GUNS N’ ROSES – Use Your Illusion I/II (Geffen)

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Il 17 settembre 1991 quattro corpi celesti si allineano nel firmamento della musica rock: sono i quattro pianeti di Use Your Illusion, che in quel momento riescono ad eclissare con la loro ombra pure Nevermind dei Nirvana e il pianeta nero dei Metallica.

Tutti i telescopi sono puntati su di loro, qui dal pianeta Terra. L’orizzonte di aspettative generate da Appetite for Destruction aveva legittimato l’attenzione smisurata, adeguatamente alle proporzioni del nuovo progetto: trenta canzoni nuove di zecca, per due ore e mezza di musica di quella che è fino a quel momento la band più gettonata del pianeta.

Metà, una buona metà sarà da buttare. Ma sarà proprio quella metà, quella in cui la band decide di disfarsi dei fucili per dedicarsi alla cura del roseto, a contribuire in maniera determinante al suo successo anche fra il pubblico che il rock-spazzatura se lo mangiava già a colazione.

I Guns N’ Roses erano venuti a patto con quel mondo, durante questa traversata nel fiume in piena di Use Your Illusion, con ballate stucchevoli come Don’t Cry, November Rain, Civil War, 14 Years, Yesterdays, So Fine, Estranged, The Garden di cui si sarebbero vergognati anche gli Aerosmith più svenevoli, una cover stomachevole di Knockin’ on Heaven’s Door, una inutilmente lunga e confusa Coma che bastava mettere sottovuoto come certi maglioni di kashmir per ridurre l’80% di aria che contiene e quel tentativo di abbordaggio di basso livello al crossover per fortuna abortito dopo novanta secondi di My World che riducevano l’inutile ingombro di due doppi album a quello di un album singolo.   

Quattro vinili che, se ti tagli il dito passandolo sul bordo, non esce che solo qualche goccia di sangue.

Quattro vinili. Come l’amico che si vanta di averlo più lungo degli altri. E che poi finisce per bagnarsi le scarpe quando piscia in compagnia.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NEW YORK DOLLS – ‘Cause I Sez So (ATCO) 

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A un certo punto delle loro vite, artisticamente in picchiata, David Johansen e Sylvain Sylvain hanno sentito il bisogno (economico?, il dubbio è lecito, NdLYS) di andare a riprendere la loro vecchia bambola in soffitta e dargli una spolveratina.

Succede all’incirca a metà del decennio I del XXI secolo.

Non sappiamo cosa ne pensino i vecchi compagni defunti, ma ormai la frittata e fatta e dunque tanto val la pena rigirarla. Cauze I Sez So è dunque il secondo capitolo della nuova stagione della saga, tanto per pareggiare i conti con la prima serie. Nel 2009 dunque ci tocca sentire la parodia delle New York Dolls interpretata da essi medesimi, con un disco che ha pochissime calorie.

Sfatto, anzi sfattissimo. Ma non nel senso decadente e perverso di trentacinque anni prima, quanto nell’accezione di un disco che ha pochissimi motivi per esistere, per abitare la nostra casa, per impegnare i diodi del nostro impianto stereo. Roba(ccia) come il western di Temptation to Exist, l’orrida ballata Lonely So Long, la nuova versione reggae di Trash, il Johnny Cash bagnato come un pulcino di Making Rain sono disarmanti tentativi di tenere in piedi una baracca che forse meriterebbe di crollare. My World, unico pilastro del disco, non ne può reggere il peso, seppure si mostri armato a dovere, nonostante l’esile apparenza di una torva ballata.

Avvisate i filistei, prima che sia troppo tardi.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

THE JONESES – Keeping Up with The Joneses (Doctor Dream)

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Fra i primi sleaze-rockers californiani, i Joneses non beneficiarono affatto del loro ruolo di prime-movers, producendo di fatto un solo bellissimo album e solo tre singoli prima di dissolversi in una nuvola di fumo colorato salvo poi tornare sporadicamente a riaffacciarsi da qualche palco. Il suono dei Joneses è imbevuto di tossine thundersiane e sotto la pioggia di capelli da hair-band paga un debito non mascherato al pub-rock più crudo, tenendosi così strettamente attorcigliato al rock and roll di base e all’R&B che fungono da stoppini per pezzi come Ms. 714 o Jungle Disease, invasione clandestina nella scena del crimine che era stata teatro delle psicosi retro-rock delle New York Dolls e che creano quel sortilegio che da lì a poco catturerà anche i Chesterfield Kings di The Berlin Wall of Sound.

Keeping Up conserverà intatta la sua forza irruenta e il suo fascino decadente di cerniera tra punk ‘n roll e hard rock anche quando la corrente dello street rock ‘n’ roll avrà ormai invaso ogni strada della California e tutti avremo imparato a convivere con un Diavolo con i capelli biondi e cotonati.  

 

                                                                                     Franco “Lys” Dimauro

BAD LOSERS – Bad Losers (GMG)

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Non le “bambole” newyorkesi bensì quelle di Toulon. Quelle pronte ad accogliere ed accompagnare Stiv Bators, Johnny Thunders o Peter Perrett nei loro movimenti in terra francese. Discograficamente non andarono oltre un solo album, inciso a Londra col primo produttore dei Sex Pistols e che si incanalava nello sleaze-rock delle New York Dolls e dei loro epigoni, Hanoi Rocks in primis pur senza soffocare mai del tutto, e per fortuna, le origini garage-rock della band (Evil Sacrifices e Prostitution ne sono le inconfutabili prove) che a volte dirottano il suono dei Bad Losers verso i lidi del guitar-rock ai confini fra power-pop, Paisley Underground e roots-rock come nella bella e sfacciata Not Anymore, salvando il gruppo dal rischio parodistico che pare paventarsi nell’inaugurale On Main Street e facendola rientrare nei ranghi di un onesto rock ‘n’ roll stradaiolo e fumantino.

Derivativo il giusto, divertente anche più del normale.

Perdente già dal nome.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PEARL JAM – L’ultimo volo da Nord-Ovest

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Come un rigurgito sleaze salito dalla California di Guns N’ Roses e Jane’s Addiction su su per il grasso ventre dell’America, fino a trasformarsi in conato di vomito glam-metal nel nord-ovest degli Stati Uniti, lì dove sta succedendo quella cosa chiamata grunge. Che è partita proprio da loro, quando ancora “lavoravano” nelle officine dei Green River, degli Skin Yard e dei Malfunkshun.

Dunque, prima di essere un gruppo super i Mother Love Bone sono già un super-gruppo. E Andrew Wood ne è consapevole, tanto da pretendere ed ottenere il primo ingaggio major della scena di Seattle. Per la Stardog, etichetta creata apposta per loro dalla Mercury, incidono prima l’E.P. Shine e quindi Apple, che Andrew non stringerà mai fra le mani: poche settimane prima della sua uscita quel cognome che si è portato dietro dall’Ohio si sarà materializzato in legno vero e il suo sogno di rockstar sarebbe sfilato per la città in orizzontale anziché lanciarsi a razzo verso le stelle.

Quella mela avvelenata non l’addenterà nessuno dei commensali: quando viene servita a tavola nel luglio del 1990 i Mother Love Bone si sono già trasformati in un estemporaneo progetto che vuole accomiatarsi salutando per l’ultima volta il vecchio amico registrando un disco a nome Temple of the Dog.

Ad accogliere Apple resta un pubblico numeroso ed attonito, che ben presto si abituerà a seguire i feretri dei suoi eroi.

Un disco in cui più che le potenti e funkeggianti rock songs portate in dono da Jeff Ament e Stone Gossard (gli assalti di Holy Roller, le chitarre che sfrecciano come aerei a bassa quota su Heartshine, il groove nodoso di Captain Hi Top e l’incenso allo zolfo che si sprigiona su Bone China su tutte) sono proprio le apoteosi di tormento asciutto e romantico delle ballate scritte da Wood a colpire nel segno: Stargazer, Man of Golden Words, Gentle Groove e Crown of Thorns sono un disco nel disco, un’autopsia post-mortem sul petto di Andrew Wood che mette a nudo il suo cuore glam ribelle e solitario, il torsolo di questa mela avvelenata coperta di zucchero caramellato.    

 

All’indomani della morte di Andrew Wood quel che resta dei Mother Love Bone viene convocato da Chris Cornell ovvero colui che col biondo cantante della band condivide, oltre che sogni di gloria, cucina e bagno in un mini-appartamento in città per un tributo alla memoria: è il battesimo di fuoco dei Mookie Blaylock che da lì ad un paio di mesi diventeranno Pearl Jam e che stanno all’epoca ancora rodando questo nuovo cantante di San Diego chiamato Eddie Vedder, apparso fra i tanti candidati l’unico in grado di cucire addosso alla musica di Stone Gossard e Jeff Ament dei vestiti credibili che non siano solo una sgualcita copia delle buffe e colorate divise di Andrew Wood. Il suono d(e)i Temple of the Dog è già quello che farà di Ten un disco milionario: Rick Parashar produce entrambi i lavori dando a quell’impasto sonoro il medesimo taglio, forzando l’imprinting epico/decadente che era già latente nei vecchi Mother Love Bone e che la voce di Cornell carica di drammaticità zeppeliniana e cercando una via alternativa non tanto al grunge della città quanto allo sleaze rock che ancora dilaga in California, alla ricerca di una nuova “classicità” rock che è quella che molti detrattori non perdoneranno mai ai Pearl Jam.

Hunger Strike, Call Me a Dog, Your Savior, Pushin’ Forward Back, All Night Long, Say Hello 2 Heaven fondano il canone dell’hard-rock di Seattle, quello che i Pearl Jam perlustreranno in lungo e in largo per oltre trent’anni e che lo stesso Cornell recupererà nella sua carriera post-Soundgarden e che rappresenterà l’alternativa locale prima e mondiale poi alla strapotenza del grunge.   

 

Ten, il debutto definitivo dei Pearl Jam, è un esordio che mette paura.

Una soggezione reverenziale, come quando ti trovi davanti alla Pietà del Michelangelo o al David di Donatello.

Il primo capitolo dei Pearl Jam è l’ultimo atto del classic rock.

Qui muore quel concetto di rock che trascende i generi e le sottoculture.

Perché dopo di esso tutti avranno paura del confronto, i Pearl Jam per primi, cercando di affrancarsi da un precedente così ingombrante da far sembrare patetici tutti gli epigoni che salteranno fuori da lì a breve.

Faceva bene Eddie Vedder a prendere già allora le distanze dal grunge. La loro musica non aveva nulla da spartire con nessuna scena. Era autosufficiente, autonoma, fiera, indipendente. Ten (dieci, come il numero sulla maglia di quel Mookie Blaylock che era il campione il cui nome era stata la prima scelta quando si era trattato di scegliere un nome per la prima avventura post-Mother Love Bone, NdLYS) è un disco che chiede di fermarti. Reclama concentrazione, totalmente padrone del suo tempo, della sua logica artistica, del suo raziocinio dialettico.

Non lascia scampo e ti fa prigioniero. È una dolorosa lacerazione sulla carne che non smette di bruciare, di localizzare la tua attenzione. Devi fasciarla stretta per farla ammutolire, per concederti un respiro, una tregua, un armistizio con il dolore che ti sale dalle viscere. C’era, nella musica di Ten, questo taglio epico ed eucaristico pieno di nuvole, di masse di vapore scuro, pesante. Era, ed è ancora, come correre lungo una highway americana, ma verso il temporale.

Ha questa maestosità ombrosa, introversa, schiava e vittima delle intemperie.

Schiacciata a terra da una perturbazione meteorologica che è pioggia dell’anima.

È un sapore di fuga che resta irrisolta, incompiuta. L’amarezza inquieta di chi sa che potrà fuggire da tutto ma non dal proprio passato. Che per Eddie è quello di una famiglia a pezzi, di un padre bastardo, di una infanzia negata. È quella del ragazzo disadattato di Once, delle confessioni familiari di Alive e dell’adolescente killer Jeremy Wade Delle.

I Pearl Jam raccontano l’altra faccia dell’America. Un’America che esce a pezzi dal reaganesimo e dall’edonismo degli anni Ottanta, cresciuta a popcorn e videogiochi,  che si muove all’ombra dei grandi boulevard, che si raccoglie quando le insegne sono spente e le strade di sgombrano di gente alla ricerca di un benessere posticcio, da grande magazzino. È l’America dei figli della workin’ class affranta e disillusa che abita le canzoni di Springsteen di cui i Pearl Jam sembrano essere diventati negli anni i naturali eredi morali.

Salvo poi, in un imbarazzante gioco delle parti, ad essere il Boss a “rubare” loro produttore (Brendan O’Brien per The Rising e Magic) e riff (Radio Nowhere sempre su Magic, 2007).

La raccontano con una intensità che ha del prodigioso, vista la giovane età. E così mentre quasi tutta la loro citta sguazza nel fango i Pearl Jam mettono le ali proprio come se fosse l’ennesimo, forse l’ultimo Boeing creato nelle officine aeronautiche di Seattle.

 

Dopo Ten a fare Eleven, ovvero una copia carbone di quel disco, ci avevano pensato gli Stone Temple Pilots di Core.

Ai Pearl Jam restava il compito più difficile: confermare il successo planetario del debutto senza andare in giro con una targa con scritto “svendita” appiccicata al culo.

Provare a fare meglio e di più.

Mettersi alla prova come artisti e come uomini.

Il risultato di questa sfida arriva nei negozi il 19 settembre del 1993.

Annunciato col titolo di Five Against One, poi ufficializzato con la contrazione Vs. nonostante in alcune versioni il disco esca con un semplice sticker col nome della band e nessun’altra indicazione commerciale il secondo album dei Pearl Jam centra l’obiettivo con sorprendente efficacia ergendosi a capolavoro dell’intera discografia della band di Seattle riuscendo a miscelare tutte le caratteristiche mostrate sul debutto e che già dal disco successivo cominceranno a puzzare di stantio, soprattutto a causa dell’abbondare di catene di fast-food musicali (Brothercane, Staind, Nickelback e voi sapete quali altre nefandezze, NdLYS) che infesteranno il mondo seguendo pari-pari quel ricettario fino a rendercelo indigesto.

Ma Vs. è un disco che sfoggia una mascolinità feconda e abbagliante, una raccolta di canzoni da urlare mentre stai per essere sopraffatto dal dolore che la vita ti concede gratuitamente.

E il dolore arriva, bambini.

Travestito o nudo, a seconda dei casi.

Sfoggerete il vostro sorriso migliore per illudervi di averlo gabbato.

Ma lui avrà già spento la fiamma e lasciato la cera.

Avrà disossato la carne.

Avrà svuotato i piatti.

Ora non resta che prendere in mano il detersivo e mostrarli agli amici più brillanti e puliti di prima.

Pronti per un’altra cena che ci tenga lontani dagli specchi.

Raccoglieremo il nostro sorriso di scorta e ne faremo uno zerbino di benvenuto.

Vs. è l’angolo dove decidiamo di lasciarci tormentare dalla vita e dalla morte, senza bisogno di rispondere ad un sorriso idiota con una smorfia di allegria posticcia.

Di quale dolore moriremo domani?

Che differenza fa?

 

V per Vendetta.

V per Vitalogy.

V per Vedder.

Il terzo album dei Pearl Jam è il trionfo di Eddie Vedder. È lui il primo attore di questo disco umorale e in qualche modo straordinario. Eddie è la mente lucida e dispotica in un momento in cui gli equilibri all’interno del gruppo sembrano incrinarsi. È il momento del risveglio etico e politico di Vedder, della sua ferma posizione avversa nei confronti di Ticketmaster che porterà all’allontanamento di Abruzzese, l’attimo infinitamente lungo e pesante in cui una band partita dal nulla si ritrova a dominare il mondo e si chiede quale debba essere il messaggio da lanciare, quale debba essere il suo ruolo, il suo compito, il suo obbligo morale nei confronti di un pubblico diventato numericamente abnorme.

L’attimo in cui i Pearl Jam si trasformano negli U2 e Vedder in Bono Vox.

Un momento di confusione e di ridefinizione dei ruoli che ben si avverte nella scaletta di Vitalogy, ricco di tracce sperimentali, di incompiute e di frammenti incomprensibili. Non solo al pubblico, ma pure agli stessi musicisti i cui sfoggi solistici sono ridotti al minimo rispetto alla prosopopea solenne e monumentale di Ten. Musicalmente è un’opera slegata ed emotivamente scostante con un attacco frontale degno dei Damned migliori come Spin the Black Circle e dall’altra una ballatona pop come Better Man destinatata in un primo momento a Greenpeace e poi inserita su insistenza di Brendan O’Brien sull’album.

Tra queste due anime, Vedder si muove inquieto e smanioso indagando sulla  propria identità di artista e di band violate da un’attenzione dei media e del pubblico esorbitante (le poche parole di Pry, to e Bugs sono al limite della mania di persecuzione), interrogandosi su come colmare l’enorme paradosso che obbliga la sua band a trovare un canale di comunicazione con i propri fan senza aver risolto l’incomunicabilità che invece regna in studio e dietro il palco.

Eddie ha paura di cadere dal piedistallo dove qualcuno lo ha messo. E ha il terrore di precipitare nella stessa buca del suo amico Kurt Cobain. Vitalogy è il disco che fotografa la band sul ciglio dello strapiombo.

Adesso, per salvarsi, occorre sterzare a destra.

 

Tra Vitalogy No Code, i Pearl Jam mettono mano a due collaborazioni artistiche importanti con Neil Young e Nusrat Fateh Ali Khan. Due progetti apparentemente collaterali, quelli di Mirror Ball e della colonna sonora di Dead Man Walking, e che incideranno invece in maniera sostanziale per la realizzazione del quarto album. Due esperienze che si riveleranno necessarie ora che i Pearl Jam decidono di mettere in piedi una nuova strategia che li allontani definitivamente dal cliché dei primi tre album e di costruire una nuova identità, più contorta e accigliata.

No Code è piegato da questa necessità. Elaborato con il preciso intento di deludere le aspettative dei vecchi fan, chiedendo loro lo sforzo necessario per buttare giù la statua dei vecchi Pearl Jam.

Uno sforzo reso manifesto già dal singolo che si fa carico di presentare l’album, nel Luglio del 1996, un brano che unisce le arie bucoliche dei Led Zeppelin del terzo album al misticismo qawwali appreso da Fateh Ali Khan e che rifiuta la logica commerciale della sequenza strofa-ritornello ed evita il facile trucco del gancio melodico vincente e dell’impatto sonoro devastante.

È questa la logica che sta dietro a tutto No Code.

La necessità di smorzare i toni, di rendere i Pearl Jam una band dal volto umano, lontana anni luce da quella immagine di muscolosi supereroi che sembrava saltare fuori prepotente dalla copertina e dalla musica di Ten.

La voce di Vedder si ridimensiona.

Cede all’emozione invece di cavalcarla, fino a farsi spezzare come succede quando su Sometimes intona sfilacciandosi come un collant “devote myse-e-e-lf” oppure  scegliendo volutamente il sussurro  confidenziale all’enfasi carismatica  di cui tutto il mondo lo sa capace.

O addirittura facendosi da parte, come succede su Mankind.

La musica si fa inafferrabile e sfuggente. I Pearl Jam ci lasciano stavolta senza ritornelli da cantare e 156 Polaroid e 13 canzoni tutte da decifrare, strappandoci di mano anche l’invisibile air-guitar che per qualche anno ci aveva fatto sentire degli eroi inutili.

 

Yield è il primo disco dei Pearl Jam a non riuscire a percorrere tutta la distanza che si è data. Paradossalmente, a giudicare dalla copertina, è quello con cui la band americana ha deciso di andare più lontano.

E invece è proprio da qui che la corsa della band si trasforma in una corsa ad ostacoli seppur ben confortata da spalti sempre più pieni.

La partenza è affidata a due belle stilettate come Brain of J. e Faithful con le chitarre che ruggiscono e Vedder acceso dal demone del rock. Poi, lentamente ma inesorabilmente, la band si impantana in un rock di maniera, piccoli intermezzi sperimentali figli in egual misura di Vitalogy, di Mellow Gold e di Monster e un fascio di canzoni attente a non fare del male a nessuno, un mazzo di carte magiche con cui provano a tenersi buoni i vecchi fan e a fare qualche cenno di intesa ai potenziali prossimi compagni di tavolo. L’occhiolino soprattutto.

