THE ATLANTICS – Bombora (CBS)  

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Gli anni Sessanta australiani iniziano da qui.

Iniziano, come un po’ ovunque prima dell’avvento dei Beatles, in maniera silenziosa. Iniziano con una musica onomatopeica che cerca di riprodurre il suono di mondi lontani e di acque profonde come quelle dell’oceano.

Gli Atlantics all’oceano rubano pure il nome (in realtà adottato quasi per caso pensando più al petrolio che all’acqua, NdLYS), e lo rubano a quello più lontano dalla loro terra e aprono “le acque” a tutte le surf band australiane, prima di cimentarsi anche col garage-rock scrivendo uno dei classici del genere, ovvero quella Come On che, dopo essere stata inclusa nella seminale Ugly Things della Raven Records, verrà negli anni riproposta da band come Lords of Gravity, Nomads, Wet Taxis, Hard-ons e dagli italiani Thinglers fra gli altri. Ma nell’aprile del 1963, ispirati più dall’acqua che cade dal cielo che da quella che si infrange sugli scogli cui dedicheranno il titolo, gli Atlantics scrivono quella che a tutto diritto si può considerare la più grande hit surf australiana: Bombora. Messa in bellavista sul loro album di debutto pubblicato addirittura dalla CBS, dà l’abbrivio a tutta la teen-music degli anni Sessanta, laggiù dove il sole fa capolino fra le onde. Mentre voi dormite.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE CENTURIANS – Surfers’ Pajama Party (Del-Fi)

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I Centurions e i Centurians erano la stessa band.

E ci scappò poco che anche la Brian Johnston’s Surfing Band fosse la stessa band. Perché in quella grande catena di montaggio del prodotto musicale che era diventata la Del-Fi nel 1963 i dischi delle due band uscirono con titoli e copertina identici e con analogo numero di catalogo.

I due dischi invece erano, per così dire, limitrofi.

Due bacini d’acqua attigui, solo che quello dei Centurians sembrava nascondere un inquietante cimitero sepolto. Se ne percepivano le cattive vibrazioni, quando le acque si agitavano. Come se quella marmaglia di ragazzi festanti immortalati in copertina potesse essere da un momento all’altro assalita da uno squalo bianco.

E succede proprio nel trittico di apertura del disco, poi l’atmosfera sembra rilassarsi e la festa volgere al meglio. Anche se rimane, in quel basso rantolante, in quei giri armonici regolari che all’improvviso svisano di un semitono, in quei tonfi improvvisi che ogni tanto sembrano aprire un piccolo baratro sulla sabbia, in quell’elefantiaco sassofono che sembra trasformarsi in un pachidermico abbraccio, qualcosa di poco incline alla spensieratezza di un party che non sia in qualche modo foriero di cattiva ventura.

Si, forse quei sorrisi erano destinati solo ed esclusivamente all’altra copertina.

Bring out the Gimp.  

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

EDOARDO VIANELLO – Io sono Edoardo Vianello… (RCA)

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La “fabbrica” della RCA Italiana, inaugurata nel 1962 e sorta in una zona adibita a pascolo al Km 12 di Via Tiburtina, è stata l’industria italiana del disco per antonomasia. L’opificio simbolico del boom economico italiano degli anni Sessanta, del riscatto dagli anni bui della guerra e delle officine della morte del ventennio fascista. Dentro quell’immenso complesso industriale l’Italia ha la sua rivincita morale e culturale. Lì dentro si perfezionano contratti, si scrivono canzoni, si registrano, si incidono e mentre autori, discografici e cantanti si incontrano nell’enorme sala bar dell’edificio, i dischi sono già impacchettati e pronti a conquistare juke-box e radio. Una vera officina della musica.

Dell’ottimismo spensierato degli anni del boom Edoardo Vianello è simbolo popolare come nessun altro. Canzonette, musica leggera. Un atollo polinesiano dove nessuna lordura del mondo può arrivare ad imbrattarti la vacanza. Diapositive di una vita felice e spensierata, come certi selfie che girano oggi su Instagram dove milfoni tristi si ostinano a vendicarsi di una vita fatta di niente postando una fetta di culo, una sfilata di moda, un aforisma di cui non conoscono ne’ l’autore, ne’ il significato, ne’ la punteggiatura.

Le canzoni di Vianello sono un tuffo spensierato in un mondo che è un villaggio Valtur globale, un parco giochi dove ogni cosa che incontri è un’attrazione di cartapesta per eterni turisti.

