Avete un nome per la top ten delle bands più sottovalutate del mondo? Io ne avrei parecchi. Ma soprattutto avrei il nome da mettere in cima alla lista: benvenuti quindi nel circo della più grande incognita del mondo del rock, nel più raccapricciante interrogativo sulle fortune avverse cui ci si possa trovare davanti quando si fa un po’ di agiografia del rock, e neanche delle più approfondite. Signore e signori: i Flamin’ Groovies! Gente che si lordava le mani col rock ‘n roll mentre gli amichetti delle elementari inseguivano conigli bianchi nel paese di Alice e che ha continuato a fare la propria cosa senza seguire le mode ma aspettando comodamente che fossero le mode a tornare da loro. Geniale, in qualche modo.
Così in piena “restaurazione” rock (siamo in epoca Paisley e neo-psych, metà anni ‘80, NdLYS) qualcuno si risporca le mani con i loro pezzi.
Ma dura giusto un paio di anni, poi la merda torna a dilagare. Sempre con forma circolare, anche se di dimensioni sempre più ridotte.
Siamo nel 1969 e a pochi mesi da Sneakers, un dieci pollici da un quarto d’ora prodotto e stampato in proprio, i Flamin’ Groovies vengono ingaggiati da una major per essere prontamente risputati. Supersnazz, il loro unico titolo a fregiarsi del logo della Epic, arriva nei negozi nel 1969 ed è già un disco demodè in cui le vere potenzialità dei Groovies restano inespresse o, meglio, canalizzate nella riproposizione di uno stile (il rock ‘n’ roll basico degli anni Cinquanta, la musica tradizionale da avanspettacolo, certo R&B alla Fats Domino) che è stato già a lungo sviscerato durante la restaurazione beat ormai spenta di qualche anno prima.
Riprodotto con classe e stile impeccabili.
Che però è proprio quello che, in quel 1969 invaso da album come gli esordi di Stooges, Led Zeppelin, MC5, King Crimson, Abbey Road dei Beatles, Let It Bleed degli Stones, Hot Rats di Zappa, Trout Mask Replica di Captain Beefheart, Stand! di Sly e la sua Family, Ummagumma dei Pink Floyd o Tommy degli Who, non serve a nessuno. Il mercato, le etichette e il pubblico cercano potenza ed innovazione e rifiutano lo schematismo rispettoso ma per nulla eversivo alle cui regole Supersnazz è invece piegato. Tra i brani in scaletta solo Love Have Mercy, un trascinante boogie che sembra voler fare il verso al rockabilly acustico di Eddie Cochran e ai sermoni in salsa soul di Salomon Burke, rimarrà tra i classicissimi del gruppo californiano mentre il resto, dal grazioso scioglilingua vaudeville di Bam Balam alla morbida e stucchevole ballata A Part from That cadono subito nel pozzo oscuro della memoria. Da cui tuttavia è a volte piacevole ritirarle fuori, ora che la smania per il nuovo a tutti i costi è spesso piacevolmente sostituita dal rassicurante desiderio di concedersi una mezz’oretta di musica senza altra pretesa se non quella di accompagnarti con docilità ed eleganza, come le amicizie discrete.
Abbandonata San Francisco e le sue utopie di pace, i Flamin’ Groovies si muovono verso New York dopo una breve sosta nel Michigan, per sporcare il loro suono di asfalto. Il contratto con la Epic è andato in fumo e il cartone animato di Supersnazz è terminato in malo modo. A trovar loro un nuovo contratto ci pensa Richard Robinson, uomo di fiducia della Kama Sutra e della Buddah Records, che per l’occasione si mette anche al banco produzione.
Per l’etichetta delle Shangri-Las i Groovies licenziano i loro due lavori migliori.
Flamingo è il primo di questi.
Dei due, quello con minor carattere, ancora vincolato ad una forma canonica di rock ‘n’ roll, seppur indurito dalla loro breve permanenza a Detroit e dal contatto con band come Frost, MC5 e Alice Cooper Band. Ne escono fuori pezzi potenti come Comin’ After Me, Headin’ for the Texas Border, Second Cousin’ e Jailbait, vicinissimi a quanto registrato pochissimi mesi prima dai Motor City Five per Back in the USA, ovvero un suono che segue il solco classico del rockabilly e del rock ‘n’ roll boogie basico di Little Richard, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis e dall’altro cerca in qualche modo di tracciare un parallelo solco più personale, riuscendo però a centrare l’obiettivo soltanto sul disco successivo.
Dopo due dischi tutto sommato ordinari come Supersnazz e Flamingo, nel 1971 Flamin’ Groovies si apprestano a sputare fuori il loro capolavoro.
Come dichiarerà lo stesso Cyril Jordan al magazine ZigZag, Teenage Head è l’album in cui per la prima volta viene fuori la personalità della band californiana.
Pensato ed inciso nell’immenso caos newyorkese con uno stuolo di amici e ammiratori ad assistere alle sessions di registrazione (tra cui Richard Meltzer di Crawdaddy e Lester Bangs), Teenage Head è uno dei dieci dischi fondamentali del rock ‘n’ roll pre-punk, carico di sporcizia fin dentro le mutande oltre che disco imprescindibile dei Groovies, rollingstoniano fino a soverchiare gli stessi Stones e pieno di chitarre slide. Dentro, alcuni numeri da antologia come la ballatona Yesterday‘s Numbers e la title-track che resta uno dei pezzi-chiave della storia del rock ‘n’ roll per la perfetta combinazione tra liriche e riff e chiude il quadrilatero perfetto che ha per lati My Generation, Satisfaction e Search and Destroy.
Non serve nessun trattato sull’orgoglio spavaldo dell’essere giovani, tutto quello che volete sapere è scritto, a fuoco, in questi quattro pezzi.
L’attacco sudicio di High Flyin’ Baby con quelle chitarre che sembrano lingue di schiave pronte a pulirti l’uccello e la voce di Roy Loney filtrata attraverso gli effetti da studio pensati da Richard Robinson per rendere l’atmosfera del disco ancora più torbida sbriciola le pareti. È un’orda di lingue fameliche che scavano il ventre di una donna. Un amplesso filtrato da un mesaboogie valvolare.
È ad una cosa così che gli Stooges penseranno quando si tratterà di aprire il disco del loro rientro in scena, un paio di anni dopo.
City Lights si infila, musicalmente e liricamente, dentro gli Stones acustici di No Expectations, ravvivando il ricordo della chitarra slide di Brian Jones che di quel pezzo era protagonista assoluto. Il boogie di Have You Seen My Baby? di Randy Newman è una delle due cover presenti sul disco (l’altra è una versione del classico 32-20 Blues di Robert Johnson, erroneamente riportata come 32-02 sull’originale copertina Kama Sutra che stringo tra le mani, NdLYS).
La prima facciata si chiude con un altro omaggio al suono di Beggars Banquet: Yesterday‘s Numbers si muove in perfetto equilibrio tra chitarre acustiche e la slide di Cyril Jordan più in forma che mai.
La B-side si apre con un altro pezzo-mostro: Teenage Head ha dentro di sé tutti i Miracle Workers e i Morlocks che verranno e che infatti la infileranno nella loro saccoccia di cover, cisposa di maracas e infettata dall’armonica a bocca.
Evil Hearted Ada scritta dal solo Roy Loney si immerge nel suono Sun del sempre amato Presley anticipando i Cramps e i boccheggi ansimanti di Lux Interior di una mezza dozzina di anni. Doctor Boogie è un altro furto dagli archivi Sun, stavolta ai danni di Doctor Ross e della sua Boogie Disease. Cyril e Roy la scrivono di getto, la stessa notte che scrivono Teenage Head, per completare in fretta una scaletta che non ha ancora raggiunto la consistenza di un album. Whiskey Woman in chiusura riporta il tono del disco sui consueti binari stonesiani, stavolta lambendo la stazione di Sticky Fingers, pubblicato proprio lo stesso mese (e con al piano Jim Dickinson, lo stesso pianista che accompagna i Flamin’ Groovies su Have You Seen My Baby?, City Lights e High Flyin’ Baby, NdLYS) dai “fratelli” inglesi.
Appena un anno dopo Roy Loney si chiamerà fuori dal gruppo deluso dalle vendite umilianti di quello che è invece ritenuto a ragione uno dei dischi fondamentali del rock ‘n’ roll del decennio, finendo per fare l’A&R per la ABC Records e tirando fuori dal buio band come Ramones, Tom Petty and The Heartbreakers e la band di Dwight Twilley. Prima di andarsene regala al vecchio amico un’ultima canzone, scritta in un hotel di Detroit. “È una canzone sulle droghe, caro Cyril”, gli dice. “Una canzone sulle droghe e su come si può morire lentamente, mentre si crede di stare scalando i gradini per la vetta del mondo, una canzone sulla separazione da sé stessi e dagli altri, una canzone su me e te”.
Poi, le parole di Slow Death riempiono la stanza.
Slow death eats my mind away. Slow death turns my flesh to clay. Slow death, slow death, slow death, slow death.
Quella notte a Detroit cadono le stelle.
Nel 1976, proprio mentre l’esplosione del punk dovrebbe dar loro ragione e la loro Slow Death è una delle canzoni più trasmesse dalla bocca del juke box della boutique di Malcolm McLaren, i Flamin’ Groovies si siedono dalla parte sbagliata del marciapiede. Se Teenage Head era stata l’apoteosi del suono stonesiano e il trionfo di Roy Loney, Shake Some Action sceglie i Beatles e Chuck Berry come nomi tutelari mentre il nuovo acquisto Chris Wilson sollecita la svolta in direzione power-pop, spinti dalla mano sapiente di Dave Edmunds con cui la band inizia a lavorare sin dal lontano 1972 con l’idea di registrare un paio di singoli e un intero album.
Il risultato è un disco che spiazza il nocciolo duro dei vecchi fan con un suono assolutamente meno virile. Dalle finestre dei Rockfield Studios bussano echi di Merseybeat e di jingle-jangle byrdsiano e i nuovi Groovies che sono andati ad ossigenarsi nel Galles dopo la risoluzione del vecchio contratto e l’allontanamento di Loney e Tim Lynch, li lasciano entrare. Qui i Flamin’ Groovies reinventano se stessi, look (taglio di capello in perfetto stile beat ed elegantissimi abiti mod al posto dei capelli incolti e dei pantaloni di pelle che campeggiavano sulle prime copertine) e strumentazione (l’Ampeg di Cyril Jordan viene sostituita da una Rickenbacker 12 corde mentre George Alexander abbandona il suo vecchio basso in favore di un Hofner a violino in un ennesimo omaggio a Paul McCartney, NdLYS) compresi.
I pezzi chiave dell’album sono ovviamente i due singoli Shake Some Action e You Tore Me Down, risalenti alle prime sessions con Edmunds del 1972 (gli altri pezzi erano Get a Shot of R ‘n B, Little Queenie, Married Woman, Tallahassie Lassie e il fantastico inno anti-droga di Slow Death di cui abbiamo detto, registrati per l’abortito Bucket of Brains, NdLYS). Entrambe scritte dal team Jordan/Wilson mostrano un suono fortemente melodico e ricco di arpeggi folk-rock nella miglior tradizione californiana e costituiscono la chiave di lettura dei nuovi Groovies che abbandonano definitivamente il cazzuto suono dei primi anni Settanta per dedicarsi, nella trilogia che chiude il decennio, ad una innocua e tutto sommato abbastanza inutile parodia beatlesiana d’autore.
Chi vi dice che questi sono i Flamin’ Groovies migliori, o mente o è un fan dei Beatles.
Siate scaltri.
Now esce nel 1978. A due anni da Shake Some Action.
In mezzo c’è stato il punk. Ma ascoltandoli uno dopo l’altro, viene difficile crederci.
Nonostante fossero stati in qualche modo artefici forse inconsapevoli di tutto quel gran casino che è scoppiato lì fuori, i Flamin’ Groovies perseverano nel loro anacronistico mondo illuminato da chitarre sgargianti e prelibatezze vocali copiate o rubate a Beatles, Raiders, Big Star, Byrds, Buddy Holly, Rolling Stones con un disco che, complice il meticoloso lavoro in regia di Dave Edmunds (microfoni piazzati direttamente sugli ampli e altri disseminati in studio a captare i naturali eco e riverbero dell’ambiente e diverse take di ogni pezzo, per poi poter operare sul cutting e l’editing), è l’esatta riproduzione del disco precedente, seppur registrato con vita meno travagliata.
Mike Wilhelm dei Charlatans si avvicenda alla terza chitarra al posto di James Ferrell che finirà a dar man forte all’ex-compagno Roy Loney per il bellissimo Out After Dark dei suoi Phantom Movers.
A supportarli ci sono, come sempre, Greg Shaw dalle pagine di Bomp! e Kris Needs da quelle di Zig Zag. Il pubblico molto meno. Now vende pochissimo, complice la scarsissima promozione della Sire, interessata soprattutto a spingere Ramones e Talking Heads, assoluti alfieri del “nuovo” da contrapporre nella scacchiera ai pezzi troppo disciplinati dei Groovies. I pezzi forti del disco sono Good Laugh Mun e All I Wanted che però stanno un passo indietro rispetto a You Tore Me Down e Shake Some Action e cento passi distanti da Slow Death, il pezzo che aveva in qualche modo reinquadrato il suono della band californiana nel lontano 1972.
Il meglio vive stavolta della luce riflessa del sole byrdsiano di Feel a Whole Lot Better e di quello eclissato e torbido degli Stones di Paint It Black. Piegandosi ai maestri non potendo più salire in cattedra.
A dispetto di un suono fresco che sa di ortaggi appena raccolti Jumpin’ in the Night, il disco che chiude la trilogia dei Groovies per la Sire e conclude, di fatto, la fase creativa della band di San Francisco, una volta messo sul piatto dà una poco piacevole impressione di una cesta di cibi in scatola.
Scatolette di latta messe una accanto all’altra e da cui escono fuori i Beatles, Bob Dylan, i Byrds, James Burton e Warren Zevon cui Cyril Jordan e Chris Wilson affiancano qualche piccolo sapore di casa dal gusto sempre meno incisivo, sempre meno capace di rendersi distinguibile al palato (Next One Crying fa il verso al Lennon solista, First Plane Home a quello del periodo Merseybeat, In the U.S.A. è quasi un Lovin’ Spoonful in libera uscita). Forse è solo il tirato boogie della title-track col suo duello di chitarre che resta un po’ schiacciato sul missaggio finale e le altrettanto belle pennellate di Rickenbacker di Yes I Am a rendere prezioso questo ultimo lavoro dei Groovies che soffre già della crisi che sta dilaniando un’altra volta la formazione californiana e che le impedirà di godere se non trasversalmente (Wilson con i Barracudas, Jordan e Alexander con una esangue reunion del 1986) del successo del revival neo-sixties di cui erano stati pionieri.
Nel 1986 i Flamin’ Groovies, grazie al lavoro sotterraneo di band come i Miracle Workers e gli Hoodoo Gurus, si rendono conto che possono ancora piacere.
Come quelle tardone che ricevono qualche attenzione tardiva e provano a rimettersi in tiro spendendo in estetisti e parrucchieri senza scrupoli Jordan e Alexander, unici superstiti della formazione (Chris Wilson è andato a nuotare nell’oceano dei Barracudas), allestiscono One Night Stand, una passerella dei vecchi “successi” (Teenage Head, Slow Death, Shake Some Action, I Can’t Hide) e qualche cover di ordinanza (Kicks dei Raiders, Call Me Lightning degli Who, Bittersweet dei cuginetti australiani Hoodoo Gurus). Ma a livello di fertilità artistica siamo al nulla cromosomico, così come è tremendamente agghiacciante il drenaggio di ogni piccola goccia di un qualsiasi umore rock ‘n’ roll. I Flamin’ Groovies si soffocano nella fossa biologica dei loro liquami, coi detergenti e le creme antirughe dentro i beauty case. E un devastante senso di perenne ritardo nel cuore.
Analogamente trascurabile è il Rock Juice del 1993 accreditato ai Flamin’ Groovier, con ancora Jordan e Alexander a tirare le redini (e le cuoia) di una band perennemente seduta sul lato sbagliato del tavolo da gioco.
Un po’ in anticipo, un po’ in ritardo.
Un po’ Beatles, un po’ Rolling Stones.
A proposito! Voi eravate per gli uni o per gli altri?
Beh….io ero per i Flamin’ Groovies!
Da restaurazione in restaurazione, da revival in revival, negli anni in cui il rock è diventato poco più che un lumacone che sbava su se stesso, i Flamin’ Groovies restaurano se stessi.
Chris Wilson riabbraccia infatti i vecchi amici un po’ per caso nel Luglio del 2013, su un palco di Londra, dando il via ad una lunga serie di date amarcord in giro per il mondo fino a che, esattamente quattro anni dopo, viene dato l’annuncio dell’arrivo di un nuovo lavoro in studio. Fantastic Plastic, registrato un po’ per volta alla fine di ogni tour, esce il 22 settembre del 2017 e vede fianco a fianco Wilson, Jordan e Alexander, come ai tempi di Shake Some Action. Sin dall’attacco di What the Hell’s Goin’ On l’effetto déjà vu è immediato, implacabile e la sensazione che i Groovies possano aver tirato fuori un disco dignitoso viene confermata man mano che ci si inoltra nell’ascolto delle restanti undici tracce, vestite di quelle chitarre luminose che furono il tratto distintivo della loro produzione degli anni Settanta e che tornano a splendere su End of the World e sulla cover di I Want You Bad degli NRBQ e a concedersi addirittura un bagno nel boogie dell’era Supersnazz su Crazy Macy. E se la nuova versione di Let Me Rock (il primo pezzo in assoluto scritto dalla coppia Wilson/Jordan e pubblicato nel lontano 1973 dalla Skydog sull’EP Grease) tradisce l’esigenza senile di ripulire la grezza irruenza degli anni giovanili e qualche brano sembra buttato lì tanto per raggiungere il minutaggio previsto (lo strumentale I’d Rather Spend My Time with You con una comparsata di Alec Palao al basso o la cover di Don’t Talk to Strangers dei Beau Brummels), complessivamente Fantastic Plastic, complice anche la bella copertina disegnata da Cyril Jordan in omaggio allo stile di Jack Davis, è un ritorno in scena finalmente degno di venire illuminato da qualche riflettore.
Franco “Lys” Dimauro