La prima cosa che si sente è un “Biatch!” piantato lì senza apparente motivo. Poi, si innesta il fischio di un mini-Moog accostato da un giro di basso a serpentina.
Lo stile “Chronic” (da una storpiatura del metodo idroponico di coltivazione della ganja) che detterà legge in tutto l’hip-hop della Costa Ovest degli anni Novanta gettando le fondamenta per il Gangsta-rap sta già tutto nei primi dieci secondi del disco di debutto di Dr. Dre.
Inaspettatamente, l’assalto alla fortezza bianca non viene più tentato dal versante politico come era stato per i Public Enemy ma in una recrudescenza delle pose violente, del linguaggio scurrile, della conquista della ricchezza e dei suoi status-symbol e dell’affermazione individualistica su quella collettiva di gruppo etnico che era alla base dell’hip-hop delle origini.
Il nemico è ovunque, anche se ha la pelle del tuo stesso colore. E Giuda, per quel che ne sa Dre, può benissimo avere la pelle nera. L’arte del dissing non perdona nessuno. Morbosamente ed orgogliosamente funky la musica di Dr. Dre lascia un’impronta indelebile nell’evoluzione della cultura black trovando dei nuovi alleati alla causa in Snoop Doggy Dogg, Warren G e Kurupt cui spetta il compito di insidiare il beat e farcire di parolacce i sampler prelevati di peso dai dischi di Salomon Burke, Ohio Players, Parliament, Leon Haywood, Joe Tex, Isaac Hayes e Funkadelic o replicati sulle due ottave del Moog portatile del Dottore.
The Chronic è un’officina di indicibile sporcizia funky.
Dentro, tutte le locomotive dell’hip-hop californiano passano e vanno via lanciando un fischio.
Ancora oggi quel fischio incute timore e rispetto.
I’m all about the chronic.
Franco “Lys” Dimauro