Vianello era, con Nico Fidenco, Gianni Meccia e Jimmy Fontana, uno dei quattro moschettieri con cui Ennio Melis costruisce la storia della RCA Italiana, non più filiazione della grande etichetta americana ma una vera fucina di talenti e successi tricolori. Vianello aveva lavorato come attorucolo di teatro comico ma è l’incontro con il paroliere Carlo Rossi, combinato da Teddy Reno alla fine degli anni Cinquanta a convincerlo a fare della sua innata verve comica e del suo sorriso rassicurante la testa d’ariete per sfondare nel mondo della musica. Per il suo album di debutto Melis gli mette a disposizione il meglio della sua scuderia: Luis Enrìquez Bacalov, i Cantori Moderni, Ennio Morricone e i Flippers di un giovanissimo Lucio Dalla. La copertina è invece affidata a Giuliano Nistri, che diventerà uno dei cartellonisti cinematografici più ricercati della penisola (tanto da essere convocato dai Calibro 35 per la copertina del loro secondo album, NdLYS). Dentro ci sono tutti i suoi primi successi su 45giri: Ma guardatela, Cicciona Cha Cha, Umilmente ti chiedo perdono, Che freddo/M’annoio, Il capello/Non pensiamo al domani, Pinne fucili ed occhiali, Ti amo perché, Guarda come dondolo fino a quell’Abbronzatissima che è la Barbara-Ann italiana, con buona pace per tutti gli altri.

C’è tutta l’Italia che abborda le turiste svedesi, l’Italia strabordante dei vitelloni, della dolce vita, degli zecchini d’oro, dei tormentoni, delle danze tribali diventate sinonimo di eleganza e vita sregolata, delle creme abbronzanti e delle estati a Torvaianica. L’Italia che non chiudeva le porte a niente e a nessuno e che non aveva paura, che sapeva ridere e divertirsi. L’Italia che oggi…apriti cielo! Guai a parlare di negri, donne grasse e vacanze non ecocompatibili. 

L’Italia liberata che aveva demolito tutti i fortini e li aveva trasformati in cabine di un enorme stabilimento balneare.      

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BOB DYLAN – The Freewheelin’ (Columbia)  

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Nella seconda metà degli anni Cinquanta il rock ‘n’ roll aveva cristallizzato l’idea del futuro bloccando le lancette del tempo in un eterno presente. Una porzione temporale che andava dal suono della campanella scolastica all’orario imposto dai genitori per il rientro fra le mura domestiche. Tutto quello che accadeva, nell’immaginario delle canzoni di Elvis Presley, Bill Haley, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Bo Diddley, Buddy Holly, era imprigionato in quella bolla temporale. Il passato esisteva solo come rappresentazione di convenzione da cui fuggire e il futuro sembrava limitarsi alla scelta del drive-in o della festa da ballo in cui consumare il fine settimana. A rimettere in moto il volano del tempo, quando il rock ‘n’ roll crolla su se stesso, è il secondo album di Bob Dylan. Cortocircuitando il passato rappresentato dalla tradizione folk di Woody Guthrie e Pete Seeger con i dubbi e le angosce per un futuro illuminato nuovamente dai lampi delle armi da guerra e bagnato dalle piogge acide, Bob Dylan impone lo schiaffo realista che ridesta i giovani dallo slancio favolistico e idealista del rock ‘n’ roll. Religione, politica, tormento amoroso finiscono nell’imbuto della poetica dylaniana, assieme alla rivalutazione del valore del ricordo, finalmente dissotterrato dall’oblio cui era stato confinato nella musica del dopoguerra per sottrarsi ai fantasmi che evocava.    

L’apertura del disco è già affidata ad una lunghissima serie di domande. È una di quelle canzoni “universali”, destinate ad appiccicarsi alla memoria collettiva e a sottolineare spesso quei momenti in cui la collettività vive i suoi momenti di comunione e condivide dubbi e speranze. Si intitola Blowin’ in the Wind e, per consentirle di essere facilmente assimilabile a tutti Dylan usa una tecnica equivalente a quella usata nei sermoni religiosi, incalzando la platea con una serie di domande e rispondendo in maniera evasiva ma decisa con una replica che fa leva sulla certezza della fede e preannunciando un intervento in cui ognuno è attore, protagonista attivo di un progetto comune. Una canzone di speranza che apre una sequenza di brani dove le visioni apocalittiche (Masters of War, A Hard Rain’s a-Gonna Fall, Talkin’ World War III Blues) si intrecciano a storie d’amore (Don’t Think Twice, It’s Alright, Girl From the North Country) e Dylan si diverte a raccontare la storia (Oxford Town, ispirata ad un fatto di cronaca) e a prendersene gioco (come nella divertente e burlona telefonata fra lui e Kennedy raccontata su I Shall Be Free), bagnandosi completamente nelle miserie del mondo e cercando tuttavia di tirar su la testa per prendere ossigeno, evitando di rimanerci annegato.    

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE BEATLES – Please Please Me (Parlophone) 

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Prendete una qualunque sala da ballo dei primi anni Sessanta e invitate una band di ragazzi ad improvvisare una serie di canzonette costruite sui generi in voga nel periodo: doo-wop, calypso, rock and roll, skiffle, yè-yè e ovviamente qualche ballata che serva ad allentare, facendola fruttare, la tensione sessuale che si respira nell’aria, resa ancora più incendiaria dai rigidi divieti dell’epoca.

Sono le sei del pomeriggio, ma è come se fossero le quattro del mattino, nel 1963.

Ecco, se riuscite ad immaginare questo contesto e a non farvi fregare dal revisionismo storico che farà dei sorridenti e ammiccanti quattro ragazzotti che sorridono dalla tromba delle scale sulla copertina di questo disco la più influente pop band della storia, ne ricaverete un’immagine molto realistica di quello per cui venne realizzato, in fretta e furia, il primo disco dei Beatles.

I quattro ragazzotti di Liverpool hanno delle armonizzazioni alla Everly Brothers e una grandissima capacità di “sintesi melodica” di certo figlia di artisti come Bing Crosby, Buddy Holly e Roy Orbison perfezionata dalle numerosissime serate amburghesi. Non sono più bravi degli altri complessi dell’area del Merseyside che mescono nella stessa miscela e, a tratti, è anche sovrapponibile il repertorio. A renderli diversi e unici sono essenzialmente due fattori: la scelta di un nome moderno che è fortemente caratterizzante e in sintonia con un termine appena nato come “beat” e l’immagine aggregante, quasi proletaria che riescono a dare.

Non si tratta, come era per i Pacemakers o i Dakotas, di un gruppo “spalla” che esaltava in qualche modo la figura del leader, i Beatles sono, pur senza annullare il carattere di ognuno di loro, tutti uguali e, “diversi in uno”, sono uguali a tutti gli altri teenagers di Liverpool e dell’Inghilterra tutta, trasmettendo un senso di comunità in cui è facile rispecchiarsi. In quest’ottica la scelta del nome è, ancora una volta, nella sua immediatezza disarmante, un vero colpo di genio (i coleotteri cui alludono sono, nei fatti indistinguibili gli uni agli altri e vivono in comunità promiscue).

Le loro voci si sovrappongono sul medesimo brano, si alternano, si intrecciano, si scambiano i ruoli, creando un senso di euforia corale e collettiva che si trasmette per contagio. Le loro prime canzoni, pur se ancora disadorne, sono infatti eseguite su melodie costruite sul “molteplice”. Nessuno sovrasta l’altro e tutto il repertorio si regge su un equilibrio formidabile di melodie a presa immediata e testi allusivi ma mai volgari che incitano alla festa, al ballo, all’amore. A tutte le occasioni di vita sociale, di gruppo, di collettività.

Please Please Me è il disco che per primo mette a frutto questa miscela che si rivelerà esplosiva, sorprendendo forse per prime le persone coinvolte, visto un contenuto musicale di per sé tutt’altro che rivoluzionario.  

Un album nato senza alcun’altra pretesa che mettere a frutto l’esperienza maturata in due anni di concerti fuori dalla loro terra per realizzare un prodotto che possa essere suonato anche nelle sale in cui i Beatles non hanno un ingaggio, realizzando quella primitiva forma di teletrasporto che è alla base di tutto il meccanismo del “prodotto” pop. E difatti nei progetti iniziali George Martin, incaricato dal manager del complesso di Liverpool di stanza ad Amburgo a realizzare un supporto fonografico dei suoi beniamini, Please Please Me doveva essere semplicemente una registrazione dal vivo di una delle tante serate con cui i Beatles allietano il pubblico del Cavern Club.

Invece decide alla fine di sfruttare un paio di giornate buche agli EMI Studios per assemblare in studio il primo album della band, mettendo assieme i primi due singoli e aggiungendo altri dieci brani che, fra cover e originali “in stile” raggiungono la ragguardevole somma di quattordici canzoni.

Il lavoro va avanti veloce e spedito e Please Please Me arriva sul mercato il 22 marzo del 1963.

La nuova musica inglese ha finalmente il suo atto di nascita ufficiale.  

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

THE BEATLES – With The Beatles (Parlophone)  

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With The Beatles è il disco che ribalta, in termini di costumi, di spinta sociale e di iconografia pop, la colonizzazione Americana “subita” dall’Europa dopo il secondo dopoguerra. Sull’onda della Beatlemania che è già esplosa con il primo album, Brian Epstein decide di pubblicare l’album anche in America e di organizzare una vera e propria invasione agli Stati Uniti, architettata con la complicità di deejay locali come Carrol James e Gene Loving e ufficializzata con l’apparizione televisiva all’Ed Sullivan Show, ovvero il momento in cui i Beatles ficcano la bandiera inglese nell’ano degli Stati Uniti d’America. Qualche mese prima è uscito il loro secondo album, cui viene dato un titolo che molto astutamente insinua un messaggio sottile: i Beatles sono un gruppo filiale, da poter serenamente accogliere in famiglia. Sta tutta lì la chiave di lettura di quella semplice preposizione che precede il nome della band che sta sconvolgendo i teenagers occidentali. È un modo di rendere “adottabile” il fenomeno al pubblico meno giovane senza tuttavia disinnescarne l’impatto rivoluzionario.

Musicalmente si tratta di una replica esatta del disco di debutto, quattordici canzoni di cui sei cover stavolta leggermente più nere rispetto a quelle dell’album precedente, seppur totalmente private dallo spirito originale e ridotte a pura, semplice musica da ballo, senza alcuna altra implicazione che non sia quella di una neppur troppo tormentata infatuazione amorosa.

Canzoni ammiccanti e brillanti dal punto di vista melodico, meticolosamente organizzate tra esecuzioni formali (Til There Was You, Devil in Her Heart) e accenni di trasgressione (It Won’t Be Long, I Wanna Be Your Man) e bilanciate tra sentimentalismo e pulsione ormonale, per far sognare mamme e adolescenti.   

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

LOUIE LOUIE

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Quanto dura un amplesso? Dipende.

A letto, per quanto bravi siate, sempre meno di quello che vorreste.

Se godete ascoltando Mike Oldfield o i Jethro Tull anche 45 minuti e magari ricominciate pure.

Per il garage rock un amplesso dura 2 minuti e 42 secondi: da quando Louie schiude le sue gambe a quando le richiude dopo l’orgasmo. È il 1963. Il rock ‘n’ roll non è ancora maggiorenne e ha già perso la sua verginità, dentro uno studio di registrazione di Portland.

È dentro il Northwestern Inc. Studio, il 6 aprile del ‘63 che Jack Ely e la sua gang trascinano la giovane Louie trovata ubriaca di rum giamaicano sulla spiaggia dell’Oregon abbracciata al jukebox del Pypo Club. Lì dentro nasce, simbolicamente e carnalmente, il garage-rock.

Denudata da ogni cosa che non sia la sua carne, Louie Louie diventa l’archetipo della garage-songs (im)perfetta. Un giro di accordi elementare, una melodia ai limiti della demenza e un’approssimazione tecnica che rasenta l’incapacità. Per 38 Dollari Ken Chase e Jerry Dennon possono registrarla su nastro, e lo fanno. Nessuna doppia ripresa: al terzo minuto i Kingsmen devono sgombrare la sala che sarà noleggiata da Paul Revere il giorno dopo per mettere le sue mani sul corpo di Louie. Viene tutto registrato così come viene, con il microfono due spanne sopra la testa di un Ely costretto ad urlare come Paperino, senza curarsi neppure di eliminare dal missaggio finale errori e false partenze, neppure quella clamorosa al termine dell’assolo. Eppure, in quei due minuti e mezzo di frastuono è compresso tutto lo spirito del garage-sound primordiale, dentro quella boccia precipita e viene sprigionato il principio-base del beat, definendo il canone di una ribellione estetica e linguistica che, in quanto lontana dalle accademiche regole adulte, è già punk, tanto da venire inutilmente e per anni perseguitata dalle menti investigative dell’FBI. Cervelli pagati dallo Stato per ficcare il dito nel culo di Louie e trovare un qualunque motivo per farla marcire in galera. Due anni e mezzo di indagini, interrogatori, analisi, inchieste ed inquisizioni per poter garantire giustizia ai perbenisti offesi da quelle parole mugugnate dietro la cui apparente innocenza, tutti sono certi, si nasconde qualcosa di intimamente e perversamente sudicio e sessualmente spinto. Trentuno mesi di lotta conclusa con una dichiarata incapacità degli Agenti Federali di comprendere realmente le parole biascicate da Jack Ely alimentando la convinzione che in fondo, sebbene non si sia trovato il modo, qualcosa di realmente marcio si annidi là  dentro. Louie Louie diventerà la canzone più rifatta e copiata della storia del rock ‘n roll. Non c’è gruppo o artista che non l’abbia rifatta, anche solo per oltraggiarla o per rivendicare la sua devozione alla ricetta-base del rock ‘n roll.

Il primo accordo un pene, il secondo una vulva. Il terzo un amplesso.

Tutto il resto è superfluo.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro