DWARVES – Lick It (Recess)

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I Dwarves prima del Grand-Guignol, delle mutilazioni sul palco e del porno-punk. Quelli di Horror Stories ma anche quelli che, poco prima, avevano inciso per la Midnight col nome di Suburban Nightmare e che l’ossessione per il sesso, il macabro, il sanguinolento l’avevano dimostrata sin da subito, pur mimetizzandola inizialmente verso quel sixties-punk che stava spopolando in California e che li porterà a cercar fortuna proprio a San Francisco.

Lick It copre proprio quel primo periodo che dal 1983 al 1986 vide la band impegnata a spargere sangue su un repertorio pieno di cover come Brand New Cadillac, Every Night, 13 Stories High, You Need Love, (I’m a) Living Sickness, In & Out, Be a Caveman, Stop and Listen, Get Out of My Life e molti originali “in tema” con le loro fissazioni per lo splatter e le loro tendenze fallocrati delle quali titoli come I Hate Girls, Lick It e Average Dick possono fornire valido esempio. In questo ributtante immaginario i Dwarves riescono però a fornire un’ottima, seppur spregevole nei contenuti, interpretazione del garage-punk della metà degli anni Ottanta. E a noi, ogni tanto, piace render loro omaggio.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LAURIE ANDERSON – Home of the Brave (Warner Bros.)

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Durata esigua (35 minuti scarsi) rispetto all’ora e mezza della pièce artistica che Laurie Anderson presenta nell’estate del 1985 sul palco del Park Theater di New York e, ovviamente, tutto l’apparato multimediale ridotto ad un semplice prodotto audio. Ma, al di là di questo, Home of the Brave si impone già dalla sua uscita come l’apice della carriera di Laurie Anderson, un concentrato di musiche modernissime, figlie della robotica, dell’elettronica applicata, degli studi sulla deformazione vocale ma che conservano come uno scrigno tutta la creatività musicale e performativa che è bagaglio umano, capacità immanente di dialogare con la cultura collettiva e riprodurne i significati soggettivandone la forma espressiva.

Figlio diretto e dichiarato della “rivoluzione elettronica” propagandata da William S. Burroughs su The Ticket That Exploded Home of the Brave registra l’ennesimo, riuscito tentativo della Anderson di invadere l’intero spettro delle performance artistiche e dei supporti audio-visivi disponibili, di esporre la sua musica davanti a nuove sfide e a confronti serrati con l’audience, creando una musica concettuale capace di scendere a compromesso col paradigma dell’intrattenimento meno becero. Frac, tute d’amianto e maschere tribali sfilano esibendo il guardaroba possibile per incamminarci fra i mille percorsi praticabili che Laurie ci indica. Fuori e dentro di noi.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LAURIE ANDERSON – Mister Heartbreak (Warner Bros.)

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Una giungla di animali cibernetici che camminano dentro un enorme, labirintico circuito integrato. Mister Heartbreak rappresenta il passo successivo all’avvento degli uomini-macchina di kraftwerkiana memoria che invade tutte le creature senzienti e ne ristruttura la biosintesi e l’intero processo genetico. La “grande scienza” e la sua applicazione è dunque ancora il centro della ricerca di Laurie Anderson ma questa volta l’indagine si allarga dall’uomo all’ambiente, cosicché anche il suo canto sembra indietreggiare un po’, scegliendo spesso di bisbigliare come fosse un palombaro che cerca di comunicare con l’equipaggio che lo attende in superficie. E l’equipaggio è una ciurma di tutto rispetto: Peter Gabriel, Anton Fier, Bill Laswell, David Van Thiegem, Adrian Belew, Nile Rodgers, Phoebe Snow, Daniel Ponce, William S. Burroughs, Sang Won Park, mica gente che assoldi al molo per due soldi.

Ne viene fuori un disco pieno di increspature elettroniche e di onomatopee digitali, tutto lo schiudersi di un mondo atavico attraverso i pertugi di un filtro sintetico che lo preserva dall’estinzione e ne altera il respiro permettendone però l’ossigenazione. Un disco che ha vocazione ecologica e geocentrica ma anche un’ossessione per le macchine, senza che l’una sia ancillare all’altra. Con l’orecchio poggiato sulla crosta terrestre ed un occhio che guarda verso Oriente. Un disco che ha ancora fede in un mondo migliore, nonostante debba inventarselo pur di dire che esiste.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE SMASHING PUMPKINS – ATUM – A Rock Opera in Three Acts: Act Three (Martha’s Music/Thirty Tiger)

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Atto conclusivo (stavo per scrivere terminale, ma alla fine il cadavere si è inaspettatamente mosso, NdLYS) della trilogia ATUM e, come accennavo fra l’abbraccio della punteggiatura, la salma degli Smashing Pumpkins sembra ancora respirare. Come se il triceratopo avesse trovato alla fine un bacino d’acqua dove rigenerarsi e quel sollievo fosse anche un po’ il nostro. Non è un disco sgombro dagli eccessi che l’hanno a lungo preceduto ma fra i tre è quello che funziona meglio sia a livello episodico che a livello d’insieme. Riemergono i vecchi Pumpkins e fra il gioco d’ombre ecco anche apparire le sagome dei Cure e dei Cult in certi arpeggi cari sia a Porl Thompson che a Billy Duffy. E ovviamente emerge anche l’inquietudine stilistica, la schizofrenia che da un po’ di anni ha caratterizzato la band anche se stavolta in maniera più misurata e limitata ad alcuni episodi, quasi tutti assembrati nella seconda facciata (quando ci sarà una facciata) dell’album. Un po’ come se guardassero la Terra con nostalgia, dall’astro in cui sono finiti a far compagnia ai Rockets.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE SMASHING PUMPKINS – ATUM – A Rock Opera in Three Acts: Act Two (Martha’s Music/Thirty Tiger)

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Seconda stagione di quello che è il nuovo colossal del regista Billy Corgan. Con tutti i difetti della prima stagione, e di molte di quelle che le hanno precedute: gli Smashing Pumpkins somigliano sempre più a quei piccioni che vorrebbero volare come aquile e che invece nel loro tentennante movimento ascensionale impattano ora con un balcone aggettante, ora con un campanile, ora con un cavo dell’alta tensione. E, mentre volano, cacano giù. Un po’ dove cazzo capita.

Noi, quaggiù, guardiamo quei buchi di culo che fanno capolino fra le piume.

E ogni tanto scansiamo qualche merda.

E ogni tanto no.

Sempre più spesso no, a dire il vero.

Che Corgan pretenda di raccoglierle tutte e di metterle su disco e che noi si decida di prenderci anche quelle che abbiamo evitato è uno dei giochi al massacro più incomprensibili del nuovo secolo e sono certo che verrà studiato da fior fiori di critiche quando lui ed io avremo tirato le cuoia.

Questa seconda “portata” è indigesta quanto la prima. E la varietà degli ingredienti non è un valore aggiunto. E se il mio gusto mi faccia preferire di ingozzarmi con le chitarre di Empires invece che con l’indigesto clavicembalo di Springtimes molto dice sul mio palato e poco sulle reali intenzioni di Corgan se non quello di costringerci ad assistere alla lenta agonia di una supernova illudendoci di guardare il passaggio dell’ultima cometa.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LAURIE ANDERSON – Big Science (Warner Bros.)

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Otto minuti di gorgheggi vocali che già al secondo minuto hanno l’effetto straniante e disturbante di un rubinetto che gocciola. E, sopra a loro, la voce filtrata da un vocoder, metà robot e metà segreteria telefonica anni Ottanta. Se mi chiedete, ancora oggi, come abbia fatto una roba simile a lambire la cima della hit-parade, non so darvi una risposta. Neppure arrampicandomi sugli specchi e strisciando le unghie come gessetti su una lavagna. La musica di Laurie Anderson, non solo quello della mega-hit O Superman ma quella dell’intero suo album di debutto (e poi ancora dell’intera sua discografia) aveva sicuramente un grandissimo fascino ma di tutte le qualità che possedeva era proprio di appeal radiofonico che difettava.

Quella di Big Science era l’anti-synthpop per eccellenza: una sorta di versione panottica e post-etnica della disco-music di Grace Jones che lavorava sulla ripetitività, sull’assemblaggio, sull’imperturbabilità e sul racconto adiaforo e cinico come quello che vi dà il benvenuto su From the Air: “Buona sera. Qui è il vostro capitano. Stiamo per tentare un atterraggio di fortuna. Si prega di spegnere tutte le sigarette. Posizionate i tavolini in posizione verticale e bloccata […] Questo è il vostro capitano, e stiamo andando giù. Andremo tutti a fondo, insieme.

Una teiera in ebollizione dove la bustina non viene mai immersa, prolungando all’infinito l’agonia delle particelle di idrogeno e di ossigeno. Un album di grandi smorfie di dolore, di cabaret post-atomico, di balli da Day After.

Eseguito con gli strumenti caduti a raccolti dal crollo della Torre di Babele. Disimparando ad essere uomini, ad essere donne, ad essere animali, ad essere di carne. Noi che volevamo essere più vicini a Dio e che ora siamo polvere trascinata dal vento.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE SMASHING PUMPKINS – ATUM – A Rock Opera in Three Acts: Act One (Martha’s Music/Thirty Tiger)

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É chiaro ormai che invecchieremo sommersi dalla musica di Billy Corgan e che moriremo strozzati dalle sue manie di grandezza.

ATUM promette di tenerci compagnia per cinque mesi in una espansione delle vecchie piattaforme di Mellon Collie and the Infinite Sadness e MACHINA e di quel mastodontico Teargarden by Kaleidyscope che annoiò anche lui tanto da mandare a puttane tutto dopo dieci anni di infelice gestazione. Che qualcuno (noi o lui) si rompa le palle anche con questo ATUM porzionato in tre uscite separate è insomma un rischio calcolato. Si tratta in fin dei conti di ben tre ore complessive di musica, una olimpiade di buone intenzioni introdotte da una purga metal-sinfonica di certo non ben augurante. Invece quel che segue non è quel diluvio di diarrea che ci si aspetta dopo il lassativo. La prima parte del disco è un ritorno nel grembo del rock elettrico anche se solo Steps in Time può ambire a diventare un classico dei Pumpkins.

Poi, l’intestino (di Corgan e nostro) cede. Ed ecco che si ripiomba nel sintetico maleodorante di Cyr, che si prova a simulare un coito Duran Duran con Beyond the Vale e che addirittura ci si sporca le braghe di merda con una Hooray! buona per l’Eurovision, per poi concludere tutto con una spruzzata di vecchi deodoranti anni Ottanta come quelli di The Gold Mask che avrebbe fatto un figurone su MTV fra un video degli Scritti Politti e uno degli ABC, come se alla fine di tutto a salvarci dal futuro dovesse essere sempre quella maledetta nostalgia del passato, anche il peggiore, di cui Corgan continua a cantare.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BIG BLACK – Songs About Fucking (Touch and Go)

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Un disco spietato e cattivo, il secondo Big Black. Violento di sicuro e oltraggioso ai limiti della misoginia, con un eloquente disegno di copertina e un ancora più esplicito bozzetto sul retro. Che stavolta è “retro” per davvero. E che conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, come Albini si diverta ad associare il suo nome a tutti i peggiori “…ismi” della storia e si spinga ad una intransigenza che ostacolerà la carriera della band, costretta ad accettare la sua scelta di tenere fuori gay e gente di colore dai locali dove si esibivano. 

Dentro quella copertina esplode tutta l’agonia del noise abusato da un approccio industrial, fino all’asfissia. Ma con in mezzo tutta la goduria sado-maso con cui Steve Albini, Dave Riley e Melvin Belli riescono a provare sotto i colpi da incudine della loro drum-machine, mai così pelvica come dentro i loro dischi. Una musica che è meccanica ma che gronda sangue e liquidi corporei, come delle ruote dentate che abbiano appena finito di triturare carne fresca (Kitty Empire, The Power of Independent Trucking, L. Dopa, Colombian Necktie o la cupa volta neogotica di Tiny, King of the Jews) e che sono il definitivo passaggio di consegne dall’era dell’hardcore all’era di Trent Reznor.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ELEVENTH DREAM DAY – Since Grazed (Comedy Minus One)

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Col passare del tempo gli 11th Dream Day hanno appreso l’arte delle carezze. E carezzevole si è fatta la loro musica. Placida, filigranata, appena percorsa da quell’umore spleen che fu dei Madrugada, perché carezza non fa necessariamente rima con tenerezza, ché pure di tenerezza è pieno questo disco in cui piove una pioggia sottile di quella che ti appiattisce i capelli e ti inzuppa i vestiti ancora primaverili. Sono canzoni che danno il meglio di sé quando hanno spazio e tempo a loro favore, tanto che quando la band cerca di fare in fretta nell’unico pezzo inferiore ai tre minuti, la magia si sfalda in due minuti e quarantaquattro secondi netti. Ma è solo un piccolo neo dentro un disco (due, in verità) che di minuti ne conta sessanta e che sono perlopiù magnifici, anche quando in Matter abusa in sontuosità e in narcolessia slow-core.

Lo strumming acceso ma sordinato di A Case to Carry On, la mantrica Take Care, la malinconia alla Spain di Just Got Home (in Time to Say Goodbye), il folk ascensionale di Nothing’s Ever Lost, il crescendo di Since Glazed, la cupa indolenza di Tyrian Purple si candidano a diventare le inseparabili coperte di Linus di questo 2021.  

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro