Il gioco delle biglie di vetro è un gioco complicatissimo.
Per spostare ogni pezzo non basta essere abili giocatori e neppure scaltri bluffatori.
Occorre essere dei filosofi. Elaborare congetture, conoscere l’alchimia e le ineffabili catene che legano l’arte e lo scibile umano in una maglia esoterica di cui quasi tutti sconoscono non solo le regole ma anche l’esistenza.
È il gioco supremo della mente eletta. Un Monopoli per virtuosi.
Lo inventa Herman Hesse nel 1931. Ed è talmente complicato che egli stesso ci mette più di dieci anni per fantasticare sulle sue regole.
Da allora hanno provato in tanti a giocarci, facendone addirittura una sorta di versione “ignorante” da tavola.
Tra i più bravi, quattro efebici ragazzoni inglesi in apnea con i nomi da epopea gaelica: Dominic Appleton, Gary Mundy, Ari Neufeld, Tristam Latimer-Sayer.
Una band di cui nessuno pare più ricordarsi ma che allora stregò Ivo-Russell che si rosicò a lungo le mani per non averli nella sua scuderia di purosangue.
The Glass Bead Game fu il disco che presentò al mondo il tedioso e concettuale post-punk dei Breathless, ginecologi capaci di far partorire il corpo macilento dei Joy Division dal ventre psichedelico dei Pink Floyd di Set the Controls for the Heart of the Sun.
Il disco viene registrato in due differenti sessions, con la consulenza del “terzo orecchio” di John Fryer, l’ingegnere del suono, lo stratega che con la sua tecnica di registrazione ovattata avvicina il suono dei Breathless alle profondità delle lagune del mondo 4AD. I pattern di batteria vengono prima amplificati a dismisura poi avvolti dalle spirali di synth e chitarre, quindi ammansiti dalla voce nasale e monocorde di Dominic che se da un lato caratterizza lo stile del gruppo londinese, dall’altra ne rappresenta forse il limite più tangibile, l’ostacolo più evidente alla lievitazione che le strutture stratificate della band invece suggerirebbero.
È come se Dominic portasse inizialmente il suono dei Breathless a sganciarsi da terra e poi gli impedisse di raggiungere le quote prefissate, lasciandolo appena sotto le nuvole. Il gioco delle biglie, per tornare alla metafora iniziale, diventa alla lunga difficile non solo da praticare ma anche da seguire per chi sta seduto a questo tavolo viola, proprio per questa sua uniformità che ne appiattisce e omogeneizza lo svolgimento.
Rimane il fascino di una musica che si muove come placenta di metallo fuso inquinata dalle sue stesse tossine.
Siamo nel 1987. L’anno in cui anche la vecchia guardia del post-punk inglese si è ormai compromessa abbondantemente con il mercato. L’anno dei Cure di Why Can’t I Be You? e Hot Hot Hot!!!, dei Banshees di The Passenger, dei New Order di True Faith. I Breathless, arroccati nel loro ancestrale castello privato, difendono invece le mura di un suono “a placche” con Three Times and Waving, con nove macchie di mercurio fuso che scivolano su un piano di vetro, seguendo le inclinazioni dell’asse, espandendosi e rimpicciolendosi a formare piccoli grumi molecolari pronti a scollarsi ad ogni nuovo sussulto.
Sono canzoni che rifiutano di farsi imprigionare, quelle dei Breathless. Canti pagani e sciamanici che ricordano la solenne grevezza dei Dead Can Dance. Ma c’è, in questo loro secondo disco, un’ispidezza che se non è del tutto nuova, è di certo più marcata (Say September Sings, Dizzy Life, Three Times and Waving) rispetto al passato. Come di un paradiso inquinato e invaso dalla gramigna, se riuscite a rendere concreta un’immagine simile. Perché in fondo nessun posto è del tutto refrattario alla barbarie.
Coerente allo stile dei primi due album, Chasing Promises conferma la statura dei Breathless come depositari di una formula replicabile all’infinito in cui le canzoni si sviluppano per osmosi facendo precipitare gli elementi che le compongono, legandosi in forme molecolari illimitate ma sempre riconoscibili. Il nuovo album svela da un lato la necessità di approcciare il materiale in maniera più strutturata, dall’altro la tendenza a lasciarsi trascinare inesorabilmente dalla corrente, allungando spesso il risultato oltre la soglia dei sei minuti, ovvero il doppio della durata media di una pop song.
Martyn Watts conferisce un ritmo più incalzante a pezzi come Smash Palace, Hearburst, Compulsion ma le vette del disco sono le canzoni dal passo più avvolgente ed onirico come Moment by Moment, Better Late than Never, Glow e Here by Chance in cui Joy Division e Cure precipitano in un materasso di acque canterburyane delineando di fatto quelli che saranno i tratti distintivi dei primi Porcupine Tree.
Chasing Promises è un disco imperfetto, embrione di una metamorfosi non ancora compiuta ma di cui si avverte l’esigenza. Una “promessa inseguita”, come onestamente ammettono loro stessi. Fino a che non riusciranno a mantenerla.
Quasi all’improvviso la musica dei Breathless sembra ossigenarsi, disfarsi della sua cuticola che sembrava soffocarla e trasformarsi in una crisalide pronta e adatta al volo. Succede all’alba del nuovo decennio, in quel capolavoro di Between Happiness and Heartache in cui le tastiere scompaiono quasi del tutto per venire sopraffatte da un suono cristallino di chitarre arpeggiate (adesso manovrate anche dalla bellissima bassista Ari Neufeld) e, novità assoluta per il quartetto inglese, pronte anche a qualche assalto solista come quelli di Help Me Get Over It e della cover di Flowers Die degli Only Ones oppure nelle falde che scivolano lungo il finale di I Never Know Where You Are.
La fuga tentata con Chasing Promises diventa adesso compiuta e la ricerca di un approccio meno cerebrale e più attento al songwriting si perfeziona in maniera mirabile anche grazie alla produzione “aperta” di Drostan Madden, che in quel periodo armeggia con la batteria e soprattutto con gli arrangiamenti dei Wolfgang Press di Queer. Tutto diventa all’improvviso meno esoterico. Eppure nella chiesa dei Breathless continuano ad entrare in pochi.
Dopo la pubblicazione di Between Happiness and Heartache, le uscite dei Breathless di diradano, a dimostrazione che per Dominic e Ari gli impegni coniugali hanno sostituito quelli artistici nell’ordine prioritario delle loro vite. I Breathless rimangono ai margini (come in fondo, inspiegabilmente, è sempre stato) del mercato musicale importante, pur influenzando trasversalmente molte delle band che stanno emergendo nella prima metà degli anni Novanta, Sigur Ròs e Mogwai in primis. La Blue Moon è quella che albeggia nel 1999 dopo otto anni di oscurità, innalzando le maree soniche dei Breathless ad un livello, seppur intuibile, mai arrivato prima. Sono lunghe pieces per lo più strumentali e quasi totalmente improvvisate in studio, secondo una visione krauta che era già palpabile negli album della prima stagione e che il fenomeno post-rock ha nuovamente riportato all’attualità di quegli anni e che raggiungono il culmine orgiastico nelle tre lunghe riprese che documentano l’allunaggio e intitolate Moonstone. Se i primi due movimenti furono pubblicati all’epoca in edizione limitata, il terzo rimarrà inedito fino alla ristampa in doppio supporto (digitale e vinile) targata 2016 assieme ad un altro frammento lunare come Blue Moon. Sono tredici minuti di ronzii elettronici e fischi che inseguono il sogno spaziale dei primi Pink Floyd e che ben si inseriscono nel filone tracciato sull’album da pezzi come All the Reasons Slide o No Answered Prayers o dai vortici galattici che avvolgono brani come Come Reassure Me o Magic Lamp che emulano lo sciabordio elettrico dei Telescopes o dei My Bloody Valentine.
Il marchio di fabbrica dei Breathless, quella psichedelia densa, avvolgente e tantrica, ossequiosa del passo indolente della notte non è andata però perduta. Walk on the Water e Goodnight si riallacciano infatti al passato storico della formazione inglese, pur cedendo il passo a certe derive quasi new-age o a certi cerebralismi che navigano nelle orbite di band come Stereolab o Tortoise e che tracciano traiettorie inedite per la una delle più preziose e, ahimè, sconosciute formazioni di tutto il post-punk inglese.
Un organo cerimoniale introduce Behind the Light (unico disco dei Breathless ad uscire solamente su supporto digitale) facendo da tappeto ad After All These Years, un brano liquido e sospeso fuori dal tempo e dallo spazio, carico di una placida malinconia consolatoria.
Poi i Breathless accendono i motori. Che stavolta sono macchine tedesche in sfilata. And So the Dream Goes On è un motorik che ci sveglia dal torpore, con le sue ruote dentate che marciano inesorabili.
Le atmosfere mutano di nuovo con Stay Beside You per trasformarsi in piccolissime guglie di cristallo. Poi anche questo scampanellio si ferma: Nobody Knows è solo il soffio di vento artico che le faceva tintinnare e nulla più. Tutto resta come sospeso, in una immobile catarsi leggermente ascendente. È il momento propedeutico per la fase più psichedelica del disco, inaugurata con una Rising che discende direttamente dai Pink Floyd di Live at Pompeii, protratta dal lungo volo cosmico di Behind the Light e chiusa dall’ambient strumentale di Fade in cui un pallone aerostatico equivale ad un paracadute.
Dipende da dove volete dirigervi. Perché la mente è tutto.
Sprofondare nell’autunno.
Due volte.
I Breathless tornano a soffiarci addosso nel 2012 con un doppio album intitolato Green to Blue, fino a ficcarci il freddo dentro le ossa.
Ci sono due modi per ascoltare la musica dei Breathless.
Uno è a basso volume, abbandonandosi all’accidia di una musica che sembra l’imperturbabile silenzio urlante di una morte nel sonno.
L’altro è quello che io chiamo “ad immersione”. A volume altissimo.
Lasciandosi colare addosso questo blob di psichedelia vestita di viola.
Facendosi tramortire da un muro di suono che stordisce i sensi dopo averli sedati e resi docili ed arrendevoli. Una parete di vasellina che ci sommerge, inarrestabile nella sua corsa a passo di lumaca.
Chi potrebbe essere così dissennato e cinico da permettersi la leggerezza di cantare sotto questi immobili vapori purpurei se non Dominic Appleton con quel suo unico, interminabile guaito di un cane lasciato dietro la porta di casa.
Accanto a lui, come ai tempi delle biglie di vetro, Gary Mundy alla chitarra, la bella principessina dark Ari Neufeld al basso e Tristam Latimer Sayer alla batteria.
E, come a quei tempi, i Breathless riescono a dipingere piccoli capolavori di mestizia post-punk. Come Rain Down Low che indossa il suo spolverino migliore per prendere il posto della April Skies dei Jesus and Mary Chain nel guardaroba degli orfani dei Joy Division, la fantastica coda di pavone che si apre sul finale di Fade Away, i flutti molto Cure di Please Be Happy, la moviola intorpidita di Everything Is Us, le grinzose lenzuola di J Mascis usate per coprire il letto disfatto di Walk Away.
Qualcosa di magico si muove dentro la musica dei Breathless. Qualcosa che si fa beffe del tempo, quello destinato ad allungare le rughe del nostro viso e ad accorciare l’ossigeno ai nostri polmoni.
L’incidente d’auto che ha portato in coma Tristam Latimer Sayer ha imposto ai Breathless di “ripensare” in corsa l’atteso disco del ritorno, con Ari Neufeld costretta a reinventarsi in qualche modo batterista, ovvero a sezionare frammenti di ritmo e a svilupparne il loop su macchina, in modo da fornire un seppur sparuto e labile gancio ritmico ai nove pezzi di See Those Colours Fly, l’album che a dieci anni da Green to Blue arricchisce la tavola di colori della band inglese con qualche tonalità più accesa. Sintetiche e ripensate al laptop sono anche gran parte dei tappeti melodici creati e poi sviluppati da Ari durante il periodo del lockdown e della sua convalescenza medica che le ha impedito per lungo tempo di imbracciare uno strumento a corda.
Indipendentemente dalle sue peculiarità circostanziali, See Those Colours Fly è un disco che emana grande bellezza e che si muove dentro spazi infiniti e pinkfloydiani (come il fluire algido di The City Never Sleeps o quel lento meriggiare alla Red House Painters o alla Galaxie 500 che dilata il suo tempo dentro Somewhere Out of Reach), eterei e trascendenti. So Far from Love esplode invece come una sfera di pluriball che rilascia molecole di gas shoegaze decompresse ma la compostezza dei Breathless, la loro forza antigravitazionale rimane immutata. Sospesa a miglia e miglia dal suolo, la band inglese galleggia come una massa gassosa fra noi e il resto della galassia. Lasciandoci senza fiato, ça va sans dire.
Franco “Lys” Dimauro