GIORGIO GABER – Anni affollati (Carosello)

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Gli anni affollati sono, dice candidamente Gaber, “gli ultimi dieci anni”.

Dunque sono gli anni Settanta nella loro interezza che Gaber si fa carico di sgomberare, alla soglia del decennio successivo, i cosiddetti anni del riflusso, della riscoperta dell’individualismo più esasperato e della fuga dall’interesse per il pubblico e per il sociale, del tramonto delle ideologie, dell’abbattimento definitivo di certi schieramenti politici, dell’affermazione individuale che ha soppiantato la lotta di classe che, di fatto, è stata abbandonata una volta compreso ed ammesso che l’arricchimento e il prestigio di casta fanno gola e comodità a tutti. È il trionfo dell’effimero, come sagacemente osserva Gaber su Il presente. Ed è un presente che ha di fatto sconfitto il passato, ne ha calpestato valori e sogni, annunciando un futuro altrettanto sgombro, se non si riusciranno ad avvistare nel deserto quelle piccole risacche di umanità che è auspicabile vi si annidino: “Davanti c’è soltanto uno spazio vuoto. L’importante è guardarlo attentamente, questo spazio vuoto, come se da un momento all’altro le cose potessero uscire dal silenzio e rivelarsi.

È la generazione dei reduci della vecchia controcultura e del “movimento” che ha ormai spento l’interruttore dell’attivismo quella cui Gaber si rivolge retoricamente, sul brano inizialmente previsto come chiusura dello spettacolo, chiedendole: “Ma come fate ora a vivere e a morire senza qualcosa da inseguire? Ma come fate a viver tra la gente con l’anima neutrale e indifferente?.

Anche l’amore di coppia, pur ridotto ad una ovvietà bigotta, ad un rituale borghese, è adesso tramontato e il piacere è del tutto individuale, solitario: Gaber sostituisce prontamente quei quadretti di vita familiare che erano stati Il signor G e l’amore, È sabato, L’impotenza, Prima dell’amore e Dopo l’amore con La masturbazione. E in effetti gli anni Ottanta vedranno implodere per la prima volta in Italia un gran numero di matrimoni e lo sdoganamento della pornografia sulle piccole emittenti televisive.

Stranamente, il collante della società diventa la condivisione del dolore. La restrizione coercitiva ed involontaria dalla società edonistica compie il miracolo della ricostruzione dei rapporti sociali, del dialogo, del confronto. Gaber lo racconta poeticamente e quasi commosso su Gildo, ambientata in una corsia d’ospedale.

Nonostante il fondale del nuovo decennio faccia incagliare la scialuppa rivoluzionaria degli anni Settanta, il disco è uno dei più ispirati della discografia di Gaber, con numeri eccellenti come Anni affollati, Pressione bassa, “1981”, L’illogica allegria e la lunghissima invettiva di Io se fossi Dio destinata ad uno tsunami di applausi scroscianti.

Gaber si prepara all’inaugurazione della Milano da bere, servendo veleno dentro i bicchieri da cocktail di quanti sono già seduti al bar, pronti per l’ora del lunghissimo aperitivo degli anni Ottanta.      

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE METHOD ACTORS – Little Figures (Armageddon)

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Pochissime band new-wave poterono permettersi il lusso di debuttare con un disco doppio mettendo a dura prova l’investimento fatto sul loro nome. I Method Actors, gruppo super-underground di Athens, furono dunque un’eccezione. Caso ancora più raro trattandosi di un gruppo e di un disco (anzi, due) parecchio lontani da quello che il mercato indigeno “chiede” in quel momento preoccupandosi piuttosto di “stanare” e sdoganare il funk-punk alla Gang of Four, azzeccando anche qualche “ballabile” moderno come Rang-a-Tang (alla “maniera” dei Talking Heads) o Commotion (alla “maniera” dei PiL) e scrivendo almeno due capolavori come 20×1 e Alcohol costruiti su giri di basso così esuberanti che neppure i fIREHOSE o i Dos sarebbero riusciti a replicare.  

La formazione, che poi si allargherà fino a diventare un quintetto, è qui fotografata nella sua forma-base ovvero nel nucleo costitutivo Vic Varney-David Gamble che si divide il lavoro fra area percussiva ed il resto degli strumenti, chitarra e basso fondamentalmente, e alternando o sovrapponendo le linee vocali. Una formula che trova in I’m in the Mood for Love e Bleeding le proprie convenzioni archetipiche e che, al netto della dispersione generata dalla durata complessiva (il disco verrà ristampato anche in formato singolo dalla Press Records ma con una scelta discutibile dei pezzi, NdLYS), dimostra una band capacissima e a tratti geniale.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CLOCK DVA – Thirst (Fetish)

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Il concetto di musica industriale era uno dei più ambigui fra quelli nati all’indomani del punk per definire le mille strade intraprese dalla progenie di musicisti nati dalla fermentazione di quegli acini: un concetto “stringente” dal punto di vista programmatico con la volontà dichiarata di abbattere ogni accenno alla gradevolezza e dall’altro lato sufficientemente “mobile” per fecondare in quel ventre una miriade di gruppi dalle mille anime, oppure senza anima.

I Clock DVA di Sheffield, ad esempio, lavoravano su un substrato assimilabile al glam ricurvo e sfigurato dal dub dei primissimi Bauhaus e su innesti jazz obliqui e decadenti associabili allo spirito dei Tuxedomoon. White Cell è il pezzo che racchiude e sviluppa alla perfezione questa mistura e ne estetizza al meglio la commistione col suo basso modulato a gradini, la voce chiaroscurale alla Peter Murphy e il suo free-jazz che diventa richiamo onomatopeico da safari musicale.

Simile, ma con un’aria più macabra, la minacciosa North Loop che apre la seconda facciata e dove un arpeggio di chitarra si sgrana fra lo zoppicare del basso e il pigolare dei fiati agonizzanti.  

Sensorium e Piano Pain assecondano invece il lato più febbrile e nevrotico della musica della band, sviluppato secondo le logiche della ripetitività e della reiterazione ma anche subendo il fascino del disordine e del caos che vi restano imprigionati dentro.     

Nessuna traccia di macchine e attrezzi da catena di montaggio, se la vostra idea di industrial a quelli è legata. Piuttosto, un assemblaggio sonoro di inaudita ed efficace libertà creativa e di fortissima suggestione espressionista.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PSYCHEDELIC FURS – · Talk · Talk · Talk · (CBS)

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· Talk · Talk ·Talk · suona tutto leggermente sfasato, con gli strumenti che si sovrappongono soffocandosi a vicenda mentre tutti insieme scivolano di un semitono rispetto alla linea vocale. Una dissonanza evidentissima nei solchi introduttivi di Dumb Waiters poi via via più latente e che crea un ricercato senso di fastidio, la sensazione di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Come avere la certezza che tutti ti stanno osservando non tanto per l’abbondante make-up ma perché il mascara si sta versando come nero di seppia dalle palpebre.

Quei rivoli copiosi di nero di seppia sono la chitarra di Roger Morris e il sax di Duncan Kilburn, stordente miscela cui la band rinuncerà a breve per dare luminosità e scioltezza ad una miscela musicale che deve rendersi più agile se vuole penetrare il mercato. Cosa che alla band inglese riuscirà peraltro benissimo e che verrà celebrata proprio con una versione “alleggerita” di Pretty in Pink, piccola perla nera di questo album che veste il glam degli anni Settanta (Lou Reed, Roxy Music, Bowie) coi soprabiti della new-wave e gli permette di camminare indisturbato nelle strade popolate dalla tribù degli sparvieri dark.

I Wanna Sleep with You e più avanti Mr. Jones aprono già le porte a quel giardino di metallo che quasi due decenni dopo sarà dimora fissa dei Girls Vs. Boys e anche dei Wire di Send.

Into You Like a Train, It Goes On e So Run Down sono invece il compromesso necessario tra il suono epico del produttore Lillywhite e l’estetismo dandy della band, con le chitarre che mulinano cupe come vortici di aria torbida e il sax che diventa un cloudbuster guasto che invece di ammaestrare i vapori li disperde tutt’intorno, mentre Butler azzarda qualche manovra di aggancio lanciando qualche fune simile ad un ritornello.

Quello che dal minutaggio esibito sembra il brano più ambizioso del lotto, All of This and Nothing, si spegne invece approdando davvero in quella terra del nulla evocata dal titolo.

Che è però un nulla abitato.

Abitato e minaccioso.  

E sensuale.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

 

SIMPLE MINDS – Sons and Fascination (Virgin)

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L’annuncio con cui la Virgin comunicava l’arrivo in scuderia dei “disco-rockers” Simple Minds era, una volta tanto, lungimirante: la band scozzese sarebbe diventata entro la fine dell’anno una delle più importanti band britanniche. In realtà quel successo sarebbe arrivato in leggerissimo ritardo, nell’aprile del 1982 col fortunato Promised You a Miracle ma Sons and Fascination aveva preparato il terreno con un produttore rispettabilissimo (pur avendo dovuto “glissare”, per motivi economici, sulla prima scelta Todd Rundgren che però lavorava solo nei suoi studi newyorkesi) come Steve Hillage e una serie di canzoni abbaglianti, laddove il disco precedente si muoveva ancora nell’oscurità.

La band di Glasgow è in una fase creativa talmente feconda da partorire addirittura un gemello siamese intitolato Sister Feelings Call ma fra i due è Sons and Fascination il disco che regala le emozioni più vivide e che mostra il salto di qualità, lo scarto definitivo, che fa intravedere lo scintillio dell’oro sotto la placcatura. In Trance as Mission, Sweat in Bullet, Boys from Brazil, Seeing Out the Angel, 70 Cities as Love Brings the Fall con i suoi muggiti elettronici e la bolgia stroboscopica di Love Song sono i Simple Minds eroi della new-wave, un bubbone sebaceo pronto ad esplodere al minimo contatto con un corpo estraneo, pronti per i grandi sogni dorati.

 

                                                                                     Franco “Lys” Dimauro

GEN X – Kiss Me Deadly (Chrysalis)

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Di una bruttezza rara, il terzo e ultimo album dei Gen(eration) X vede la formazione di Billy Idol e Tony James abbracciare senza troppa convinzione la new-wave che sta dilagando ovunque.

A poco servono gli interventi di prime-movers del calibro di Steve Jones, Terry Chimes e John McGeoch a salvare il terzo lotto di canzoni del gruppo dal precipizio, nonostante il trampolino da cui decidono di lanciarsi, la Dancing with Myself da cui prenderà il via la carriera solista di Billy Idol, prometta almeno una bella rincorsa.

Il tuffo carpiato però non riesce e l’accozzaglia di influenze mal gestite (si va dallo sleaze rock al dub passando per la new-wave e il dark sound) fa di Kiss Me Deadly uno dei peggiori lavori dell’anno. Record che manterrà per tutti gli anni a venire.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LA’s WASTED YOUTH – Reagan’s In (ICI Sanoblast)

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La prima “opera su copertina” di Pushead, il grafico divenuto poi famoso per i lavori per Metallica, Misfits, Exploited e Megadeth, è il Reagan sfregiato dall’aerosol che campeggia sul debutto dei Wasted Youth. Ed è probabile ci abbia messo più lui a disegnarlo che i quattro musicisti a registrarlo: solo tredici minuti per incidere uno dei dischi fondativi dell’hardcore di Los Angeles, quello con inni bestiali come Fuck Authority, Uni-High Beefrag e la You’re a Jerk che eredita e riverbera tutto lo sfasciume dei Germs. Tutto dentro i canoni tipici del genere, dalla velocità che rallenta solo in un paio di brani al suono “strappato” della chitarra, dai temi politici sdoganati dai Dead Kennedys al basso prepotente e legnoso.

Possibilità di essere apprezzati fuori dalla cerchia di appassionati pari a zero.

In coerenza con la volontà di farlo.            

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JOE JACKSON – Joe Jackson’s Jumpin’ Jive (A&M)

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Rompendo ogni indugio e le ultime remore, Joe Jackson decide di svelare tutto il suo amore per lo swing e le big band. Cogliendo tutti di sorpresa pubblica per il solstizio d’estate del 1981 un intero album di cover di Cab Calloway, Louis Jordan, Glenn Miller, Skeets Tolbert e altre chicche di jump blues. Il disco arriva quasi inaspettatamente nella top twenty e soprattutto, apre il porto dell’Ellis Island al musicista inglese, aprendo forse senza volerlo la strada alla scena neo-jazz che caratterizzerà buona parte della scena britannica della prima metà degli anni Ottanta, alle band “cappuccino” infatuate di musica nera ma, soprattutto, è il disco con cui Joe Jackson prende le distanze, in maniera fin troppo netta, dal rock dichiarando in maniera sfacciata l’amore per le grandi orchestre degli anni ’40 che era stato casualmente “interrotto” dalla fugace deflagrazione dei Sex Pistols a cavallo del suo diciottesimo compleanno. Puro revival, puro omaggio ad un passato che si pensava gettato nelle pattumiere dell’indifferenziata e che invece andava messo in quello dell’umido.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

DAN JOHNSTON – Songs of Pain (autoproduzione)

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L’artista naif per eccellenza degli anni Ottanta. Fuori da ogni mondo dell’arte precostituito, epitome dell’amatorialità, dell’home-recording e progenitore inconsapevole di quello che solo un decennio dopo verrà assorbito e categorizzato nella folksonomia della musica indipendente sotto il termine di lo-fi.

Un pianoforte non solo senza coda ma pure senza un’accordatura decente, un leggio pieno di canzoncine scritte da un bambino costretto ad affrontare il mondo senza armi, canzoni dal passo gioioso e disinvolto che però nascondono la voglia di abbandonare tutto:I’m lazy, oh yeah. I quit college and I quit my job, I think I’ll quit life. Yeah, I’m gonna quit again. I think I’ll quit one last timeconfessa mentre pesta a mani nude il grappolo di note di Lazy, la più vecchia delle canzoni di Songs of Pain.

Un suono che sembra venir fuori da una radio a transistor quello messo su nastro da Daniel Johnston nel suo isolamento geografico e mentale e che propina a tarda sera agli avventori del McDonald’s dove sbarca il lunario mettendo in diffusione i suoi nastri e vendendone qualche copia per pochi spiccioli. Nastri dove lo si sente tossire e soffiarsi il naso, dialogare e poi ributtarsi a capofitto in quella sorta di honky-tonk maldestro eppure efficace. Canzoni abitate dal suo stesso fantasma e dagli spettri di quelli che l’hanno abbandonato come un naufrago su una zattera. Da lontano, fra le onde del mare californiano, Daniel Johnston lancia le sue lettere d’amore. Fino a che qualcuno, adagiato su qualche spiaggia, scoprirà che quell’amore tormentato è affine al suo. E potrà decifrarlo.           

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE SOUND – From the Lions Mouth (Korova)

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Daniele con le mani legate dietro la schiena, nella fossa dei leoni. Pronto per essere sbranato. Eppure, chi conosce l’Antico Testamento sa che egli non verrà neppure sfiorato.

From the Lions Mouth si annuncia con questa parabola sulla fede e sulla rinascita, che è il tema affrontato subito nell’apertura del disco, nell’epica Winning che ha lo stesso passo stentato con cui si apriva l’album precedente ma con la differenza che qui sono le tastiere le nuove protagoniste, adesso manovrate dal nuovo tastierista Max Mayers che in questa come in altre cinque tracce si occupa anche della scrittura dei pezzi, creando il cuscino su cui Adrian Borland può atterrare.

Più ancora che il debutto, è proprio questo il disco destinato a diventare l’apice neo-romantico della discografia dei Sound, il lavoro dove il tormento che divora Adrian dall’interno assume una posa plastica di struggente bellezza, che non è mai marmorea come nei Joy Division cui verranno paragonati più per assenza reale di argomenti che per altro. I Sound hanno una desolazione diversa, suadente, discreta. Preferiscono lasciare socchiusa la loro porta piuttosto che sfondare quella altrui. Sanno che le anime affini riusciranno a fiutare il loro odore e non hanno bisogno di rastrellare i quartieri per cercare il loro pubblico.

Sense of Purpose, Judgement, Skeletons e New Dark Age svelano le nudità dei Sound a quel pubblico, le lusinghe appena accennate che rifiutano l’esibizionismo, le richieste di acqua e cibo di scheletri che sono stati sepolti a stomaco vuoto, visto che nulla ne aveva saziato la fame d’amore quando erano in vita.     

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro