VISAGE – Visage (Polydor)

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Tar non era stato un grosso successo. Niente affatto.

Ma Steve Strange, che era uno stratega e sapeva fiutare l’aria come pochi altri, non disperò ed attese che qualcuno bussasse alla porta del Blitz per offrirgli il contratto giusto. Finché quel giorno arrivò. L’album di debutto dei Visage, quello che diede ufficialmente il la al movimento new-romantic uscì per la Polydor, nonostante nessuno fuori Londra sapesse ancora di chi cazzo si stesse parlando.

I Visage erano nati un po’ a tavolino, uno qualsiasi dei tavolini del Blitz, il club dove Steve Strange e Rusty Egan educavano il popolo della notte ai nuovi suoni sintetici, facendo da incubatrice prenatale a tutto quello che poi sarebbe diventato il synth-pop e la scena new-romantic inglese. Attorno a quel tavolo avevano riunito Midge Ure, Barry Adamson, Billy Currie, Dave Formula, John McGeoch, Chris Payne per mettere mano all’omonimo album di debutto, pubblicato tre mesi dopo quella Ashes to Ashes per il cui video Steve Strange era stato chiamato da Bowie in persona ad indossare uno dei suoi copricapi improbabili e un vestito da vedova del Settecento.

Questa ambiguità esibita con grandissima classe avrebbe fatto di Steve Strange una icona dell’omosessualità mediatica e avrebbe attirato l’attenzione sui Visage anche in quei paesi, Italia compresa, in cui l’immagine sessualmente poco definita era ancora un’”attrazione” da spettacolo, aprendo di fatto la strada ai vari FGtH, Culture Club, Dead or Alive. L’album e in particolare il grandissimo successo per cui ancora oggi vengono ricordati Fade to Grey è ispirato, manco a dirlo, da Berlino e dal suo muro divisorio. L’intento è quello di replicare con l’artificio delle macchine il freddo e la decadenza che quella città ispira, di ricreare “in vitro” il suo grigio e tetro profilo di mattoni e cemento. La paralisi ritmica di Fade to Grey non è però il tratto unico e peculiare dell’album, dove invece l’invasione dei nuovi ritmi elettronici è tangibile e a tratti esuberante (Moon Over Moscow, Blocks on Blocks, Tar, Malpaso Man) fino a rasentare a tratti l’hi-nrg.

Il peso complessivo del disco non è tale da renderlo un capolavoro e sembra più un tentativo di testare le capacità del gruppo di confrontarsi con i campi di applicazione dei sintetizzatori e delle batterie elettroniche ma i Visage avevano centrato l’obiettivo di catalizzare attorno a loro gli occhi dei media. Meno truccati dei loro ma non meno curiosi.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DURAN DURAN – Duran Duran (EMI)

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Gli ingredienti dei primi Duran Duran erano, in pratica, gli stessi dei Japan che dal glam rock degli esordi stavano transitando verso un art-rock multiforme e sintetico passando attraverso l’infatuazione transitoria per Giorgio Moroder. Quelli, insomma, di Life in Tokyo e Quiet Life.

C’era il basso pulsante erede del tocco funk di Nile Rodgers, i sintetizzatori, il look romantico, il retaggio della new-wave figlia diretta di Bowie, dei Roxy Music, dei Tubeway Army. E c’era il pop, la melodia, il taglio ammiccante, la strizzatina d’occhio che non è ancora gesto allusivo e malizioso ma segno di intesa, gancio per attirare l’attenzione, simbolo di appartenenza al medesimo codice espressivo degli ascoltatori che vogliono conquistare. E che riusciranno a conquistare, loro più di tutti gli altri, per almeno cinque anni durante quel decennio di felicità (forse più vera che presunta, come ci saremmo accorti dopo, NdLYS) e di edonismo fluorescente che furono gli anni Ottanta. Analogamente ai Japan, i Duran Duran troveranno poi altrove, in un punto lontano della cartina geografica, la loro “patria” acquisita: il fascinoso e misterioso estremo Oriente per i primi, il pruriginoso sogno yuppie dei Caraibi per i secondi. E le strade artistiche mostreranno tutta la divergenza con cui poi sono state archiviate nelle cartine della musica pop.

Il primo disco dei Duran Duran non era ancora quella sinusoide fasciante di pop che sarà poi messa a punto con Rio e ovviamente neppure quell’oleata macchina da successi di Seven and the Ragged Tiger e Notorious quanto piuttosto un arco con poche frecce veramente appuntite. E tutte si infilzeranno nel bersaglio solo dopo che i clamorosi successi dell’anno successivo avranno fatto della formazione di Birmingham l’attrazione numero uno del circo di MTV, che all’epoca di Duran Duran non era ancora nata e che dunque non solo non aveva ancora eroi, ma neppure un canale. E quindi il paradigma “il medium è il messaggio” non è ancora applicabile al primo impatto sulla terra di questi cinque ragazzoni piovuti per fecondare il pianeta.  

E, in ogni caso, pezzi come Tel AvivSound of ThunderTo the ShoreNight Boat non avrebbero avuto alcuna chance di finire in heavy rotation così come non li avrebbero avuto i primi Simple Minds o i primi Human League, poi anche loro diventati eroi di quel mondo dopo aver scartavetrato gran parte della patina grezza del loro sound. Ciò che è ritenuto più immediato è sistemato in apertura di album e sono quella Girls on Film tutta giocata sul basso saltellante di John Taylor e dai tagli funk della chitarra e quella Planet Earth che ha più a che fare con i Blondie di quanto la critica che si spertica ancora oggi in lodi alle cosce di Debbie Harry ma non si espone quando si tratta di parlare di divi dell’altro sesso vi possa lasciare intendere. Il resto arranca senza quella consapevolezza che si farà via via più cosciente di avere in mano le briglie dell’intero decennio e di poterlo condurre come gli dèi greci un auriga. E così faranno, in barba a chi li aveva considerati un effimero prodotto dell’industria e dei modelli prestati alla causa della new-wave.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

AᗡAM AND THE ANTS – Prince Charming (Epic)

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Nell’agosto del 1981 un mondo di opportunità si schiude davanti ad Adam Ant, già “progettato” anzitempo per il mondo del rock sottovetro di MTV. La nascita del canale ufficiale di video musicali raddoppia, triplica, decuplica, centuplica le potenzialità di una band che all’immagine ha affidato almeno la metà del suo rapporto col pubblico. Al di là dei meriti o dei demeriti musicali, Prince Charming e i suoi estratti godono in ampia parte del successo dei video che fanno del cantante inglese uno dei sex-symbol definitivi della new wave d’oltremanica, racchiudendo in un solo corpo l’immagine del tenebroso cortigiano, del dandy, del fuorilegge, dell’avventuriero, del mercenario, del pirata, del bandito. Sorretto dalle chitarre di Marco Pirroni e dall’incalzare esotico dei tamburi che aggiungono quel tono avvincente da epica fumettistica, Prince Charming è il “prodotto” giusto al momento giusto, proprio nell’istante in cui esplode il fenomeno new-romantic e l’immagine si sostituisce al contenuto fra le priorità richieste dai canali televisivi, dando l’avvio alla stagione dei mimi della pop music.  

E Adam Ant ha già il suo spettacolo burlesque pronto per l’uso, condito di novelty-songs che sono gridi di battaglia conditi di fraseggi twangy, fiati mariachi, arrangiamenti da Esercito della Salvezza, frizzi e lazzi da spettacolo itinerante come 5 Guns West, Mowhok, That Voodoo!, Prince Charming, Picasso visita el pianeta de los simios, Stand and Deliver, riadattando il pittoresco show di Sam the Sham and The Pharaohs alle nuove maschere del neo-romanticismo decadente, feticista e fantasy del decennio appena inaugurato.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SPANDAU BALLET – Journeys to Glory (Reformation)

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Il primo inglese a volgere lo sguardo verso l’Est Europa era stato David Bowie.

Poi, a ruota, a tutti era apparso chiaro che rompere con la tradizione del rock and roll significava anche, forse soprattutto, rompere con la sua patria naturale. Cercare lì dove Nietzsche aveva tratteggiato il profilo dell’Übermensch e dove i Kraftwerk avevano tracciato le prime autostrade robotiche che portavano verso un mondo governato dalle macchine e dove il sudore era ritenuto una volgare schiuma da primitivi de-evoluti. La fascinazione verso la Mitteleuropa fu dunque uno dei tratti salienti del post-punk, della new wave e dei tanti fenomeni correlati, dal goth al new-romantic. Come per i Joy Division i Makers, l’ultimo dei nomi adottati da Gary Kemp e Steve Norman per la band messa su come Roots nell’ultimo quarto del 1976, andarono a frugare assieme all’asso di The Face Robert Elms tra le storie più malsane della lunga stagione nazista per coniare il nuovo nome: Spandau Ballet era un richiamo diretto agli spasmi dell’impiccagione sullo sfondo di una delle più tetre prigioni della Germania e dei nazisti che ci finirono dentro. Ambigui riferimenti alla razza ariana e al culto del corpo sono disseminati un po’ ovunque, dallo scultoreo discobolo della copertina (il pezzo più ambito da Adolf Hitler, ottenuto per intercessione diretta di Benito Mussolini, NdLYS) alle frasi riportate al suo interno, fino ai titoli e ai testi delle canzoni.  

È un esordio anche abbastanza affilato quello del gruppo londinese, soprattutto se rapportato a quanto li avrebbe resi strafamosi e straricchi solo un paio di anni dopo. Influenzati da Steve Strange e dal suo braccio destro Rusty Egan, ovvero la coppia del Blitz che introdusse i ragazzi di Londra al magico mondo di band come Kraftwerk, Roxy Music e Yellow Magic Orchestra e all’immaginario distopico e decadente di Fritz Lang e di Bertolt Brecht, gli Spandau Ballet si cimentano in un funky ariano costruito su un ordito sintetico sullo stile di Visage, Human League e Ultravox. Di una bruttura quasi imbarazzante, val la pena dirlo. Con un’enfasi esagerata ed irritante che mal dispone all’ascolto di canzoni che sono solo ingombranti fardelli appesi ad un palloncino di elio sfuggito in mano a qualche neonato.

         

                                                                                                Franco “Lys” Dimauro

THE LOTUS EATERS – No Sense of Sin (Sylvan)  

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Lasciati i Cure (anzi, silurato da Robert Smith per suonare in maniera troppo “complicata”, NdLYS) all’indomani di Three Imaginary Boys, Michael Dempsey trova asilo a Liverpool, presso il tempio dei mangiatori di loto Gerrard Quinn (per un breve periodo tastierista dei Teardrop Explodes, NdLYS), Stephen Creese, Jeremy Kelly e Peter Coyle, one-hit wonder consegnatasi alla storia degli anni Ottanta grazie al successo di The First Picture of You, canzone neo-romantica con mezza idea, ma mezza idea buona, tanto da regalare alla band un transitorio successo che la Arista cerca subito di capitalizzare infilando il gruppo in studio per vedere se oltre a quella mezza, di idea ne hanno un’altra mezza da poter stiracchiare per tirarci fuori un album.  

E così tira qua e tirà là a dispetto di una coperta corta i Lotus Eaters sfornano No Sense of Sin, uno dei dischi che anticipa di dieci anni buoni il sound dei Travis e, nell’immediatezza, il pop garbato di Colourfield e Dream Academy anch’essi destinati a non lasciare che un evanescente ricordo nella storia della pop music inglese.

No Sense of Sin è insomma un tipico prodotto adolescenziale dell’epoca new-romantic, invaso da superficiali canzoni sull’innamoramento (non sull’amore, che è ben altra cosa) e sul senso pervadente dell’esclusione che è tipico di quell’età, un po’ come i pantaloni high-waisted firmati Jim Cavaricci e gli spolverini.   

Una new wave garbata, gentile e dagli occhi azzurri, sulla falsariga di quella esibita dagli Aztec Camera su High Land, Hard Rain e dai China Crisis su Difficult Shapes and Passive Rhythms, appena appena colorata da qualche artificio come le voci riprodotte col synth sul chorus di The First Picture of You, la finta marimba che serve a You Fill Me with Need per assomigliare tanto ma proprio tanto alla Never Stop dei paesani Bunnymen o il pianoforte elettrico necessario a German Girl per fuggire dalla gabbia di Johnny and Mary di Robert Palmer in cui è andata a cacciarsi.

Un bene effimero, come il dono della bellezza. Che passa e se ne va. E ti lascia a guardare qualche foto in cui eruttava come fuoco che sembrava destinato a durare per sempre.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DURAN DURAN – Seven and the Ragged Tiger (EMI)  

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Il 1983 è l’anno in cui il synth-pop che ha dominato per un paio di anni gli show televisivi e le riviste per ragazzine conquista le arene e i grandi spazi fino a poco tempo prima a totale appannaggio delle rock-bands. Il Bowie di Let’s Dance, i Depeche Mode, i Simple Minds e i Duran Duran sono tra i primi a beneficiare delle attenzioni del grande pubblico per il funky meccanico e soprattutto della venerazione per i bei faccini conditi con lacca per capelli e un filo di mascara sulle palpebre. Chi va ai loro concerti ci va non solo per sentire la loro musica ma soprattutto per vedere ragionevolmente da vicino quel che hanno visto in tivù e per cui si sono piacevolmente tormentati ben più che le orecchie. I Duran Duran, in quel 1983, rappresentano il sogno erotico per eccellenza e con il terzo album rivendicano quell’ambizione che è stata definitivamente premiata da un consenso popolare assolutamente sproporzionato, cavalcandone simbolicamente la tigre.

Peccato che il disco soffra di un processo di volgarizzazione e di spettacolare trionfalismo che ha quasi raso al suolo quell’affascinante alchimia fra algido suono sintetico e tepori caraibici del disco precedente scegliendo piuttosto di accostarsi a quanto realizzato da David Bowie e Nile Rodgers agli inizi dell’anno, fino a tentare con New Moon on Monday un vero e proprio assalto alla fortezza della ragazza cinese da anni prigioniera di Bowie e suo cugino Iggy e affidando a questa sorta di imitazione anche il momento migliore di un album che è invece un naufragio nei mari che solo un anno prima avevano solcato con grande maestria nei pressi di Rio. Seven and the Ragged Tiger è un disco goffo e pieno di canzoni stupide risolte con i quattro trucchi del mestiere che i Duran Duran conoscono bene e che bastano ai loro fan per farli urlare ai concerti, anche quando in fin dei conti ci sia ben poco non solo da urlare ma pure da ascoltare.

“È il disco di un plotone” afferma Simon Le Bon. Ma sembra (e non lo è, nei fatti, perché col progetto Arcadia il gruppo dimostrerà di riuscire ancora a fare cose pregevoli) il disco di un plotone che ha già vinto la guerra e che può permettersi il lusso di sparare a salve le ultime cartucce che le sono rimaste, tanto per svuotare l’arsenale divertendosi un po’.  

Da fuori si vedono i lampi di un grande fuoco d’artificio.

L’arena è piena di una moltitudine di ragazzi col naso all’insù.  

           

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

 

GARBO – A Berlino…va bene (Universal) / Scortati (Universal)

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Le recenti ristampe dei primi due album di Garbo hanno il compito di “scortare” uno dei più singolari autori italiani degli anni Ottanta per presentarlo alle nuove generazioni.

Ma come potremmo spiegare Garbo alle nuove generazioni, quelle che oltre a non aver conosciuto le canzoni di Garbo forse hanno saltato anche tutte quelle dei suoi vari epigoni che la storia della musica italiana ci ha regalato negli anni successivi (dai fiorentini Moda agli Underground Life, dai Bluvertigo di Morgan ai Soerba)?

Proviamoci dicendo che nei primi anni ‘80 la musica italiana cerca di adattarsi alla “nuova corrente” inglese e all’elettronica teutonica cercando linguaggi alternativi alla consueta canzone melodica e da classifica. Se la fucina di questo movimento si può a ragione riconoscere nella Italian Records di Oderso Rubini, vale la pena ricordare che a “sdoganare” i suoni elettronici verso il grande pubblico, grazie al sostegno di etichette capaci di infiltrarsi con maggior facilità all’interno della macchina-musicale, furono essenzialmente i Chrisma (accasati presso la Polydor), i Matia Bazar (all’epoca su etichetta Ariston) e Garbo (di pianta alla EMI, che per lanciarlo invierà ai deejay il suo primo singolo come “lato b” di Bandiera bianca di Battiato, NdLYS). Non sono veri e propri elementi di disturbo (nonostante, soprattutto i primi, vengano giudicati spesso eccessivi) ma forzano il passo verso un rinnovamento espressivo strisciante ma necessario ed opportuno realizzando un vero e proprio abbordaggio popolare non più attraverso i canali underground delle radio pirata e dei locali alternativi ma sfruttando i canali ufficiali del re dei mass-media borghesi e popolari: la tv.

Se i Matia Bazar erano approdati alla musica elettronica di Tango e Aristocratica liberandosi coraggiosamente di un passato rassicurante e ricco di successi e se i Chrisma avevano già debuttato seppur in sordina alla fine del decennio precedente, è Garbo a rappresentare la vera cosa nuova con cui il pubblico deve confrontarsi. A portarlo in tivù è Carlo Massarini, all’interno del suo storico Mister Fantasy, programma che sul nuovo scommette e, per un po’, vince. Garbo invece non vince subito. Il confronto con Bowie, banalmente evocato dai riferimenti alla musica elettronica e alla città tedesca cui dedica il primo singolo e il suo album di debutto, non gioca a suo favore. Le distanze sono, effettivamente, gigantesche. La scelta di usare diverse lingue per i dieci pezzi del disco di debutto non è felicissima e forse, invece che abbattere le barriere linguistiche e culturali che limitano l’Europa come era forse nelle intenzioni dell’artista milanese, ne costruiscono qualcuna tra lui e il suo pubblico. Musicalmente il disco trova compiutezza espressiva solo in un paio di episodi (A Berlino…va bene e Anche con te…va bene) e alla fine quello che rimane in memoria è più la singolarità del  personaggio (rapportato ai canoni televisivi dell’epoca) più che l’autore di canzoni. 

Molto, molto meglio è il disco successivo, Scortati, del 1982, dove Garbo sembra padroneggiare con invidiabile maestria quel linguaggio che sul debutto veniva solo farfugliato allestendo una scaletta di pop moderno in cui ogni canzone funziona alla perfezione, con una modulazione adeguata del registro vocale e una maggiore consapevolezza melodica innestata in piccole sovrastrutture di sintetizzatori, chitarre effettate e fiati (sassofono e clarino) neo-romantici. Generazione (il promo per le radio la vede stavolta a fianco addirittura della Let’s Dance di Bowie), Moderni, Frontiere, Vorrei regnare, Al tuo fianco sono le canzoni con cui Garbo trova il vero punto di contatto col suo pubblico, conquistato poi definitivamente dai singoli immediatamente successivi come Radioclima e Cose veloci.

Le demo incluse nelle versioni estese, nonostante la sentita presentazione audio dello stesso Garbo, non aggiungono di per sé valore a due dischi a loro modo seminali per la musica pop-wave italiana. Qualcosa invece tolgono le nuove copertine che non credo serviranno a vendere qualche copia in più e il cui riadeguamento mi pare, tra l’altro, del tutto superfluo.     

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

DURAN DURAN – Rio (EMI)  

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Non importa che età abbiate avuto allora, se vi piacessero o meno. Se restavate in religiosa venerazione ogni volta passassero in radio o in tv o i vostri improperi un po’ invidiosi e un po’ snob superassero di gran lunga il volume delle loro canzoni: se siete “passati attraverso” gli anni Ottanta, vi siete imbattuti nei Duran Duran.

Il gruppo di Birmingham arriva, nei primissimi anni di quel decennio, per attuare la profezia annunciata dai Buggles proprio allo scadere di quello immediatamente precedente: annientare le star del pop attraverso il video. A loro favore gioca certamente il fatto che MTV, il primo canale televisivo dedicato esclusivamente alle clip musicali, ha aperto i battenti proprio a ridosso del loro disco di debutto. Una coincidenza, un segno dei tempi che ai cinque ragazzini inglesi deve essersi rivelato quasi come l’”in hoc signo vinces” di Pontemilviana memoria. I Duran Duran sono insomma il gruppo giusto al momento giusto, alfieri bellocci e molto credibili della stagione del disimpegno, delle vacanze full-optional, dell’ammiccamento sessuale non sfacciatamente maschilista ma di grande gusto ed ambizioni estetiche, grandissimi promoter musicali dell’età della plastica negli anni in cui il PET, il PVC e il polipropilene si stanno sostituendo nel gusto quotidiano al vetro, alle leghe, all’amianto, abilissimi tour operator delle vacanze da sogno di cui il mondo occidentale infatti sogna e, per la prima volta dal dopoguerra, riesce anche a realizzare grazie al benessere all’ibernazione bellica garantita dalla guerra fredda.  

Se il punk aveva annientato il concetto di musicista virtuoso in favore del messaggio sovversivo e antiregime, MTV impone alle nuove pop/star un’ulteriore mutazione genetica: non conta più neppure il messaggio ma il modo in cui viene porto e veicolato alla gente. Il nuovo artista deve saper in qualche modo assecondare il desiderio di svago del pubblico ed essere attore credibile di quella filosofia di vita spensierata. Non importa sappia cantare o suonare: il playback è il nuovo miracolo della pop-music e i turnisti e i produttori possono uscire dalla lampada di Aladino all’occorrenza e realizzare qualsiasi desiderio. Quello che importa, e tanto, è che l’artista pop sappia interpretare quello di cui canta. Ballando, recitando, simulando. Michael Jackson, Madonna, Wham!, Culture Club sono lì a dimostrare che si può usare l’opportunità dei video-musicali sfruttandola come degli imbonitori. I Duran Duran lo capiscono forse prima di tutti gli altri andando a colmare per primi un bisogno che ci si accorge di aver avvertito solo nel momento in cui esso viene soddisfatto.           

I Duran Duran incarnano la fantasia erotica di quegli anni. Non solo per brufolose adolescenti che sognano di perdere la verginità su uno yacht lungo le rotte dei Caraibi o di sposare Simon Le Bon. Andy Warhol confesserà di masturbarsi con gran diletto guardando i loro video e concentrandosi soprattutto su Nick Rhodes che di Warhol, di Lou Reed e dei Velvet Underground è un grandissimo fanatico.

Sono belli, colorati ed irraggiungibili. Si muovono bene e recitano come nelle pellicole di James Bond e Indiana Jones. E fanno canzoni per adescare le adolescenti.

Più ancora che il disco di debutto è dunque il sapore tropicale di Rio e dei suoi video a creare un fenomeno coercitivo destinato a diffondersi a macchia d’olio sulla musica e sull’immaginario collettivo di quegli anni. Al di là della modestissima portata di alcune canzoni (Last Chance on the Stairway, Hold Back the Rain, My Own Way sono proprio delle canzoni mediocri) sono proprio i video costruiti attorno ai suoi episodi migliori (Rio, Save a Prayer, Hungry Like the Wolf, The Chauffeur) ad ingigantire un fenomeno che musicalmente è poco più che una volgarizzazione delle intuizioni dei Japan, riuscendo a portare a compimento l’atto seduttivo che la band londinese aveva solo tentato, trasformando in prêt-à-porter la raffinata sartoria dandy di Sylvian e compagni. Detto questo e al di là dei giudizi schizofrenici di cui è stato oggetto, Rio rimane, nonostante il suo titolo da benessere da ipermercato, una validissima istantanea del gusto pop di quegli anni, una perfetta bilancia di gusto melodico e suoni moderni ed ammiccanti, sufficientemente eleganti pur nel loro evidente, voluto approdo popolare da viaggio organizzato cogliendo appieno lo spirito della missione duraniana: portare il sogno di una vita da star dentro una vita da Brodo Star. 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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JAPAN – Adolescent Sex (Hansa)

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Funky gelido, immagine da froci, nome esoticamente orientale.

Così si presentano al giro di boa degli anni Settanta i Japan, cinque annoiati efebici ragazzi della Londra borghese bruciati dall’impatto con le ambiguità sessuali di New York Dolls, Roxy Music e David Bowie. La Hansa decide di investire su di loro e di farne i paladini della silente comunità gay inglese.

Sono belli e stravaganti.

E pensano che tanto basti.

E in effetti non si sbagliano di tanto: Adolescent Sex, che specula sin dal titolo imposto dalla divisione marketing della Hansa/Ariola sulla disinibita ambiguità sessuale del gruppo inglese, diventa immediatamente un disco di culto nei bar per omosessuali del Regno Unito mentre nei paesi del sol levante i Japan vengono accolti, adottati e premiati con un fanatismo che li ripaga per la curiosa scelta del nome. Il fascino per la cultura, l’iconografia e la musica orientale sono però al momento poco più che un vezzo adolescenziale e una pacchiana messa in scena promozionale montata ad arte dall’etichetta del gruppo che decide di promuovere il lancio del disco piazzando un lottatore giapponese all’ingresso delle redazioni dei giornali per regalare delle copie promo dell’album per le recensioni (tutte puntualmente negative, NdLYS) d’ordinanza.

Il suono dei Japan degli anni Settanta è ancora profondamente occidentale. Si tratta perlopiù di un tentativo di candeggiare le nervose sincopi funky sbiancandole in una forma di glam-rock danzereccio e sintetico costruito attorno alla voce androgina di David Sylvian, depredandolo della sua carica erotica e sensuale e detergendo ogni goccia del suo sudore.  

Adolescent Sex è un’evirazione di James Brown con pochissime chance di sfondare nel mercato in fermento dell’Europa post-punk, soprattutto se si decide, come venne deciso, che i Japan aprano i concerti per una band al testosterone come i Blue Öyster Cult col risultato di venir cacciati giù dal palco al grido di “donnine adolescenti” e invitati a tornare a rifarsi il make-up sciolto dai fari davanti agli specchi della toilette di casa propria. David Sylvian, Rob Dean, Mick Karn, Steve Jensen e Richard Barbieri tornano nella loro periferia londinese a meditare sulla loro identità artistica senza tuttavia scoraggiarsi.

A chi chiede loro come ci si sente ad essere delle stelle di un firmamento che nessuno vuole fermarsi a guardare, rispondono semplicemente di essere “big in Japan”. Se non loro, chi?

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro 

JAPAN – Gentlemen Take Polaroids (Virgin)

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Il glam effeminato dei Japan, dopo la svolta esotica di Quiet Life si rifiuterà di tornare alle buffe pantomime dei primi dischi scegliendo piuttosto di scalare il dorso della new-wave più eccentrica per piantare sulla vetta due Hinomaru che rappresentino tutto il fascino della musica orientale immersa nell’algida geometria elettronica del freddo post punk occidentale.

Gentlemen Take Polaroids è il primo di questi due vessilli, conficcato qualche passo più in basso rispetto al baluardo estremo Tin Drum che vibrerà di una timbrica e di un’ispirazione più costante ed omogenea. Aspetti di cui pecca invece questo penultimo disco della formazione inglese, carico di belle canzoni tirate però un po’ troppo per le lunghe e dentro cui convivono ispirazioni molteplici che lo rendono concettualmente meno robusto e artisticamente più disorganico, diviso tra le gymnopedie dal Satie notturno di Nightporter e la disco music chic di Methods of Dance, tra le fascinazioni synth-prog di Burning Bridges, (replicate su singolo dalle tracce di Richard Barbieri e Rob Dean The Experience of Swimming o Width of a Room, NdLYS) e il funky sintetico di Swing, tra la rilettura di un classico della “musica nera” come Ain‘t That Peculiar ed un omaggio al “continente nero”come Taking Islands in Africa regalata al gruppo da Ryuichi Sakamoto, tra l’eleganza new romantic della title-track e le sinuose curve di My New Career dove gli occhi di David Sylvian, ancora sporcati dal make up, cominciano la trasformazione antropologica che li farà diventare definitivamente a mandorla sul disco successivo.

                                                                                        Franco “Lys” Dimauro