei Jesus and Mary Chain e danno alle stampe Heaven’s End, primo album di una trilogia di assordante feedback-pop. Quello del gruppo di Londra è un sound corazzato, figlio degli Stooges (dei quali riprendono pure il passo greve di We Will Fall nella simbiotica Forever) ma anche del motorik tedesco più sconcio. Il suono è dispnoico e opprimente, poco propenso alla melodia e invece votato ad una sorta di impassibile trance indotta dal rumore.

I Loop non sembrano mostrare pietà, sferzano bordate chitarristiche dall’impatto furioso, fino a farci lacrimare i timpani. Un abissale fragore inghiotte lo shoegaze dentro un buco nero che lo dirotta verso un immane space-rock hawkwindiano.

I viali del paradiso sono cinti da mura invalicabili.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

MY BLOODY VALENTINE – Isn’t Anything (Creation)

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Oggetto di un culto fra i più longevi ed inossidabili della storia della musica alternativa di tutte le epoche, i My Bloody Valentine arrivano all’album di debutto dopo una serie di EP che hanno già cementato la loro reputazione di band post-gotica innamorata del rumore bianco, delle svolazzanti melodie anni Sessanta, delle tinte sinistre del post-punk, del livore anti-hippie dei Velvet Underground, delle sinfonie distopiche ed immersive che ricordano una versione “a falde” del fragoroso e imponente muro di suono dei Jesus and Mary Chain che tuttavia approcciano e scalano senza alcuna difficoltà su Feed Me with Your Kiss. Un suono asfissiante e celestiale assieme quello di Isn’t Anything, in cui le fragili melodie vengono risucchiate e poi risputate a galla da un vortice di distorsioni e deturpate da vere e proprie “protuberanze chitarristiche” (You Never Should, You’re Still in a Dream, Cupid Come, Several Girls Galore, Nothing Much to Lose). Quello costruito dal gruppo di Dublino è un suono volutamente impastato e a tratti incoerente, dicotomico e polarizzato, capace di sorprendere con capolavori di melodie fuori asse come Soft as Snow e No More Sorry o di atti di teppismo piromane con i quali sembrano voler incendiare l’intero studio di Phil Spector con le Ronettes ancora dentro. Per poi registrarne le voci agonizzanti.

Musica di demoni e sirene, quella dei My Bloody Valentine.

Musica per cadere in tentazione e restare accecati dal peccato.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BREATHLESS – Between Happiness and Heartache (Tenor Vossa)

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Quasi all’improvviso la musica dei Breathless sembra ossigenarsi, disfarsi della sua cuticola che sembrava soffocarla e trasformarsi in una crisalide pronta e adatta al volo. Succede all’alba del nuovo decennio, in quel capolavoro di Between Happiness and Heartache in cui le tastiere scompaiono quasi del tutto per venire sopraffatte da un suono cristallino di chitarre arpeggiate (adesso manovrate anche dalla bellissima bassista Ari Neufeld) e, novità assoluta per il quartetto inglese, pronte anche a qualche assalto solista come quelli di Help Me Get Over It e della cover di Flowers Die degli Only Ones oppure nelle falde che scivolano lungo il finale di I Never Know Where You Are.  

La fuga tentata con Chasing Promises diventa adesso compiuta e la ricerca di un approccio meno cerebrale e più attento al songwriting si perfeziona in maniera mirabile anche grazie alla produzione “aperta” di Drostan Madden, che in quel periodo armeggia con la batteria e soprattutto con gli arrangiamenti dei Wolfgang Press di Queer. Tutto diventa all’improvviso meno esoterico. Eppure nella chiesa dei Breathless continuano ad entrare in pochi.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE TELESCOPES – Abscence Presence (Union Editions)

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Otto canzoni narcolettiche su un microsolco trasparente infilato dentro una busta nera. Sono il risultato di una licenza della Tapete accordata all’italiana Union Editions che si fa carico di stampare fisicamente Abscence Presence, fratello asociale di Songs of Love and Revolution ovvero un concerto di macchine unplugged manovrate da Stephen Lawrie e assimilabili al concetto di shoegaze introverso e di cerea, esangue, livida drone-music ammantata di nero. Una angosciante perifrasi del rumore bianco dei Telescopes che per osmosi adesso sublima in particelle di gas asfissiante.

Nonostante l’austera povertà della formula il disco ha un suo cupo fascino che tocca nei rintocchi sparuti della sei corde unica protagonista di You’re Never Alone with Despair profondità abissali di lancinante dolore che ricordano gli “spiritual” esanimi degli Spain. Le canzoni di amore e rivoluzione si spogliano per diventare quelle d’amore e odio di Cohen.

Lawrie mette la tuta da argonauta e un cappello di feltro e si lancia nel vuoto.  

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro