THE BACKDOOR MEN – Södra Esplanaden #4 (Dolores Recordings)

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Diciamo che se siete tutto quello che paventate di essere (scavafosse, sixties-maniaci e quant’altro) la sezione storicamente più interessante di questa raccolta è quella immediatamente successiva alla stringata scaletta dei due singoli e mezzo pubblicati dai Backdoor Men durante la loro attività e che, sempre se siete ciò che dichiarate e io non ho alcun motivo per dubitarne, dovreste conoscere come l’ABC.

Si tratta infatti delle prime registrazioni della band svedese, ovvero quelle risalenti al periodo “mod” antecedente alla svolta folk/punk e garage che li avrebbe portati a incidere gemme come Magic Girl e, sul versante più selvaggio, l’insuperata bellezza di Out of My Mind, quando i Backdoor Men si chiamavano ancora Pow e giravano i locali della città muovendosi sulle Vespe portando in dono l’oro dei Jam, l’incenso dei Lambrettas e la mirra dei Merton Parkas.

Erano i primissimi anni Ottanta e i Pow erano l’unica mod-band della Svezia. Pionieri di un’estetica ricca di fascino. Come sarebbe stato pochi anni dopo per i Backdoor Men. Pionieri anch’essi, ancora una volta. 

Södra Esplanaden racconta, in musica e nel bel libretto a corredo, la trasformazione dei Pow in Backdoor Men e da questi nei più fortunati (molto più fortunati) Creeps. Non c’è invece alcuna traccia dei brani che il quartetto pare stesse elaborando per l’album d’esordio che doveva essere partorito nel reparto neonatologia dell’Electric Eye di Pavia.

Ed è un vero peccato.

Che saremmo stati felici e onorati di conoscere quello di cui la storia ci ha privati.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

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SPIDERGAWD – IV (Crispin Glover)  

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Prosegue a ritmi serrati la sequenza zeppeliniana degli album degli Spidergawd, filiazione dei Motorpsycho giunta al quarto album in quattro anni, dimostrando una fertilità produttiva e un livello di eccellenza pari a quelle del gruppo madre.

IV è, ancora una volta, un album potentissimo.

Non so bene come funzionino le cose lì fuori, nel vostro mondo di classifiche, festival, rimpatriate, stadi gremiti per l’ennesima reunion dei Deep Purple e ristampe di tutto il ristampabile, fosse anche un disco uscito due anni fa ma gli Spidergawd hanno le carte in regola per piacere davvero ad un mare di gente. Dai nostalgici del grunge a quelli che ancora rimpiangono le belle stagioni del Monsters of Rock, da chi stravedeva per i Cult a chi si faceva il blowback mentre ascoltava i Monster Magnet, da chi ama i QotSA a chi ancora aspetta che A Perfect Circle e Tool caghino finalmente il loro Chinese Democracy.

La voce di Per Borten cresce in potenza disco dopo disco, così come il taumaturgico groviglio di riff che pesca a piene mani dal certo hard-blues degli anni Settanta, dal classico heavy metal degli anni Ottanta e dallo stoner degli anni Novanta diventando una sorta di super-parodia trasversale di tutto il rock più duro.

Manca stavolta l’azzardo, il tentativo di fermare le biglie per disarticolare un po’ il gioco, la voglia di aprire un varco nel muro di cinta annichilente che il quartetto norvegese ha costruito attorno a Trondheim e che ha assunto le dimensioni della Muraglia Cinese. Però resta sempre un gran bel sentire, quando il suono degli Spidergawd spinge le membrane come un clitoride pronto a squirtare.   

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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SHAMPOO – In Naples 1980/81 (EMI)  

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Prima dell’invasione cinese, i falsi d’autore erano egemonia assoluta dei napoletani. Una vera e propria industria parallela che, unita all’arte di arrangiarsi e alla fantasia senza limiti del popolo partenopeo, faceva della città italiana l’eccellenza del mercato tarocco. Prodotti e sottoprodotti sfornati a Napoli invadevano l’Italia e quella parte di mondo raggiungibile prima dell’avvento di internet.

Gli Shampoo furono uno di questi. Se non la cosa migliore, sicuramente una delle vette della produzione popolare napoletana di sempre.

L’idea era nata all’allora presidente del Napoli Calcio Corrado Ferlaino che, in combutta con Gianni De Bury e Giorgio Verdelli della Radio Antenna Capri di cui Ferlaino era allora editore, aveva annunciato in occasione di un’amichevole contro il Liverpool, nientemeno che la reunion di “quattro ragazzi di Liverpool”. Quello che accadde, quando la Rolls Royce attraversò le stradine del Vomero, è rimasto nella memoria collettiva dei centocinquantamila accorsi in città come uno degli eventi pop più eccitanti del secolo scorso. Un misto di emozione fibrillante, di sconcerto e di delusione che non sarà mai più ripetuto. Perché, una volta aperti gli sportelli, dalla limousine scesero quattro ragazzoni napoletani con tanto di parrucconi alla Beatles e che qualcuno del quartiere riconobbe in Massimo e Lino D’Alessio, Pino De Simone e Costantino Iaccarino.

Il linciaggio però non ci fu. Che i napoletani sanno stare allo scherzo. E il concerto dei “Beatles” fu un vero tripudio. Perché, se è vero come è vero, che non si trattava del gruppo di Liverpool, i quattro guaglioncelli napoletani non ne facevano per nulla rimpiangere l’assenza. La loro parodia era, come le lacrime di San Gennaro, portentosa. Fedelissime nei suoni e nelle armonie ai Beatles originali, le cover degli Shampoo riadattavano le canzoni del gruppo inglese al dialetto napoletano con una naturalezza surreale, tanto che in un universo parallelo qualcuno avrebbe potuto azzardare che furono i Beatles a copiare dagli Shampoo e non viceversa.

Ne furono convinti pure alla EMI, cui la band approdò grazie a Renzo Arbore. L’etichetta storica dei Beatles. Che nel 1980 pubblicò l’album degli Shampoo, in una edizione verde delle storiche raccolte blu e rosse dei Beatles e sostituendo la famosa mela con una succosa pummarola napoletana. E che è un disco fantastico. Senza tema di smentita il miglior disco-tributo ai Beatles di sempre. Un prodotto proletario e nazional-popolare capace di fare tabula rasa delle caricature semi-intellettuali di Rutles e Residents e di brillare di una scioltezza verosimile e tangibile.

Un album che sposa in maniera sorprendente l’ottimismo del popolo di Napoli con quello dell’Inghilterra del boom economico.

Un disco cult da annoverare tra i classici.

Gli Shampoo l’unico complesso capace di lavare i panni dei Beatles nell’acqua del Golfo.

Corrado Ferlaino l’uomo che sconfisse il Liverpool due volte in un solo giorno.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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ROLLINS BAND – Weight (Î-mä/gō)  

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Mandibole e giugulari tirati fino allo spasimo, bicipiti e quadricipiti gonfi come tacchini, torso nudo, polpacci turgidi e pronti all’aggressione.

Ipertonico e carico di rabbiosa disciplina, Henry Rollins dà l’impressione che affronti ogni nuovo disco, ogni nuovo concerto come se dovesse affrontare un’altra sfida sul ring.

Rollins è uno che si avventa sulle canzoni. Le lavora ai fianchi con animalesco vigore e poi gli si scaglia contro.

Con possenza altèra, maschia, ferina cerca di dominarle e gode nel vederle dimenarsi affannate e doloranti sotto le suole cingolate dei suoi anfibi.

Sul ring con lui Sim Cain, Melvin Gibbs e Chris Haskett: dei secondi che non sono secondi a nessuno. “Pesi” massimi anche loro. Destinati a spaccare mascelle e tumefare il fegato degli avversari. 

Come il disco precedente (e parte di diRty dei Sonic Youth, NdLYS), Weight è dedicato all’amico e coinquilino Joe Cole, ucciso davanti ai suoi occhi la notte del 19 dicembre del 1991, dopo aver assistito a un concerto degli Hole (che a Cole dedicheranno l’intero Live Through This). E come quello è carico di una fisicità prorompente, incontenibile. Un manifesto quadrangolare della filosofia salutista di Mr. Rollins risolto in dodici canzoni che non conoscono la resa. Bagnate in un hard rock roccioso che padroneggia ganci e montanti e confonde l’avversario con l’elastica ma virile movenza del funky.

Senza abbassare mai la guardia.

Senza mai abbozzare un sorriso.

Senza mai gettare la spugna.

Mortificando il nemico.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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MASSIMO VOLUME – ǝzuɐʇs (Underground)  

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Il libro si intitola Zwischenzeit.

Ce ne sono tanti, di libri così.

Ma quello di Roland Schneider è diverso da tutti gli altri.

Raccoglie un centinaio di foto scattate dentro un ospedale psichiatrico di Berna nel 1987, lo stesso dove Schneider viene ricoverato per una gravissima forma di disaffezione e che, prima di prendere la forma di un libro, vengono mostrate agli stessi ospiti del centro di disfunzioni mentali che ne sono protagonisti.

I Massimo Volume, che in quel 1993 sono ancora i Signor Nessuno del rock italiano, scelgono uno di quegli scatti per la copertina del loro disco di debutto, un album destinato a tracciare il solco per il ritorno dell’uso della lingua italiana in ambito rock.

Fatta di necessità virtù (Emidio accetta di diventare il cantante della band a patto che non debba cantare per davvero), i Massimo Volume svincolano di fatto l’officiante dal ruolo di cantante, come era successo dieci anni prima con i CCCP Fedeli alla Linea sostituendo ai proclami di quelli delle vere e proprie micro-storie. Diventando un modello molto replicato e mai realmente raggiunto per molte band (non solo italiane) a venire. Dietro la voce di Emidio Clementi si staglia un muro di suono figlio del noise e del post-core americano.

Ferraglia, ruggine, polveri metalliche, molecole di carbonio, scambi ferroviari che segnano lo scorrere del tempo come lancette. La civiltà industriale che entra con prepotente forza nelle quotidiane vite di provincia, penetrando nelle storie di coppie che non si parlano più, di universitari che consumano i pomeriggi in piscina e le serate al bar, di uomini non ancora uomini che spingono le cremagliere dei ricordi sperando di muovere un ingranaggio che li spinga verso il futuro, restandone invece intrappolati.

ǝzuɐʇs vuote riempite da un rumore assordante. Come quello di mille bocche chiuse.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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IL PAN DEL DIAVOLO – Supereroi (La Tempesta Dischi)  

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Al quarto album il duo palermitano ha deciso di camminare sulle ortiche. Pubblicizzare l’arrivo del nuovo disco strombazzando la collaborazione con Piero Pelù è infatti una di quelle operazioni atte a dividere in fazioni già prima di aver ascoltato i risultati. Che è, peraltro, uno degli sport più praticati in Italia.

Del resto “consegnarsi” fra le mani del Piero nazionale dopo averlo visto difendere un’idea pacchiana del ruoock tra i giurati di un talent o dentro dischi orribili come gli ultimi dei Litfiba è una scelta che può compromettere risultati e giudizi. Oppure patrocinare l’affacciarsi de Il Pan del Diavolo sulla malfrequentata scena overground, dopo anni di gloriosa presenza sotterranea. Io propenderei per questa seconda ipotesi, visto che la coppia siciliana ha di fatto reso via via sempre meno “scheletrica” la formula inaugurata ormai sette anni fa da Sono all’osso e, grazie a “qualche piccolo aiuto dagli amici” e ad una manciata di mangime, rimpolpato la propria musica fino a renderla simile a certi polli belli gonfi che trovi sul banco carni del supermercato. Certo, l’aria ruspante dei primi anni è bell’e andata, così come certe atmosfere da saloon fatiscente che si sprigionavano dal disco più recente (ora imprigionate nella riserva di Messico, ammorbate però da uno dei testi peggiori finora scritti dalla band, NdLYS) e, sarà di certo suggestione, ma lungo il percorso certe inflessioni vocali sembrano voler fare il verso al Pelù nascosto tra i cactus di Tex e Cangaceiro, cercando di trasformare il Pan del Diavolo nel Pan dEl Diablo, senza riuscirci.   

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

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LA CASBAH – La Casbah (autoproduzione)

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Aprite il vostro atlante e tracciate una curva che parta dai labirintici vicoli che come intestini riempiono la pancia delle città arabe, attraversi le terre arse dal sole del Sud Italia, abbracci le banlieaus parigine e, scivolando giù per le periferie spagnole, arrivi a conficcarsi nei sobborghi di Kingston.

Ecco, quello è il perimetro entro cui potete circoscrivere la musica de La Casbah, saltellante di ska meticcio e ondeggiante di mandolini tzigani.

I dodici centimetri digitali non rendono però giustizia alla vera anima del gruppo siciliano, difficile infatti racchiudere nella piattezza (non solo geometrica) del supporto digitale il movimentato e variopinto circo cui ci hanno ben abituato nei loro spettacoli dal vivo: un palco che pullula di mascheroni, mangiafuoco, saltimbanchi, giocolieri, fez e kaftani, odorante di petrolio e di sudori che qui, complice una dinamizzazione del tutto inesitente, fatica a lasciarsi immaginare.

Chi ha avuto l’opportunità di vedere La Casbah in azione troverà solo a tratti la stessa atmosfera dei loro show ma i mandolini ska-tenati di Punture di strega e lo ska-cciapensieri ska-ttante di Priati priamu sono angoli di Mediterraneo nascosto che è bello portarsi a casa come souvenir.

                       Franco “Lys” Dimauro

 

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MARLENE KUNTZ – Catartica (Consorzio Produttori Indipendenti)  

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Quella del crowfunding è oggi pratica assai diffusa, in tutti campi.

Nel settore discografico la sua espansione è inversamente proporzionale alla disponibilità finanziaria delle case discografiche, piccole o grandi che siano.

Ma allora, siamo nel 1993 (quando quello che allora veniva chiamato World Wide Web viene usato ancora come alternativa ai canali porno di massa e per pochissimo altro), a tentare la strada del finanziamento pubblico, per di più senza averlo neppure, quel pubblico, sono davvero in pochi. I Marlene Kuntz ad esempio furono dei veri pionieri. Nell’estate di quell’anno sulle riviste di settore spunta, confuso tra cento altri, un annuncio con queste parole: “Marlene Kuntz è quattro anni  di suoni e amore. Ci nutriamo della quintessenza della Gioventù Sonica e delle Cattive Sementi: non plagio ma feeling di note e di vita. Chiediamo l’assurdo: la vostra prenotazione del nostro primo E.P. mandando £ 13.000 spese incluse a Riccardo Tesio, Via Sacco e Vanzetti 5, 12100 Cuneo”.

Le cose poi andarono come spesso vanno ai pionieri.

E quell’E.P. non uscì mai.

Ma a credere nei Marlene Kuntz fu uno che i Marlene Kuntz li aveva sentiti davvero. E che si prese carico di diventare il produttore esecutivo del progetto, finanziandolo con i soldi dell’etichetta che aveva appena messo in piedi. E così Catartica, che nel frattempo era diventato un album vero e proprio, divenne il primo numero del catalogo del Consorzio Produttori Indipendenti.

E Maroccolo aveva visto giusto, che il momento era buono per il rock non esattamente di stampo “mediterraneo” cantato in lingua italiana.

I Massimo Volume a Bologna avevano sdoganato la lingua di Dante rendendola protagonista centrale del loro suono.

Lo avevano fatto egregiamente i Flor de Mal giù in Sicilia e presto avrebbero ceduto, svoltando non solo stilisticamente, gli Afterhours. E anche chi qualche radice in comune con i Marlene Kuntz ce l’aveva per davvero, come i toscani Starfuckers. Senza svoltare. 

E i suoi C.S.I. erano pronti per il debutto. Trascinandosi dietro anche chi quell’alchimia la collaudava da anni ma senza riuscire a farsi largo in un mondo declinato in lingua inglese, come i Ritmo Tribale.

I Marlene Kuntz (che Godano proverà inutilmente a far articolare in maniera corretta, arrendendosi poi al comune adagio che li volle cunz anziché canz per sempre, NdLYS) diventano da subito quella gran cosa che sono rimasti negli anni, abbottonando con efficacia il canto in lingua madre alle asole storte dei Sonic Youth.

Un’abilità che si affinerà col tempo, quando la fragilità farà capolino fra i toni vanitosi che aleggiano ingombranti su gran parte dei primi testi del gruppo, ma che già su pezzi come Lieve, Nuotando nell’aria, Gioia (che mi do), Festa mesta si prefigura capace di trascinare le folle. Riuscendo alla fine a scucire quelle tredicimila lire ai botteghini dei concerti.   

Noi stiamo per generare l’idea di vomitare sui vostri piatti migliori.

E noi, aspettammo vomitassero.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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FAUST’O – Suicidio (Ascolto)

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Fausto Rossi guarda alla new wave di Bowie e Talking Heads.  

Alberto Radius dal canto suo non riesce a scrollarsi di dosso il vecchio pastrano prog.

Quando nel 1978 viene pubblicato Suicidio, il disco di debutto del Rossi ribattezzatosi Faust’O e prodotto dall’ex-Formula 3, questa dicotomia salta fuori in dieci brani in cui le due anime sembrano convivere senza tuttavia conciliarsi del tutto, finendo per renderlo ancora più indigesto, alieno, borderline ed incatalogabile di quanto non fosse nei progetti dell’allora ventiquattrenne musicista friulano.

Ma non è ovviamente questo a rendere “imbarazzante” Suicidio e a costringere lui e il suo autore ai margini della scena musicale nazionale. Sono invece i temi toccati da Faust’O (l’omosessualità, la masturbazione, il suicidio come estrema scelta di misantropia lacerante e consapevole, la denuncia dell’ipocrisia mascherata dietro l’unica amicizia possibile ovvero quella di comodo e la sfida al perbenismo bigotto inculcato dal timor di Dio) con sprezzante cinismo e dissacrante, irriverente, strafottente anticonformismo a costringere il pubblico a chiudergli la porta in faccia. Anche il pubblico punk, cui la vena caustica e ribelle di Fausto Rossi dovrebbe piacere almeno quanto quella degli Skiantos, decide di tenerlo alla larga per quelle sue pose da intellettuale neoromantico che mal si sposano alle creste e alle svastiche e le A cerchiate distribuite un po’ insensatamente sui muri delle città.

Quindi Faust’O resterà esattamente nel posto dove aveva deciso di restare.

In un posto tutto suo. Sigillato col silicone della sua accidia.

Lontano dagli occhi, dalle orecchie, dai cuori di una folla che non ha ancora trovato il suo Dio e che pure ne misura la presenza dalle orme lasciate di chi viaggia senza la Sua compagnia.        

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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FLAMIN’ GROOVIES – Morte lenta

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Avete un nome per la top ten delle bands più sottovalutate del mondo? Io ne avrei parecchi. Ma soprattutto avrei il nome da mettere in cima alla lista: benvenuti quindi nel circo della più grande incognita del mondo del rock, nel più raccapricciante interrogativo sulle fortune avverse cui ci si possa trovare davanti quando si fa un po’ di agiografia del rock, e neanche delle più approfondite. Signore e signori: i Flamin’ Groovies! Gente che si lordava le mani col rock ‘n roll mentre gli amichetti delle elementari inseguivano conigli bianchi nel paese di Alice e che ha continuato a fare la propria cosa senza seguire le mode ma aspettando comodamente che fossero le mode a tornare da loro. Geniale, in qualche modo.

Così in piena “restaurazione” rock (siamo in epoca Paisley e neo-psych, metà anni ‘80, NdLYS) qualcuno si risporca le mani con i loro pezzi.

Ma dura giusto un paio di anni, poi la merda torna a dilagare. Sempre con forma circolare, anche se di dimensioni sempre più ridotte.

 

Siamo nel 1969 e a pochi mesi da Sneakers, un dieci pollici da un quarto d’ora prodotto e stampato in proprio, i Flamin’ Groovies vengono ingaggiati da una major per essere prontamente risputati. Supersnazz, il loro unico titolo a fregiarsi del logo della Epic, arriva nei negozi nel 1969 ed è già un disco demodè in cui le vere potenzialità dei Groovies restano inespresse o, meglio, canalizzate nella riproposizione di uno stile (il rock ‘n’ roll basico degli anni Cinquanta, la musica tradizionale da avanspettacolo, certo R&B alla Fats Domino) che è stato già a lungo sviscerato durante la restaurazione beat ormai spenta di qualche anno prima.

Riprodotto con classe e stile impeccabili.

Che però è proprio quello che, in quel 1969 invaso da album come gli esordi di Stooges, Led Zeppelin, MC5, King Crimson, Abbey Road dei Beatles, Let It Bleed degli Stones, Hot Rats di Zappa, Trout Mask Replica di Captain Beefheart, Stand! di Sly e la sua Family, Ummagumma dei Pink Floyd o Tommy degli Who, non serve a nessuno. Il mercato, le etichette e il pubblico cercano potenza ed innovazione e rifiutano lo schematismo rispettoso ma per nulla eversivo alle cui regole Supersnazz è invece piegato. Tra i brani in scaletta solo Love Have Mercy, un trascinante boogie che sembra voler fare il verso al rockabilly acustico di Eddie Cochran e ai sermoni in salsa soul di Salomon Burke, rimarrà tra i classicissimi del gruppo californiano mentre il resto, dal grazioso scioglilingua vaudeville di Bam Balam alla morbida e stucchevole ballata A Part from That cadono subito nel pozzo oscuro della memoria. Da cui tuttavia è a volte piacevole ritirarle fuori, ora che la smania per il nuovo a tutti i costi è spesso piacevolmente sostituita dal rassicurante desiderio di concedersi una mezz’oretta di musica senza altra pretesa se non quella di accompagnarti con docilità ed eleganza, come le amicizie discrete.

Abbandonata San Francisco e le sue utopie di pace, i Flamin’ Groovies si muovono verso New York dopo una breve sosta nel Michigan, per sporcare il loro suono di asfalto. Il contratto con la Epic è andato in fumo e il cartone animato di Supersnazz è terminato in malo modo. A trovar loro un nuovo contratto ci pensa Richard Robinson, uomo di fiducia della Kama Sutra e della Buddah Records, che per l’occasione si mette anche al banco produzione.

Per l’etichetta delle Shangri-Las i Groovies licenziano i loro due lavori migliori.

Flamingo è il primo di questi.

Dei due, quello con minor carattere, ancora vincolato ad una forma canonica di rock ‘n’ roll, seppur indurito dalla loro breve permanenza a Detroit e dal contatto con band come Frost, MC5 e Alice Cooper Band. Ne escono fuori pezzi potenti come Comin’ After MeHeadin’ for the Texas BorderSecond Cousin’ e Jailbait, vicinissimi a quanto registrato pochissimi mesi prima dai Motor City Five per Back in the USA, ovvero un suono che segue il solco classico del rockabilly e del rock ‘n’ roll boogie basico di Little Richard, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis e dall’altro cerca in qualche modo di tracciare un parallelo solco più personale, riuscendo però a centrare l’obiettivo soltanto sul disco successivo.  

Dopo due dischi tutto sommato ordinari come Supersnazz e Flamingo, nel 1971 Flamin’ Groovies si apprestano a sputare fuori il loro capolavoro.

Come dichiarerà lo stesso Cyril Jordan al magazine ZigZag, Teenage Head è l’album in cui per la prima volta viene fuori la personalità della band californiana.

Pensato ed inciso nell’immenso caos newyorkese con uno stuolo di amici e ammiratori ad assistere alle sessions di registrazione (tra cui Richard Meltzer di Crawdaddy e Lester Bangs), Teenage Head è uno dei dieci dischi fondamentali del rock ‘n’ roll pre-punk, carico di sporcizia fin dentro le mutande oltre che disco imprescindibile dei Groovies, rollingstoniano fino a soverchiare gli stessi Stones e pieno di chitarre slide. Dentro, alcuni numeri da antologia come la ballatona Yesterday‘s Numbers e la title-track che resta uno dei pezzi-chiave della storia del rock ‘n’ roll per la perfetta combinazione tra liriche e riff e chiude il quadrilatero perfetto che ha per lati My GenerationSatisfaction Search and Destroy.

Non serve nessun trattato sull’orgoglio spavaldo dell’essere giovani, tutto quello che volete sapere è scritto, a fuoco, in questi quattro pezzi.

L’attacco sudicio di High Flyin’ Baby con quelle chitarre che sembrano lingue di schiave pronte a pulirti l’uccello e la voce di Roy Loney filtrata attraverso gli effetti da studio pensati da Richard Robinson per rendere l’atmosfera del disco ancora più torbida sbriciola le pareti. È un’orda di lingue fameliche che scavano il ventre di una donna. Un amplesso filtrato da un mesaboogie valvolare.

È ad una cosa così che gli Stooges penseranno quando si tratterà di aprire il disco del loro rientro in scena, un paio di anni dopo.

City Lights si infila, musicalmente e liricamente, dentro gli Stones acustici di No Expectations, ravvivando il ricordo della chitarra slide di Brian Jones che di quel pezzo era protagonista assoluto. Il boogie di Have You Seen My Baby? di Randy Newman è una delle due cover presenti sul disco (l’altra è una versione del classico 32-20 Blues di Robert Johnson, erroneamente riportata come 32-02 sull’originale copertina Kama Sutra che stringo tra le mani, NdLYS).

La prima facciata si chiude con un altro omaggio al suono di Beggars BanquetYesterday‘s Numbers si muove in perfetto equilibrio tra chitarre acustiche e la slide di Cyril Jordan più in forma che mai.

La B-side si apre con un altro pezzo-mostro: Teenage Head ha dentro di sé tutti i Miracle Workers e i Morlocks che verranno e che infatti la infileranno nella loro saccoccia di cover, cisposa di maracas e infettata dall’armonica a bocca.

Evil Hearted Ada scritta dal solo Roy Loney si immerge nel suono Sun del sempre amato Presley anticipando i Cramps e i boccheggi ansimanti di Lux Interior di una mezza dozzina di anni. Doctor Boogie è un altro furto dagli archivi Sun, stavolta ai danni di Doctor Ross e della sua Boogie Disease. Cyril e Roy la scrivono di getto, la stessa notte che scrivono Teenage Head, per completare in fretta una scaletta che non ha ancora raggiunto la consistenza di un album. Whiskey Woman in chiusura riporta il tono del disco sui consueti binari stonesiani, stavolta lambendo la  stazione di Sticky Fingers, pubblicato proprio lo stesso mese (e con al piano Jim Dickinson, lo stesso pianista che accompagna i Flamin’ Groovies su Have You Seen My Baby?City Lights e High Flyin’ Baby, NdLYS) dai “fratelli” inglesi.

Appena un anno dopo Roy Loney si chiamerà fuori dal gruppo deluso dalle vendite umilianti di quello che è invece ritenuto a ragione uno dei dischi fondamentali del rock ‘n’ roll del decennio, finendo per fare l’A&R per la ABC Records e tirando fuori dal buio band come Ramones, Tom Petty and The Heartbreakers e la band di Dwight Twilley. Prima di andarsene regala al vecchio amico un’ultima canzone, scritta in un hotel di Detroit. “È una canzone sulle droghe, caro Cyril”, gli dice. “Una canzone sulle droghe e su come si può morire lentamente, mentre si crede di stare scalando i gradini per la vetta del mondo, una canzone sulla separazione da sé stessi e dagli altri, una canzone su me e te”.

Poi, le parole di Slow Death riempiono la stanza.

Slow death eats my mind away. Slow death turns my flesh to clay. Slow death, slow death, slow death, slow death.

Quella notte a Detroit cadono le stelle.  

Nel 1976, proprio mentre l’esplosione del punk dovrebbe dar loro ragione e la loro Slow Death è una delle canzoni più trasmesse dalla bocca del juke box della boutique di Malcolm McLaren, i Flamin’ Groovies si siedono dalla parte sbagliata del marciapiede. Se Teenage Head era stata l’apoteosi del suono stonesiano e il trionfo di Roy Loney, Shake Some Action sceglie i Beatles e Chuck Berry come nomi tutelari mentre il nuovo acquisto Chris Wilson sollecita la svolta in direzione power-pop, spinti dalla mano sapiente di Dave Edmunds con cui la band inizia a lavorare sin dal lontano 1972 con l’idea di registrare un paio di singoli e un intero album.

Il risultato è un disco che spiazza il nocciolo duro dei vecchi fan con un suono assolutamente meno virile. Dalle finestre dei Rockfield Studios  bussano echi di Merseybeat e di jingle-jangle byrdsiano e i nuovi Groovies che sono andati ad ossigenarsi nel Galles dopo la risoluzione del vecchio contratto e l’allontanamento di Loney e Tim Lynch, li lasciano entrare. Qui i Flamin’ Groovies reinventano se stessi, look (taglio di capello in perfetto stile beat ed elegantissimi abiti mod al posto dei capelli incolti e dei pantaloni di pelle che campeggiavano sulle prime copertine) e strumentazione (l’Ampeg di Cyril Jordan viene sostituita da una Rickenbacker 12 corde mentre George Alexander abbandona il suo vecchio basso in favore di un Hofner a violino in un ennesimo omaggio a Paul McCartney, NdLYS) compresi.

I pezzi chiave dell’album sono ovviamente i due singoli Shake Some Action e You Tore Me Down, risalenti alle prime sessions con Edmunds del 1972 (gli altri pezzi erano Get a Shot of R ‘n B, Little QueenieMarried WomanTallahassie Lassie e il fantastico inno anti-droga di Slow Death di cui abbiamo detto, registrati per l’abortito Bucket of Brains, NdLYS). Entrambe scritte dal team Jordan/Wilson mostrano un suono fortemente melodico e ricco di arpeggi folk-rock nella miglior tradizione californiana e costituiscono la chiave di lettura dei nuovi Groovies che abbandonano definitivamente il cazzuto suono dei primi anni Settanta per dedicarsi, nella trilogia che chiude il decennio, ad una innocua e tutto sommato abbastanza inutile parodia beatlesiana d’autore.

Chi vi dice che questi sono i Flamin’ Groovies migliori, o mente o è un fan dei Beatles.

Siate scaltri.  

Now esce nel 1978. A due anni da Shake Some Action.

In mezzo c’è stato il punk. Ma ascoltandoli uno dopo l’altro, viene difficile crederci.

Nonostante fossero stati in qualche modo artefici forse inconsapevoli di tutto quel gran casino che è scoppiato lì fuori, i Flamin’ Groovies perseverano nel loro anacronistico mondo illuminato da chitarre sgargianti e prelibatezze vocali copiate o rubate a Beatles, Raiders, Big Star, Byrds, Buddy Holly, Rolling Stones con un disco che, complice il meticoloso lavoro in regia di Dave Edmunds (microfoni piazzati direttamente sugli ampli e altri disseminati in studio a captare i naturali eco e riverbero dell’ambiente e diverse take di ogni pezzo, per poi poter operare sul cutting e l’editing), è l’esatta riproduzione del disco precedente, seppur registrato con vita meno travagliata.

Mike Wilhelm dei Charlatans si avvicenda alla terza chitarra al posto di James Ferrell che finirà a dar man forte all’ex-compagno Roy Loney per il bellissimo Out After Dark dei suoi Phantom Movers.

A supportarli ci sono, come sempre, Greg Shaw dalle pagine di Bomp! e Kris Needs da quelle di Zig Zag. Il pubblico molto meno. Now vende pochissimo, complice la scarsissima promozione della Sire, interessata soprattutto a spingere Ramones e Talking Heads, assoluti alfieri del “nuovo” da contrapporre nella scacchiera ai pezzi troppo disciplinati dei Groovies. I pezzi forti del disco sono Good Laugh Mun e All I Wanted che però stanno un passo indietro rispetto a You Tore Me Down e Shake Some Action e cento passi distanti da Slow Death, il pezzo che aveva in qualche modo reinquadrato il suono della band californiana nel lontano 1972.

Il meglio vive stavolta della luce riflessa del sole byrdsiano di Feel a Whole Lot Better e di quello eclissato e torbido degli Stones di Paint It Black. Piegandosi ai maestri non potendo più salire in cattedra.

 

A dispetto di un suono fresco che sa di ortaggi appena raccolti Jumpin’ in the Night, il disco che chiude la trilogia dei Groovies per la Sire e conclude, di fatto, la fase creativa della band di San Francisco, una volta messo sul piatto dà una poco piacevole impressione di una cesta di cibi in scatola.

Scatolette di latta messe una accanto all’altra e da cui escono fuori i Beatles, Bob Dylan, i Byrds, James Burton e Warren Zevon cui Cyril Jordan e Chris Wilson affiancano qualche piccolo sapore di casa dal gusto sempre meno incisivo, sempre meno capace di rendersi distinguibile al palato (Next One Crying fa il verso al Lennon solista, First Plane Home a quello del periodo Merseybeat, In the U.S.A. è quasi un Lovin’ Spoonful in libera uscita). Forse è solo il tirato boogie della title-track col suo duello di chitarre che resta un po’ schiacciato sul missaggio finale e le altrettanto belle pennellate di Rickenbacker di Yes I Am a rendere prezioso questo ultimo lavoro dei Groovies che soffre già della crisi che sta dilaniando un’altra volta la formazione californiana e che le impedirà di godere se non trasversalmente (Wilson con i Barracudas, Jordan e Alexander con una esangue reunion del 1986) del successo del revival neo-sixties di cui erano stati pionieri.

 

Nel 1986 i Flamin’ Groovies, grazie al lavoro sotterraneo di band come i Miracle Workers e gli Hoodoo Gurus, si rendono conto che possono ancora piacere.

Come quelle tardone che ricevono qualche attenzione tardiva e provano a rimettersi in tiro spendendo in estetisti e parrucchieri senza scrupoli Jordan e Alexander, unici superstiti della formazione (Chris Wilson è andato a nuotare nell’oceano dei Barracudas), allestiscono One Night Stand, una passerella dei vecchi “successi” (Teenage HeadSlow DeathShake Some Action, I Can’t Hide) e qualche cover di ordinanza (Kicks dei Raiders, Call Me Lightning degli Who, Bittersweet dei cuginetti australiani Hoodoo Gurus). Ma a livello di fertilità artistica siamo al nulla cromosomico, così come è tremendamente agghiacciante il drenaggio di ogni piccola goccia di un qualsiasi umore rock ‘n’ roll. I Flamin’ Groovies si soffocano nella fossa biologica dei loro liquami, coi detergenti e le creme antirughe dentro i beauty case. E un devastante senso di perenne ritardo nel cuore.

Analogamente trascurabile è il Rock Juice del 1993 accreditato ai Flamin’ Groovier, con ancora Jordan e Alexander a tirare le redini (e le cuoia) di una band perennemente seduta sul lato sbagliato del tavolo da gioco.

Un po’ in anticipo, un po’ in ritardo.

Un po’ Beatles, un po’ Rolling Stones.

A proposito! Voi eravate per gli uni o per gli altri?

Beh….io ero per i Flamin’ Groovies!

Da restaurazione in restaurazione, da revival in revival, negli anni in cui il rock è diventato poco più che un lumacone che sbava su se stesso, i Flamin’ Groovies restaurano se stessi.

Chris Wilson riabbraccia infatti i vecchi amici un po’ per caso nel Luglio del 2013, su un palco di Londra, dando il via ad una lunga serie di date amarcord in giro per il mondo fino a che, esattamente quattro anni dopo, viene dato l’annuncio dell’arrivo di un nuovo lavoro in studio. Fantastic Plastic, registrato un po’ per volta alla fine di ogni tour, esce il 22 settembre del 2017 e vede fianco a fianco Wilson, Jordan e Alexander, come ai tempi di Shake Some Action. Sin dall’attacco di What the Hell’s Goin’ On l’effetto déjà vu è immediato, implacabile e la sensazione che i Groovies possano aver tirato fuori un disco dignitoso viene confermata man mano che ci si inoltra nell’ascolto delle restanti undici tracce, vestite di quelle chitarre luminose che furono il tratto distintivo della loro produzione degli anni Settanta e che tornano a splendere su End of the World e sulla cover di I Want You Bad degli NRBQ e a concedersi addirittura un bagno nel boogie dell’era Supersnazz su Crazy Macy. E se la nuova versione di Let Me Rock (il primo pezzo in assoluto scritto dalla coppia Wilson/Jordan e pubblicato nel lontano 1973 dalla Skydog sull’EP Grease) tradisce l’esigenza senile di ripulire la grezza irruenza degli anni giovanili e qualche brano sembra buttato lì tanto per raggiungere il minutaggio previsto (lo strumentale I’d Rather Spend My Time with You con una comparsata di Alec Palao al basso o la cover di Don’t Talk to Strangers dei Beau Brummels), complessivamente Fantastic Plastic, complice anche la bella copertina disegnata da Cyril Jordan in omaggio allo stile di Jack Davis, è un ritorno in scena finalmente degno di venire illuminato da qualche riflettore.         

                                                                                    

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

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