Il mito dei Pearl Jam supereroi nasce praticamente qui. Soprattutto in quei sette minuti che vanno dall’arpeggio di Given to Fly alle sfumate richieste di Wishlist.

Il mondo decide che dei Pearl Jam, a differenza di tutte le altre band di Seattle, ci si può fidare. E dà loro fiducia. Stringendoli di un abbraccio che fino a quel momento, in quelle dosi di venerazione ed amore, era ad unico appannaggio di Springsteen e U2. Proprio nel momento in cui il loro canzoniere si spopola di canzoni perfette, i Pearl Jam raggiungono la perfezione che il pubblico aspettava.

 

Binaural è il prodotto griffato che arriva in vetrina per la collezione primavera/estate 2000. Chissà come, avverti in qualche modo che non è necessario. È una suppellettile prestigiosa. Ma è una suppellettile. Non ha più in se il prodigio dell’irriverenza e ha una copertina che non gli appartiene, come non appartiene a te.

In quella nebulosa dal nome Clessidra ti sembra davvero di poter vedere le stelle scendere come granelli di sabbia, senza possibilità di poter essere capovolta.

E ha un po’ il gusto della disfatta del tempo che avanza, su te e sugli altri. E di questa percezione comune, ne avverti il passo greve.    

Binaural è il momento in cui capisci che i Pearl Jam non ti stupiranno più. Che in qualche luogo si sta macchinando un’imperfetta messa in scena con i figuranti messi lì a fingere che tutto vada bene, a battere su una macchina da scrivere che martella su un rullo senza fogli. Tic tic tic tic tic.

È una liturgia senza più ostie da consacrare, un incontro in abiti apprettati per stringere altre mani.

Ritrovarsi lì, seduti-in piedi-inginocchiati sulle panche.

Che son suonate le campane, e forse è un dì festivo.

O forse no.

 

Riot Act è un disco sull’agonia di una nazione e sul crollo dei pilastri virtuosi su cui non solo la loro nazione ma l’intero pianeta dovrebbe reggersi. Ed è un disco che rivela, senza volerlo, l’agonia di una band la cui ispirazione sta affondando nelle sabbie mobili da lei stesso create. La band si muove come impacciata fra i propri fantasmi, tardivi quanto inutili rimorsi per la tragedia di Roskilde, confusi rancori politici, goffi gospel da requiem e citazioni beatlesiane sull’amore che tutti sazia, lasciandoci invece tutti affamati. Un lavoro greve sin dalla copertina, infarcito di morte e debilitato dalla spossatezza e dall’uggia.

Si, siamo dopo l’11 settembre.

Però come atto di sommossa mi pare un po’ inadeguato.      

 

Sulla copertina dell’album omonimo del 2006 troneggia un avocado.

Ovvero, per dirla con gli aztechi, un testicolo.

Ognuno ci veda insomma il simbolo che vuole.

Quello che però salta agli occhi è il cromatismo vivido, la nitidezza di immagine che splende con una precisione ancora più esaltante dopo due copertine buie e tenebrose come quelle di Binaural Riot Act.

Poi ovviamente ci sono altri segnali importanti, come la scelta di battezzare la nuova creatura col proprio nome, che è un atto enfatico di orgoglio e rispetto simile a quando si decide di dare al figlio il nome del proprio padre, credendo di poterne allungare le radici fino allo stesso albero che ci ha generati. Oppure quello che per la prima volta i Pearl Jam pubblicano su un’etichetta non convenzionale e (quasi) anonima. L’ottavo album dei superstiti del ciclone grunge di quindici anni prima è dunque all’insegna di un ottimismo che sembrava essersi adombrato nei primi anni del nuovo decennio.

Dentro i Pearl Jam ci mettono quanto più Pearl Jam possono metterci.

Quelli delle ballate da groppo alla gola e delle chitarre che ti afferrano alla carotide, quelli languidi e scivolosi e quelli che salgono in verticale come facevano gli Dei del rock negli anni Settanta.

Quelli inutili, pure. Come quelli messi alle corde nella seconda parte del disco che molto presumibilmente nessuno ascolterà mai più di un paio di volte.

Quelli figli di un dolorproprio e di un dolore più grande ed universale.

I Pearl Jam un po’ prevedibili. Che se ci sono è bello averli ma se non ci fossero più, sarebbe bello ricordarli con i loro dischi migliori. E questo non è fra quelli.

      

Backspacer è il trionfo dei Pearl Jam eroi dell’arena-rock.  

L’ottimismo che sembra invadere la band si traduce in un disco che decide di mostrare solo la faccia luminosa della luna. Un’opera “maneggevole” già dalla durata, di un quarto d’ora sotto gli standard della band. Copertina invece nel solito standard bassissimo che le è proprio.

Canzoni, undici, che si prefiggono lo scopo di invadere l’etere. Che passino in radio o che vengano propagate da un adeguato service audio da un palco, poco importa. E lo scopo viene raggiunto, aggredendo da subito le classifiche. Certo, la sensazione è che dei Pearl Jam dei primi anni sia rimasto solo un guscio vuoto ma d’altro canto l’appeal di canzoni come The Fixer e Got Some o di ballate come Just Breathe o Speed of Sound pensate apposta per illuminare di accendini e smartphone le platee è tale che è facile cedere all’inganno, pur avendo la lucidità per smascherarne il trucco.

Un po’ come quando criticate platealmente quelle col seno rifatto e poi ne cercate le foto per scaricarvele sul pc per guardarvele quando vi abbisognano.   

Il trionfo dell’erotismo di plastica, ecco.

Che val sempre una sega. Ma non molto di più.

 

Lightning Bolt, decimo album di una sequenza iniziata ventidue anni prima ci porta, ancor prima di metterlo nel nostro lettore, la consapevolezza che, nonostante la vecchia scena grunge si sia bruciata nel giro di cinque anni, invecchieremo coi Pearl Jam. Anzi, che lo stiamo già facendo.

Pubblicato nel 2013, Lightning Bolt porta con se un’altra consapevolezza, ovvero che le barriere fra corporate rock e rock alternativo sono in realtà un muretto di pietra a secco facilmente scavalcabile con una zampata. E ciò non tanto per i contenuti e le forme ma in quanto gli scenari e gli equilibri fra artisti, pubblico, case discografiche, distributori e piattaforme internet hanno completamente resettato il mercato. È una nota a margine doverosa per un disco pubblicato da un’etichetta indipendente per quella che, assieme agli U2, è la formazione destinata agli stessi bagni di folla che in passato furono di band come Rolling Stones, Led Zeppelin o Who e “spinto” sui social e sul proprio sito internet più che attraverso le radio e le tv. Un disco in cui l’impronta dei loro autori resta fortissima, pur senza lesinare soluzioni meno scontate che tuttavia, visto il carisma raggiunto da Vedder e dai suoi musicisti, finiscono lo stesso per essere perfettamente riconoscibili come “chiaramente” Pearl Jam. Ci si trova dunque al cospetto dei soliti, sinceri tributi omaggi al punk (la bella Mind Your Manners), alle abituali ballate senza le quali probabilmente i Pearl Jam non varcherebbero mai uno studio di registrazione (Sirens, piena di tutti gli stereotipi del caso), a numerosi ma ancora apprezzabili brani di classico, enfatico epic-rock in cui la band è maestra con pochissimi rivali e a qualche tentativo di approcciarsi alla materia con modi meno abituali (le chitarre sdrucciolevoli di My Father’s Son, il groove blues-rock di Let the Records Play o le diradate sincopi di Pendulum) che forse siamo diventati troppo vecchi per poter apprezzare, preferendo noi prima di loro di rifugiarci nei rassicuranti abbracci di Sleeping by Myself o Swallowed Whole, felici di poterci trovare oltre ai Pearl Jam anche i Counting Crows o i R.E.M.). 

Perché invecchiando, capisci che non c’è niente di più bello che l’abbraccio della nonna.

Posticipa oggi, rinvia domani, i Pearl Jam hanno mancato il bersaglio e sbagliato il momento, “bruciando” un concept sull’ambientalismo nel momento in cui il mondo è ben distratto da altro e dei ghiacciai che si sciolgono non interessa a nessuno.

Annunciato da una copertina orribile e con quasi un’ora di musica, il nuovo Gigaton non lascia presagire nulla di buono.

E invece.

Invece il “gigante” si muove dentro e fuori la comfort-zone dei Pearl Jam incurante di quanti li criticheranno per non essere più gli stessi e di quanti li criticheranno per il motivo esattamente opposto. Non ci sono le grandi novità preannunciate dal singolo Dance of the Clairvoyants, che resta un episodio isolato (fatta salva la preghiera springsteeniana di River Cross che lo chiude come una persiana che si abbassa sul mondo, lasciandoci prigionieri della nostra stessa effimera libertà)  all’interno di una scaletta che è fortemente impregnata del suono che ben conosciamo e che è tornato ad una brillantezza che sarà difficile accettare ai detrattori per professione, pronti ad indossare il monocolo e ad analizzare la purezza di ogni singola pietruzza, cacando più merda di quella che respirano e sentendosi legittimati a sparare a zero, avendo cartucce e fiato da sprecare.

Gigaton suona invece, oltre che enorme, consolatorio.

È come se per un attimo, in questi giorni di reclusione, aprissimo la porta per fare entrare qualcuno di cui conosciamo pregi e difetti. E in questa accettazione degli uni e degli altri ritrovassimo la nostra capacità di assorbire affetti che ci possono essere strappati e la volontà di riprendere dal cestino della nostra vita i fogli accartocciati per ridare vita nuova a loro e a noi. Ecco allora che Who Ever Said, Never Destination, Superblood Wolfmoon, Take the Long Way, Alright, Comes then Goes arrivano per carezzarci o schiaffeggiarci la faccia.

Per dirci che possiamo provare gli effetti benefici della pet-therapy anche coccolando la coda di Godzilla.

E che nessuna corazza ci renderà immuni dal disastro, ma ci imprigionerà dentro le nostre paure e le nostre ansie fino a che il guscio sarà vuoto.       

 

Discutibile, come sempre, già dalla copertina, Dark Matter ribadisce una sola, grande verità: i Pearl Jam hanno fatto solo tre album veramente belli, tutti nella prima metà degli anni Novanta. Tutto il resto, da trent’anni a questa parte, è un tentativo disperato di sopravvivere a sé stessi. Infilando di tanto in tanto un pezzo giusto ma mai un album “a tenuta stagna” come erano stati Ten, Vs. e Vitalogy.

Il risultato più clamoroso ed imprevedibile è stato però che, alla luce dei dischi successivi, in molti si sono sentiti di abbracciare la fertile fede del revisionismo (la stessa che ha avvelenato le sorti di band come Smashing Pumpkins, R.E.M., U2 e, se Cobain non si fosse sparato in bocca, avrebbe contagiato pure i Nirvana, potete starne certi, NdLYS) e rivalutare in negativo anche quelli, che invece erano e rimangono dei dischi di grande valore e con molte cose da dire. Da No Code in poi invece è come se le luci si fossero spente, proprio mentre si accendevano i riflettori delle grandi arene.

Dei Pearl Jam è rimasto poco più che un guscio vuoto, un barattolo che ogni tanto risuona come quello del brano di Gianni Meccia.

Sono, in fin dei conti, la cover band dei Pearl Jam.

Canzoni che sono rimasticature infinite di quanto già scritto, fatto, detto e suonato da decenni.

Roba da campionario.

Loro, dei piazzisti.                                           

Franco “Lys” Dimauro  

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THE CHESTERFIELD KINGS – Pacco duro, grazie.  

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La sfavillante epopea del revivalismo beat dei mid-eighties è stata una fase importante della mia vita, una di quelle passioni urticanti che ti passano da parte a parte stravolgendoti i sensi. Qualcosa che ti chiedeva una dedizione totale, un bagno purificatore dentro l’etica/estetica di un decennio troppe volte favoleggiato come beato ma ancora, si intuiva, tutto da scoprire, un crogiolarsi talvolta anche sterile nel disperato tentativo di perpetrare storicamente non solo l’anima di un suono ma di un intero universo arrivando addirittura a forme estreme di escapismo temporale esasperato (Shelley Ganz che si chiude in casa in un isolazionismo disperato, Mike Stax che data ’66 le sue lettere scritte quasi vent’anni dopo…NdLYS).

 

Qualcosa di totalizzante, acritico, estremo, puerile.

Giovanile fino a rasentare il paradosso: la quintessenza del rock ‘n roll. Here Are The Chesterfield Kings rappresentò per me e migliaia di altri coetanei una sorta di fonte battesimale.

Non un disco ma un autentico scrigno.

Un forziere pieno di quelle monete d’oro che i bucanieri deponevano sugli occhi dei defunti prima di spedire le loro anime all’Inferno.

Quattordici denari per ingraziarsi i servigi di Caronte e traghettare gli spiriti delle garage bands dei sixties nel girone dannato in cui i Chesterfields erano costretti a scontare le loro pene.

Era il rifiuto ostinato a diventare adulti.

Here Are è un disco che la storia non l’ha solo fatta, ma se ne è preso cura facendole da custode e loopandola ad uso delle generazioni che ne sconoscevano il sapore, fiutandone appena l’aroma tra i ricordi nebbiosi di un vecchio papà beat.

Un disco di sole covers, peraltro eseguite con l’unico intento di preservare lo spirito che alitava su ognuna di esse senza alterarne il sapore.

Una macchina del tempo a forma di catapulta.

L’esordio dei Chesterfield Kings non si fermava alla riscoperta dell’essenzialità beat già operata dal punk o alla rivalutazione della crudezza espressiva tipica di ogni musica teen che in molti avevano o stavano recuperando. No, Here Are era un disco che andava oltre: i cinque Re di Rochester affondavano gli incisivi in un baule pieno di pepite e le porgevano a noi con lo stesso identico, prezioso luccichio con cui erano state seppellite 15 anni prima.

 

Esasperando il concetto di rigore filologico, Greg Prevost e compagni arrivarono addirittura al punto estremo di risuonare, quando fu possibile, quelle 14 canzoni con gli stessi strumenti con cui erano state incise dagli autori originali.

Una austerità che ha del maniacale.

Feticismo e devozione assoluta verso un suono che da lì a poco avrebbe infettato le menti e i garages di quattro continenti e che avrebbe fertilizzato il terreno per la rivalutazione “creativa” dell’estetica sixties degli anni a venire. Un disco che, in pieno delirio new wave, metteva indietro i propulsori del tempo e rivolgeva non solo gli occhi ma tutti i sensi al passato spingendo alla ricerca un’intera generazione che stava folleggiando alla cieca su quella spontaneità di cui il punk si era fatto portavoce e che tornava ad affievolirsi sotto montagne di synths e a rabbuiarsi dietro l’intellettualismo esistenzialista dei profeti del dark sound.

Sonics, Rogues, Sounds Like Us, Painted Ship, Zakary Thaks, Chocolate Watch Band, Exotics, Shades of Night, Choir, Mourning Reign, Moving Sidewalks, Harbinger Complex e Nightshadows venivano tirati fuori dalla cantine e tornavano a brillare di luce vividissima. Da quel momento, lo si voglia ammettere o meno, qualcosa avrebbe cominciato a prendere un’altra strada.

Quando nel 2007 Greg Prevost mi confessò di odiare Stop! per me fu come trovarmi sotto le travi di casa mentre i sismografi registrano scosse telluriche proprio sotto il mio culo.

Perché lo avevo sempre considerato, e lo considero tuttora, un disco di una bellezza inarrivabile. Un classico dei classici, una macchina in grado di fermare il tempo. Dentro, dopo l’abbuffata di Here Are e dei primi singoli, ci sono le prime canzoni firmate dal gruppo.

Sembrano vecchi master di qualche oscura band del ’66 finiti dentro qualche bidone degli studi della 4th Avenue o della RCA.

I Chesterfield Kings sono cinque bavose appiccicate ai muscoli della musica sixties.

Passano lasciando una schiuma lattiginosa.

E diventano quello che mangiano.

Sono gli Standells, poi i Monkees, quindi i Turtles, i Sonics, i Royal Guardsmen, i Byrds, gli Stones, i Count V, i Moving Sidewalks, i Gonn, i New Colony Six, i Knickerbockers, i Dave Clark Five, infine la Chocolate Watch Band.

Non si limitano a depredare le loro canzoni, come fanno tutti.

I Chesterfield Kings di Stop! SONO quelle band.

Hanno realizzato il sogno di ogni gruppo neo-garage: suonare come si fosse sul palco di una battle of the bands del 1966. Caschetti e zazzeroni spioventi su una folla di teenagers infoiati dal rock ‘n roll. Un sabato sera qualunque della provincia Americana, dopo una puntata dei Three Stooges e un giro di contrabbando con la macchina di papà.

I Kings suonano così, esibendo con orgoglio un’adesione ai canoni stilistici ed estetici che ha del pauroso, reincarnazione legittima dei Rolling Stones sboccati dei mid-sixties, mettendo su un repertorio che è un distillato degli ascolti voraci di Greg Prevost e Andy Babiuk.

Un pezzo come She‘s Got Time ad esempio è un precipitato del suono texano degli Exotics mentre I Cannot Find Her è un matrimonio perfetto tra le chitarre folk dei Grassroots con le armonie vocali dei Monkees, She‘s Alright un tuffo nel suono di Larry and The Blue Notes, il dolce ciondolare di Cry Your Eyes Out nasconde un ponte che porta al castello dei 13th Floor Elevators mentre la veemenza di Say You‘re Mine non può non far pensare ai Beat Merchants, a Cuby + Blizzards o agli Stones teppisti di Get Off of My Cloud.

Le cover, come è tradizione per i cinque di Rochester, sono suonate con una competenza ben oltre la soglia dell’esasperazione fanatica. Stop!, Fight Fire, My Canary Is Yellow e Bad Woman sono sputate alle originali di Burgundi Runn, Golliwogs, Namelosers e Fallen Angels.

Stop! è una folgorante istantanea sul rock ‘n’ roll che fagocita se stesso per rendersi eternamente giovane, il privilegio e il regalo concessoci da cinque ragazzini americani che permisero anche a noi di vivere il sogno degli anni Sessanta, venti anni dopo.

Le beghe legali con la Mirror (probabile motivo del risentimento di Greg nei confronti di Stop! NdLYS) non ne permetteranno un duplicato digitale, rendendolo per sempre prigioniero del suo tempo.

La copertina del disco successivo era però un presagio di sventura.

Se sul disco di debutto, quello che aveva gettato l’ancora nella baia nascosta del punk delle garage band dei sixties, sembrava di vedere la reincarnazione dei Blues Magoos e sul capolavoro successivo uno scatto degli Stones dell’era Brian Jones, sulla copertina di Don’t Open Til Doomsday i Kings sembravano un’anonima band proto-hard degli anni Ottanta, con tanto di fumo dietro le spalle e t-shirt di dubbio gusto. Girata la copertina, ecco spuntare anche il nome di Dee Dee Ramone. Per i puristi della scena garage, uno sputo in faccia.

I Chesterfield Kings non sono gli unici ad avvertire la stretta di una scena che continua a celebrare se stessa fino a diventare grottesca. Miracle Workers, Sick Rose, Fuzztones, Morlocks, Creeps, Untold Fables, Fourgiven stanno analogamente allontanandosi dal concetto teocratico che vuole la musica garage punk completamente impermeabile a quanto musicalmente sperimentato dal 1967 in poi.

Hanno scavato dentro il cimitero beat e ora che iniziano ad avvertire i primi segni di stanchezza, hanno tentato a fatica di alzare la schiena e hanno visto che c’è tanta altra roba da scavare, da tirare fuori. Ci sono i Ramones, c’é il folk rock, ci sono gli MC5, c’è Johnny Thunders. E presto ci saranno anche i New York Dolls, gli Aerosmith, il blues del Delta, Jan & Dean e i Beach Boys. Lo sapevano già.

Solo, presi da quel lavoro di scavafosse, se ne erano dimenticati.

A ricordarglielo sono le centinaia di concerti che diventano sempre più una gara improponibile (ed impari, perché i Re suonano come nessun altro, all’epoca, NdLYS) a chi suonasse le cover più sconosciute o a chi rifacesse meglio The Witch dei Sonics. Ma Greg e Andy non si divertono più, in quell’acqua park dove le vasche non vengono più disinfettate e l’acqua è diventata stagnante.

Ecco che pensano a un disco come questo. Dove l’urgenza del garage punk più immorale e di cui Social End Product dei Blue Stars può essere eletta ad archetipo si accende in spiritate e crepitanti canzoni figlie del suono malato degli Spiders (Someday Girl) o si stempera in un power-rock con chitarre scintillanti (Everywhere), morbide ballate folky (You‘re Gone) e addirittura un angolo acustico come I’ll Be Back Someday. Eppure, malgrado non ci sia adesione agli schemi del suono d’epoca (nessun accenno di maracas o di tastiere vintage, per dirne una), non c’è neppure un totale scollamento dai canoni estetici del sixties sound. Ci sono splendide armonie vocali studiate sui dischi di Mamas and Papas e Monkees ad esempio, due delle fissazioni di Greg di quel periodo e che dal vivo fanno si che California Dreamin’ e Sunny Girlfriend finiscano a un passo da Ramblin’ Rose o Chinese Rocks per una delle scalette più belle del periodo.

Il suono dei Kings si è semplicemente innestato dentro un cubo di Rubik dalle molteplici sequenze. Qualcuno avvertirà questo come un tradimento (salvo poi tornare ad ascoltare i suoi merdosi dischi dei Journey, come dirà in seguito lo stesso Greg Prevost, NdLYS), qualcun altro come un’accozzaglia di canzoni prive di idee brillanti (lo Scaruffi che borbotta dalle sue enciclopedie), qualcuno ne avvertirà invece la vera portata. L’urgenza di una fuga, l’accensione di una nuova miccia, di un nuovo entusiasmo.

Non è forse questa la legge segreta del rock ‘n’ roll? O credete davvero sia vedere i Deep Purple che rifanno Smoke on the Water con la pingue che gli ricopre, molle, mezza cassa della chitarra?

Pubblicato simbolicamente a suggello della prima fase artistica, Night of the Living Eyes raccoglie quelli che furono i primi passi, completamente autoprodotti, del quintetto americano. Sono i primi tre singoli pubblicati per la loro etichetta privata, il secondo dei quali viene ritirato dal mercato dopo una prima tiratura di appena cinquanta copie a causa del suono della dodici corde sulla cover di I Won’t Be There dei Grodes che non convince l’esigentissimo Greg Prevost.

Sono, per molti versi, i Chesterfield Kings migliori. Quelli che affrontano impavidamente la missione per cui sono nati: infilare le mani nel beat-punk degli anni Sessanta e soffiare la polvere da quelle pepite per restituircele intatte nel loro splendore primordiale. I pezzi registrati dal vivo al Peppermint Lounge di New York nel febbraio dell’83 che occupano l’intera seconda facciata non tradiscono quella che è la missione per cui i Kings si sono immolati ad inizio decennio: tutte cover, come era nella primissima tradizione della band di Rochester. Larry and The Blue Notes, Cavaliers, Elite, Chocolate Watch Band, Bad Seeds, Barons, i Golliwogs dei fratelli Fogerty, Merseybeats, passati attraverso il setaccio del più fenomenale juke-box garage punk degli anni Ottanta.

Un carburatore intasato di benzina sixties che spruzza petrolio come fosse una trivella nel deserto sahariano.

I Re. E i loro fossili.

Il parziale allontanamento dal garage sound più canonico annunciato da Don‘t Open Til Doomsday diventa compiuto con la pubblicazione di The Berlin Wall of Sound del 1989, sfacciato tributo allo sleaze rock che grazie al successo planetario dei Guns n’ Roses è tornato in quegli anni prepotentemente alla ribalta.

Greg Prevost e Andy Babiuk assieme ai nuovi Paul Rocco e Brett Reynolds si trovano così a vestire i panni di nuovi New York Dolls e ad affidare il proprio nome a uno stupido stendardo con tanto di sciabole incrociate, scudo araldico e aquila imperiale nella più banale delle iconografie metallare.

Il disco mantiene le promesse della copertina. Rock ‘n roll maschio e stradaiolo prodotto da Richie Scarlet che proprio in quel periodo suona fianco a fianco con Ace Frehley dei KIϟϟ per il suo debutto solista Trouble Walkin’ e che è uno che le chitarre sa come farle colare fuori dalle casse.

Dee Dee Ramone regala anche stavolta un brano ma Come Back Angeline non ha lo stesso tiro di Baby Doll, quanto piuttosto quello della celebre Walkin’ the Dog di Rufus Thomas ma ben si adatta al clima da rodeo metallico di tutto il disco che però, nonostante la pioggia di fuoco di chitarre e la batteria che pesta come non mai e malgrado non sia avaro di belle canzoni (Richard Speck, Who‘s to Blame e Love, Hate, Revenge su tutte), non riesce a reggere il confronto con i tre dischi precedenti. L’omaggio al suono dei New York Dolls (nella versione CD è aggiunta la cover di Pills resa pari pari a quella delle Dolls medesime) e agli Heartbreakers è sincero e, come nella tradizione della band, competente, ma si allinea su uno stereotipo un po’ troppo abusato finendo per rimanere schiacciato dal suo stesso peso.

Che poi io preferisca questo disco a quelli dei vari Dogs D’amour, L. A. Guns, Little Caesar e agli stessi Hanoi Rocks è faccenda del tutto personale.

Ognuno è libero di di scegliersi i propri eroi.

E di liberare Barabba piuttosto che Gesù Cristo.

Nel 1990 i Chesterfield Kings, in piena crisi di identità, si abbeverano alla stessa fontana di “acqua sporca” cui si abbeverarono gli Stones degli esordi.

Come dei buskers metropolitani armati di strumenti acustici, eccoli otto anni dopo Here Are con un nuovo disco di cover versions.

Stavolta si tratta però di sfregare la lampada del blues del delta anticipando di un paio d’anni l’analogo esperimento di Jeffrey Lee Pierce.

Sono le ossa di Robert Johnson, Muddy Waters e Willie Dixon a venire alla luce, nella nuova opera di scavo dei cavalieri di Rochester.

Bruciati un po’ alla volta i ponti col proprio passato i Chesterfield Kings si concedono dunque la libertà di prendere in giro se stessi e i propri fan reinventandosi bluesmen e costruendo un disco anomalo che può suscitare fastidio a chi li vuole ancora immaginare capaci o semplicemente vogliosi di perpetuare all’infinito lo spirito delle teen band perdute degli anni Sessanta oppure esasperare all’inverosimile l’anima glam che è emersa negli ultimi anni.

Drunk on Muddy Water col suo carico di blues sporco coglie dunque tutti di sorpresa, alimentando le antipatie da parte dello zoccolo duro dei vecchi fan ancora refrattari al cambiamento che in questo periodo circondano la band.

Qualcuno beve, qualcuno piscia.

Si chiama il ciclo dell’acqua, anche se nei vostri libri di scuola ve l’hanno disegnato con il mare azzurro e le nuvolette bianche come gli agnellini di Heidi.

Forse il disco preferito da Greg Prevost fra tutti quelli incisi dai Chesterfield Kings è però quello più esplicitamente dedicato agli Stones, omaggiati sin dalla copertina (elaborata su quella originale di Aftermath) e dal titolo (Let’s Go Get Stoned), rivisitati con la solita carta carbone che i Re di Rochester riescono a maneggiare facendo dei ricalchi fedelissimi e citati qui e là anche nei pezzi firmati dalla band (clamorosa la versione tarocca di Simpathy for the Devil nascosta sotto Long a Go, Far Away) o nel trattamento stonesiano (siamo dalle parti di Dead Flowers) riservato al country di Merle Haggard Sing Me Back Home, invitati addirittura a suonarci dentro (ottenendo il cameo di Mick Taylor sulla cover di I’m Not Talkin’ e anche su una versione ad oggi inedita di Can’t Believe It).

Il suono degli Stones post-beat calza a pennello per i Chesterfield Kings infatuati dal glam e dallo street rock’n roll e Greg ed Andy, in questa sorta di parodia, hanno modo di sperimentare strumenti nuovi come il dulcimer, il sitar, il mellotron e nastri a rovescio usati però con grandissima parsimonia e relegati in fondo ad un disco che è invece pieno di striscianti chitarre blues e accordature aperte nella miglior tradizione di Mr. Keef e di boccacce simili a quelle del Jagger arrapato dei primi anni Settanta. Che è sempre un bel sentire. Anche se accentua la sensazione che i Chesterfield Kings, non essendo diventati i Chocolate Watch Band degli anni Ottanta si stiano accontentando di diventare i Rutles degli anni Novanta.

 

La sorpresa più grande per il pubblico dei Chesterfield Kings arriva però tre anni dopo, presentata con un titolo che non lascia adito ad alcun dubbio su dove sia andata a finire la serie di giochi di ruolo cui la band pare prestarsi da un po’: Surfin’ Rampage.

Non il solito tributo “muto” alla musica surf ma un autentico esercizio di stile vocale, strumentale, scenografico alla musica californiana di Beach Boys, Four Freshmen, Jan & Dean. Come è ormai tradizione della band di Rochester, un cortocircuito temporale praticamente perfetto già dalla grafica e dalle foto di copertina, con la band agghindata a dovere dal taglio di capelli fino al tacco degli stivaletti e la tavola da surf sottobraccio come i fratelli Wilson nel ’64, quando il mondo sembrava bello così com’era e non si volevano fare rivoluzioni.

Surfin’ Rampage è dunque un disco-cartolina che, beffando il tempo, potrebbe essere stato spedito più di trent’anni prima da Santa Cruz, Princeton-by-the-sea, Cayucos o Pismo Beach. Nessuna nota fuori posto, nessuna sbavatura, nessuna armonia vocale meno che perfetta. Il gruppo sembra intrappolato nella sua stessa perfezione maniacale, appagato della sua identità di gruppo-replica seriale in grado di poter riprodurre qualsiasi cosa (il garage-punk, lo sleaze rock, i New York Dolls, gli Heartbreakers, gli Stones, il blues, la surf music) con una efficacia ed una dignità pari a quella originale. Manca però il “carattere”, quello che era emerso su dischi come Stop! e Don’t Open Til Tuesday e che è andato via via disperdendosi in operazioni nostalgia di gran prestigio ma su cui è ormai impossibile fantasticare.

Il rientro nel vecchio recinto del Sixties-punk porta in bella vista il titolo dello storico programma televisivo della ABC dove erano di casa i Raiders di Mark Lindsay che scrive assieme ai Re di Chesterfield uno dei tre brani omografi che compongono la scaletta di Where the Action Is! ovvero, Here Are The Chesterfield Kings…again.

A venti anni esatti dalla loro prima entrata in scena dunque i signori di Rochester tornano ad infilare le mani nelle Nuggets dell’epoca d’oro del beat-punk, con classe inalterata ma con risultati comunque meno esplosivi rispetto al debutto. Di certo meno ricchi di fascino.

L’omaggio oleografico dell’esordio si è adesso un po’ ingrigito e Where the Action Is! suona più come un disco di nostalgici che come un rabbioso tributo alla furia delle prime punk songs della storia. E, nonostante la buona scelta della scaletta e l’interpretazione sempre molto fedele alle coordinate originarie, questo nuovo disco dei Chesterfield Kings risulta alla fatta dei conti un po’ ovvio se non per un veloce e banale ripasso di canzoni che, nel frattempo, abbiamo già ascoltato in cento altre versioni fino ad averne a noia (I‘m Not Like Everybody Else, 1-2-5, Little Girl, Sometimes Good Guys Don‘t Wear White, Five Years Ahead of My Time, Ain‘t It Hard, Happening Ten Years Time Ago, ecc).

Poco più che un disco di routine, insomma.

Un album che vende per oro ciò che d’oro è solo placcato.

Nel 2002 Little Steven apre il suo Underground Garage trasformandosi, inaspettatamente, nel nuovo guru del sixties-punk creando nuovo interesse attorno al fenomeno. Quali che siano state le dinamiche non saprei ma Little Steven si ritrova in qualche modo a “battezzare” il disco della rinascita dei Chesterfield Kings. È lui a firmare le visionarie note di copertina e a collaborare fattivamente in almeno un pezzo. E, successivamente, a ristampare il disco per la sua etichetta personale.

L’altro nome prestigioso a partecipare al disco è Jorma Kaukonen, che presta la sua chitarra per un paio di pezzi.

Ma The Mindbending Sounds of The Chesterfield Kings è soprattutto il disco con cui Andy Babiuk e Greg Prevost si riappropriano in toto del loro stile, dopo aver disperso il seme su dischi blues e surf e dopo un modesto album di cover come Where the Action Is!. Non mancano le scopiazzature ma stavolta l’album, interamente firmato dalla band, è un ottimo e ricco vassoio di muffin drogati cucinati negli stessi forni delle pasticcerie di Electric Prunes, We the People, Chocolate Watch Band, Rolling Stones (periodo Between the Buttons), Master’s Apprentices e Seeds.

Tra queste le scariche fluorescenti di Endless CirclesNon-Entity con la sua armonica arrapata, Stems & Flowers scritta con Sky Saxon e arrangiata in perfetto Seeds-sound, Transparent Life (a perfetta metà strada tra gli Electric Prunes e gli Stones di Paint It Black), il beat di impronta Easybeats di I Don’t Understand e Memos from Purgatory figlia del Sebastian F. Sorrow nato trentacinque anni prima sono quelli che fanno la parte del leone in questo disco pieno di chincaglieria d’epoca e di suggestioni psichedeliche. Bentornati a casa.

 

Dopo averci messo le mani e la faccia per The Mindbending Sounds of… ed essere riuscito con un po’ di astuzia ad infilarli nella colonna sonora di una classica commedia natalizia hollywoodiana come Fuga dal Natale, per il nuovo Psychedelic Sunrise Little Steven ci mette stavolta anche i soldi. Quello che sarà destinato ad essere l’ultimo atto dei Chesterfield Kings esce infatti sotto la sua produzione esecutiva e per la sua label. Nonostante il disco mostri una continuità concettuale ed una sorta di affiatamento artistico (la formazione resta invariata rispetto a quella del disco precedente) con Mindbending, il risultato è però una bolla di sapone.

Eccentrica, colorata, iridescente.

Ma pur sempre una bolla.

Tradito da un’ambizione forse un po’ eccessiva (i violini di Inside Looking Out, i forzati inserti pinkfloydiani di Elevation Ride, tanto per dirne di due) e da richiami fin troppo ovvi con il freakbeat che fu. Sparandone uno, sfacciato, proprio in apertura di disco. Proprio per questo forse il disco funziona meglio ascoltato ribaltando la scaletta, visto che come nei piatti malconditi il meglio rimane sul fondo: il garage punk arruffato di Dawn che svisa dalle parti di Fluctuaction, l’Alice Cooper impasticcato di Yesterday’s Sorrows, la ballatona roots Gone che invece tracima dalle parti di I’ll Be Back Someday, rendendo vana la speranza di un ritorno e mantenendo la promessa.

La presentazione del disco, l’11 settembre del 2007, si tinge di veglia funebre per la morte di Doug Meech, il ragazzo biondo dietro le pelli dei Chesterfield Kings Re del garage-punk portato via troppo presto dell’eroina. Live on Stage…If You Want It interamente registrato e filmato nella loro amata Rochester, viene pubblicato per spezzare il silenzio che è sceso sulla band, dichiarata morta un po’ di tempo dopo dallo stesso Greg Prevost e seppellita lì dov’era nata trenta anni prima.

Il trono è vacante

                                 Franco “Lys” Dimauro

 

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BLACK MOSES – Royal Stink (Rootbag) 

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Avete presente tutto il rawk ‘n’ roll con cui la Scandinavia si è riempita la bocca e le tasche per un decennio? Bene, tutta quella roba lì viene spazzata via dai Black Moses di Royal Stink. Disco cazzutissimo che si muove sulle stesse coordinate di band come Hellacopters, Gluecifer e Flaming Sideburns e sui loro modelli ispiratori e che se fosse uscito per un’etichetta come la White Jazz farebbe gridare al miracolo stuoli di giornalisti che invece lo liquideranno con le poche righe con cui hanno liquidato dei Black Moses anche il disco di debutto da cui questo nuovo album si differenzia per un approccio leggermente più “heavy” senza mai sconfinare nel cattivo gusto.

Però sentite cosa fanno le chitarre su Thru You dove si innestano su un boogie alla Down on the Street saettando l’una contro l’altra.

Oppure ancora come cercano di domare i watt sul pezzo che intitola il disco e come strisciano sporche negli sleaze rock di Can’t Breath [Turkey Neck], Baj [Oh Yeah] e She Got da Moves.

O se avete voglia di sguazzare nel fango grugnendo come maiali, fate pure qualche vasca nel catrame di Better Believe mentre Jones indossa le vesti del Mosè Nero. Poi tornate qua e fatemi vedere come vi siete conciati.

Un disco che vi mette a soqquadro la casa, Royal Stink. Approfittando della vostra fede.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

NEW YORK DOLLS – Glamorough Life

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Oltraggiose, provocatrici, irriverenti. Oppure, delle semplici checche.

Così venivano descritte le New York Dolls durante la loro breve, bruciante carriera.

E invece, soprattutto, le New York Dolls erano una promessa di libertà.

La promessa che il rock ‘n’ roll era l’unico modo per sentirsi protetti da un Dio permissivo che fa finta di non vedere la mano che si allunga a prendere la mela.

Anche se fosse quella enorme di New York.

Naufragate in un oceano di eroina, odio e prigionia le torpediniere proto-punk di Velvet Underground, Stooges e MC5, sono proprio le New York Dolls a gettare in mare le scialuppe che salveranno lo spirito del rock ‘n’ roll più sfacciato e volgare.

Finiranno peggio degli altri. Ma per tre anni il loro sogno di libertà era stato talmente forte da far sanguinare il naso.

La storia era iniziata quasi per gioco nel 1970, a casa del diciannovenne egiziano Sylvain Mizrahi. Serate alcoliche dove il giovane Sylvain insegna qualche rudimento di batteria all’amico Billy Murcia e improvvisa qualche giro rock ‘n’ roll con l’altro compagno di liceo Johnny Genzale. Poi Syl parte per l’Europa. Ma Johnny (nel frattempo ribattezzatosi Thunders) non ha tradito il suo sogno. Ha reclutato altri disadattati del Bronx e di Manhattan, ha lasciato il suo posto di bassista ad Arthur Kane e quello di cantante a David Johansen e si è adattato al ruolo di chitarrista, al fianco di Rick Rivets. Le Bambole avevano iniziato a battere sulle strade di New York. Siamo nell’ottobre del 1971. Ma è quando Sylvain torna a casa per Natale, rispedendo nella sua Rick Rivets, che nasce la leggenda delle New York Dolls.

I primi spettacoli shock con i cinque musicisti vestiti da zoccole e coperti di glitter come le drag queen del teatro del ridicolo di John Vaccaro, le prime attenzioni di altri personaggi eccessivi come David Bowie e Lou Reed e pure la prima morte: Billy Murcia lascia il marciapiede la sera di un 7 novembre 1972, strafatto di alcol e droghe, proprio alla vigilia della firma del contratto con la Track Records di Kit Lambert.

Sarà Jerry Nolan, già fugace batterista delle sorelle Quatro nell’altrettanto effimera storia dei Cradle, a prendere il posto di Billy.

E la Mercury a prendere quello della Track.

Nell’aprile del 1973 si chiudono in studio truccatissimi assieme ad uno sbigottito Todd Rundgren che li invita a tirare fuori dal culo i loro brillantini glam e registrare dieci pezzi e una cover di Bo Diddley. Nessuno si ricorderà di Murcia durante le registrazioni. Ma Billy piomberà comunque dentro Alladin Sane di Bowie, ancora vestito da bambola. Scovatelo, se non lo avete ancora fatto.  

Il disco esce nel luglio di quell’anno. Esattamente un mese prima dell’infame Goats Head Soup con cui i Rolling Stones abdicano dal trono di peggiore rock ‘n’ roll band del pianeta dopo una tetralogia da pelle d’oca. New York Dolls è il passaggio dello scettro dalle mani dei vecchi Stones ai nuovi.

Si alzano i bicchieri colmi di crema all’uovo.

La cerimonia è pronta.

Il pubblico invece no.

Quello non arriva.

Va ai loro concerti per sbeffeggiarli e se ne torna a casa ad ascoltare i Lynyrd Skynyrd, John Martyn o i Genesis.

New York Dolls era un disco di spregiudicato e approssimativo rock ‘n’ roll di strada.

In copertina il gruppo posa per Toshi Tasaki, il fotografo di Vogue, su un divano trovato per strada e coperto con del raso bianco, con i consueti abiti di scena, le acconciature cotonate e il pesante make-up preparato da Dave O’Grady.

Sul retro invece uno scorcio di New York, esattamente l’angolo tra St. Marks Place e la Second Avenue, nella Lower East Side. Davanti alla piccola ma famosa Gem Spa, l’edicola aperta ventiquattrore su ventiquattro e che ancora oggi si rifiuta di vendere giornali porno. 

Un disco che rendeva omaggio agli eccessi e che l’America che era appena tornata a casa dai funerali di Hendrix, di Morrison e della Joplin e che non era ancora pronta per il ciclone punk che l’avrebbe investita suo malgrado, si rifiutava di accettare, impaurita da quelle prime ballerine che fischiettavano in un pomeriggio di primavera ora trasformate in lupi mannari che ululano alla luna. Hauuuuuwww!, da quei Frankenstein che si muovono tra le ombre lunghe dei grattacieli di Manhattan, da quei ragazzi che vengono da un pianeta solitario, da quelle ragazze vietnamite che tornano per restituirci gli incubi che abbiamo regalato loro senza che fossero mai venute a chiederceli, di quei travestiti che strisciano lungo le metropolitane della Grande Mela in cerca di un bacio.

Nessuno sembrava volersi divertire con la musica delle New York Dolls.

Pochi sorrisi per una musica che invece solo di quello voleva nutrirsi: di un’enorme, sbeffeggiante risata di libertà.

 

Malgrado goda di reputazione nettamente inferiore rispetto al disco di debutto, Too Much Too Soon mostra, in maniera forse ancora più sfacciata, l’autentico spirito trash delle New York Dolls. La produzione affidata a George Francis Morton avvicina in maniera del tutto naturale la band newyorkese ad una delle sue principali fonti di ispirazione ovvero la musica delle girls-band bianche degli anni Sessanta, Shangri-Las in primis (Morton era stato l’uomo dietro Leader of the PackRememberGive Him a Great Big KissWhat Is LoveI Can Never Go Home AnymoreSophisticated Boom BoomDressed in Black), dando meno gain alle chitarre, adulterando il suono grezzo del gruppo con l’uso di qualche effetto (come era già stato per i dischi delle Shangri-Las) e l’aggiunta di cori femminili e consegnando nelle mani di Johansen e Thunders qualche oscuro 45giri della sua collezione con l’intento di aggiungere qualche cover alla scaletta del disco, per rendere il gioco ancora più grottesco e allo stesso tempo, credibile. La scelta cade su Bad Detective dei Coasters, Showdown di Archie Bell & The Drells e Stranded in the Jungle dei Jayhawks cui viene aggiunta la Don‘t Start Me Talkin’ di Sonny Boy Williamson che le Dolls hanno in repertorio già da un paio di anni.

È un suono da cui pescheranno a piene mani un nugolo di grandi band (quanto Fleshtones c’è dentro Don‘t Start Me Talkin’ e It’s Too Late oltre che, ovviamente, dentro i Chesterfield Kings del muro di Berlino? E quanto sleaze rock deve il suo unico motivo di esistenza dai riff di Human Being e Who Are the Mistery Girls? senza cui forse neppure i Damned sarebbero mai nati? O basti pensare, ascoltando Bad Detective e Stranded in the Jungle che in fondo tutto quello che avrebbero detto i King Kurt in fatto di rock ‘n’ roll della giungla qualche anno dopo, era già stato detto. E ancora, come tacere dell’attacco di Puss ‘n Boots che i Sex Pistols avrebbero ripreso pari pari per la loro Liar senza essere mai citati per plagio?) e che ha raggiunto in pochissimo tempo un livello espressivo efficace e convincente. Ma, soprattutto, Too Much Too Soon rappresenta la scelta precisa e coraggiosa di defilarsi dal ruolo di nuovi eroi del rock ‘n roll in favore di quello di intrattenitori sarcastici e beffardi. In perfetta antitesi con gli Stones che quell’anno pubblicano il serioso e inopportuno It’s Only Rock ‘n’ Roll. Le New York Dolls scelgono di smascherare la loro vulnerabilità, senza alterare il ghigno burlone che li contraddistingue.

                                                                                                       

Nel 1981, la ROIR mette su nastro le vecchie registrazioni delle New York Dolls del 1972 allestendo Lipstick Killers, documento apocrifo necessario almeno quanto i due “atti” ufficiali.

Roba primitiva.

Versioni scarnissime di Personality Crisis o Looking for a Kiss, le uniche registrazioni con Billy Murcia ai tamburi che di lì a poco volerà in cielo dopo il breve soggiorno londinese in occasione del concerto spalla ai Faces di Rod Stewart.

Certo manca ancora, qui dentro, il tono devastante che Todd Rundgren imprimerà al disco di debutto così come lo sboccato puttanesco atteggiamento imposto loro da Malcolm McLaren, ma questa è una foto ricordo che non può mancare nel vostro scaffale dedicato ai/alle New York Dolls.

Finchè ci si chiederà per l’ennesima volta se mettere il maschile o il femminile davanti al loro nome, il rock ‘n’ roll sarà ancora vivo e puzzerà come ai vecchi tempi.

 

Nel 2004, subito dopo alla reunion fortemente caldeggiata da Stephen Morrissey e celebrata sul palco del Meltdown Festival, la leucemia si porta via Arthur Kane. Ma le celebrazioni per il nuovo matrimonio artistico fra David Johansen e Sylvain Sylvain si protraggono ancora a lungo, partorendo anche un nuovo figlioletto, a ben trentadueanni dal precedente.

È il 2006. L’anno dei rientri storici per il proto-punk mondiale, con i Radio Birdman e gli Stooges nuovamente sul piede di guerra e gli MC5 appena riformati. One Day It Will Please Us to Remember Even This è accolto dunque con grande favore dai vecchi nostalgici e anche dalle nuove generazioni che hanno favoleggiato a lungo su una delle band più straordinarie del rock americano e che adesso possono vedere in azione, seppure in formato “light”. Il disco è una versione parimenti “delicata” del vecchio rock ‘n’ roll sguaiato della band che ovviamente non ha più le pose scandalose degli anni Settanta, risparmiandoci una inutile pantomima e regalandoci uno spettacolo di puro disimpegno che alterna brani accesi come la bella Gimme Luv and Turn On the Light o i classici rock ‘n’ roll a braghe strette delle Dolls come Runnin’ AroundGotta Get Away from Tommy e Dance Like a Monkey a lentacci forse un po’ troppo stopposi e infilandoci dentro qualche power-ballad dal suono più moderno come Take a Good Look at My Good Looks, la We’re All in Love trascinata da un’armonica che ha perso ogni accento blues e la Dancing on the Lip of a Volcano che la voce di Michael Stipe trascina quasi in zona alternative-rock anni Ottanta. Che vuol dire fondamentalmente R.E.M. e Hüsker Dü.

Tornando a sporcare le strade di New York e dando altra merda da raccogliere al Boy George che si appresta a pulirle con ramazza e paletta.  

 

A un certo punto delle loro vite, artisticamente in picchiata, David Johansen e Sylvain Sylvain hanno sentito il bisogno (economico?, il dubbio è lecito, NdLYS) di andare a riprendere la loro vecchia bambola in soffitta e dargli una spolveratina.

Succede all’incirca a metà del decennio I del XXI secolo.

Non sappiamo cosa ne pensino i vecchi compagni defunti, ma ormai la frittata e fatta e dunque tanto val la pena rigirarla. Cauze I Sez So è dunque il secondo capitolo della nuova stagione della saga, tanto per pareggiare i conti con la prima serie. Nel 2009 dunque ci tocca sentire la parodia delle New York Dolls interpretata da essi medesimi, con un disco che ha pochissime calorie.

Sfatto, anzi sfattissimo. Ma non nel senso decadente e perverso di trentacinque anni prima, quanto nell’accezione di un disco che ha pochissimi motivi per esistere, per abitare la nostra casa, per impegnare i diodi del nostro impianto stereo. Roba(ccia) come il western di Temptation to Exist, l’orrida ballata Lonely So Long, la nuova versione reggae di Trash, il Johnny Cash bagnato come un pulcino di Making Rain sono disarmanti tentativi di tenere in piedi una baracca che forse meriterebbe di crollare. My World, unico pilastro del disco, non ne può reggere il peso, seppure si mostri armato a dovere, nonostante l’esile apparenza di una torva ballata.

Avvisate i filistei, prima che sia troppo tardi.

 

L’inizio è un palese tributo alle produzioni spectoriane, quindi arriva Streetcake che è quasi un Pizzicato Five: un’immagine svolazzante degli anni Sessanta tutta piena di cori zuccherosi e di ritmi bossanova a confermare che il nuovo viaggio delle New York Dolls ha una destinazione lontana. Dancing Backwards in High Heels è il disco con cui la band newyorkese capisce che l’unica via praticabile è adesso quella di un onesto tributo alla old-music, senza nessuna pretesa di ribellione più o meno posticcia. Un esperimento già tentato da Johansen vestendo gli abiti di Buster Poindexter, del resto. E nella abiura dalle pose eccessive, nel banale ripiego ad essere interpreti di un rock ‘n’ roll passatista e conservatore sta la carta vincente di un disco dignitoso che ha l’unica pecca di legare il suo titolo, oltre che agli eroi del tip-tap hollywoodiano, proprio a una band ingombrante come le New York Dolls.

Un disco che va preso per quel che è, sgombrando la mente dagli scandali, dal punk e dal ritorno del punk, anche quello spesso tributo senza anima. Con la consapevolezza che le bambole sono anche un po’ marionette. E che le marionette ci possono sempre strappare un sorriso, visto che non ci fanno più strappare i capelli.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

The New York Dolls

MOTHER LOVE BONE – Apple (Stardog)  

3

Come un rigurgito sleaze salito dalla California di Guns N’ Roses e Jane’s Addiction su su per il grasso ventre dell’America, fino a trasformarsi in conato di vomito glam-metal nel nord-ovest degli Stati Uniti, lì dove sta succedendo quella cosa chiamata grunge. Che è partita proprio da loro, quando ancora “lavoravano” nelle officine dei Green River, degli Skin Yard e dei Malfunkshun.

Dunque, prima di essere un gruppo super i Mother Love Bone sono già un super-gruppo. E Andrew Wood ne è consapevole, tanto da pretendere ed ottenere il primo ingaggio major della scena di Seattle. Per la Stardog, etichetta creata apposta per loro dalla Mercury, incidono prima l’E.P. Shine e quindi Apple, che Andrew non stringerà mai fra le mani: poche settimane prima della sua uscita quel cognome che si è portato dietro dall’Ohio si sarà materializzato in legno vero e il suo sogno di rockstar sarebbe sfilato per la città in orizzontale anziché lanciarsi a razzo verso le stelle.

Quella mela avvelenata non l’addenterà nessuno dei commensali: quando viene servita a tavola nel luglio del 1990 i Mother Love Bone si sono già trasformati in un estemporaneo progetto che vuole accomiatarsi salutando per l’ultima volta il vecchio amico registrando un disco a nome Temple of the Dog.

Ad accogliere Apple resta un pubblico numeroso ed attonito, che ben presto si abituerà a seguire i feretri dei suoi eroi.

Un disco in cui più che le potenti e funkeggianti rock songs portate in dono da Jeff Ament e Stone Gossard (gli assalti di Holy Roller, le chitarre che sfrecciano come aerei a bassa quota su Heartshine, il groove nodoso di Captain Hi Top e l’incenso allo zolfo che si sprigiona su Bone China su tutte) sono proprio le apoteosi di tormento asciutto e romantico delle ballate scritte da Wood a colpire nel segno: Stargazer, Man of Golden Words, Gentle Groove e Crown of Thorns sono un disco nel disco, un’autopsia post-mortem sul petto di Andrew Wood che mette a nudo il suo cuore glam ribelle e solitario, il torsolo di questa mela avvelenata coperta di zucchero caramellato.     

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

BOOHOOS – Like a leper messiah

1

In un Inferno migliore di questo i Boohoos sarebbero stati la band perfetta.

E per chi c’era, negli anni Ottanta pieni zeppi di moncler e facce da MTV, lo furono per davvero.

Chi vi dirà che, fossero nati oggi, i Boohoos sarebbero un gruppo di “successo”, che oggi i tempi sono “maturi” per il loro assalto sonoro, che questo sarebbe stato il momento giusto e blabla vi sta raccontando un sacco di balle. Il suono tossico dei Boohoos ancora oggi viene venduto “in vitro” esibendo le cosce delle pop-star di turno o il make-up di orridi gruppazzi metal truccati come se fossero sopravvissuti a chissà quale guerra nucleare e che invece perdono il cerone sotto il calore dei riflettori.

La musica dei Boohoos invece non raccontava menzogne.

Ci restarono male un po’ ovunque, soprattutto nei reparti di ostetricia di Bologna e Firenze nelle cui culline termiche la “nuova cosa” italiana era stata accolta, ma anche nelle giungle metropolitane di Milano e Roma dove si riteneva scontato che il malessere urbano facesse da spinterogeno per chissà quale rivoluzione musicale, e pure a Torino, allora fiorente e rigogliosa di spezie retro-rock, ci restarono un po’ fregati: il miglior disco di rock ‘n’ roll mai partorito in Italia (beh, avanti….uno dei migliori, visto che c’erano pure Young Bastards dei Kim Squad e Sinnermen dei Not Moving in giro in quello stesso periodo…NdLYS) veniva da “fuori zona”: Pesaro.

 

Un esordio folgorante e prodigioso, di quelli che nessun cinquentenne di oggi può aver dimenticato. Siamo in Italia, a cavallo tra il 1986 e il 1987, ma con le dita infilate nelle prese elettriche del Michigan Palace mentre Iggy si sfregia il torso con i petali di vetro che il suo pubblico gli regala. Il suono tossico di The Sun, the Snake and the Hoo colava sperma e sangue, e buttava giù le pareti, sul serio.

E consegnava idealmente e materialmente la stagione neo-garage a quella immediatamente successiva, che spostava lo sguardo da Tacoma e dal Texas verso il suono borderline della Motor-City. Ma a quel punto loro, stavano già guardando altrove. Perchè i Boohoos erano imprendibili. Quattro brani che si muovono della stessa ossessione perversa di un persecutore seriale attraverso orifizi di carne avida di piacere.

Quattro canzoni per chi di sesso ha un estremo, inappagabile bisogno biologico, compulsivo, organico.
Quattro canzoni che richiedono volumi adeguati.

E non solo quelli acustici.  

Richiudendo la cerniera con una cover di Search and Destroy che chiuderà le bocche proprio a tutti, per anni.

 

Moonshiner non abbandonava e non tradiva l’amore per gli Stooges (i tardi-Stooges, per la precisione) ma lo immergeva in una più vasta e molteplice sintassi di rawk ‘n roll impastato nei lustrini del glam. Un rock bastardo e sanguigno che ha nei primi anni Settanta il suo naturale sbocco creativo. Un suono che apre presto le cosce al glam chiamando tutto il lerciume del rock all’adunata alla corte di Bacco: Marc Bolan, Barrett, l’Iguana, Lou Reed, Bowie, Alice Cooper, i Fuzztones, Roky Erickson, le NYDolls e i Godz, insieme per banchettare nell’orgia dionisiaca di Moonshiner. Il timbro dei Boohoos diventa nero e fluorescente, come se Ziggy Stardust stesse suonando sopra l’ossario di Bela Lugosi. Era il fracasso di un mucchio di gente incapace di badare a se stessa ma che stava scavando l’asfalto con le unghie pur di allacciare le fogne di Berlino e Detroit con quelle di Pesaro, Italia.

 

Il disco si apre con un rapido scambio di accordi giocati su una chitarra acustica ma è qualche secondo dopo, non appena Paul Chain accende il suo organo elettrico, che si intuisce davvero che nessuno uscirà vivo da qui: Nancy‘s Throat è un vero baccanale pre-hard che scioglie da subito gli indugi. Le sferzate proseguono con Ghostdriver, ancora giocata sul suono aggressivo delle chitarre e le spruzzate di organo a sporcare tutto come un bukkake di semenza acida. Downtown Train, a seguire, smorza un po’ i toni: è un boogie sincopato ma non privo di suggestioni che ospita, come nel pezzo successivo, Piero Balleggi (in quegli anni impegnato anche con i new-wavers Neon e i rockabillies Jack Daniel‘s Lovers). My H.E.L. chiude la prima parte del disco col suo hard-rock veloce e flashiato e il suo boccale di cori. Realizzi allora che l’orgia è in pieno corso e l’urgenza di voltare il disco ha, negli anni, ridotto la mia copia in vinile a un indecente cumulo di tagli e graffi come quelli di un eroinomane in preda ai deliri suicidi.

La seconda facciata del disco è quella più visionaria, lunare e decadente, figlia dello Ziggy Stardust bowiano e dei colletti di pelliccia di Marc Bolan: si apre con Oh You Mandrax, ballatona glam colma di ospiti (anche Daniele Caputo dei Birdmen of Alkatraz e Moreno Spirogi degli Avvoltoi si prestano al gioco) e di chitarroni scintillanti. Meet Us, a ruota, è uno dei pezzi più vecchi del gruppo: si sentono le loro origini “garage” anche se deformate, alterate da un approccio duro e volgare. È un punk mutante e debosciato, che flirta con l’hard, la psichedelia pesante e il blues. Chitarre che sfrecciano e un cembalo che, come il trapano di un dentista, gioca sui due canali.

Il capolavoro arriva subito dopo. Si intitola The Hoo ed è una serpe blues avvelenata che si sviluppa seguendo un torbido e funereo giro di basso, si riempie di rumori, si interrompe (here it comes…..) per poi esplodere in un ficcante e dionisiaco assolo di chitarra gemente. Un finale in crescendo che cede poi il passo all’intimismo dell’acustica When I Come Home che sa di ceppi che prendono fuoco nel camino e di bottiglie di vino, prima di prendere il volo con un coro che è una pioggia di pailettes. Pura dottrina glam.

Allora diciassettenne completamente travolto dal rock ‘n’ roll mi dicevo che la festa era solo all’inizio, che se c’era in giro gente che faceva dischi così chissà cosa sarebbe uscito negli anni a venire. Oggi, più di venti anni dopo e col senno di poi posso dire che mi sbagliavo: Moonshiner resta il capolavoro che era e di altre meraviglie, ahimè, se ne sono sentite sempre meno. 

 

Se per molte garage band gli Stooges avevano rappresentato un approdo, per i Boohoos, la più stoogesiana delle band italiane, il gruppo di Detroit aveva rappresentato solo un punto di partenza. Col terzo disco i Boohoos si allontanano dalle coccole del loro vecchio pubblico e tranciano di netto il cordone che li lega al suono della Motor City. Un taglio definitivo e profondo. 

Rocks for Real inclinava infatti l’asse verso lo sleaze e lo street-rock e aggiungeva alla cartina una tappa obbligata a Los Angeles, rimanendo comunque perfido e malsano, anche se meno indispensabile.

Alessandro Renzoni, giubbotto e guanti di pelle, abbraccia da dietro la bella Estrelita con fare vampiresco. Mano sinistra sul seno e le dita della destra che premono sul pube. È il famoso scatto di copertina di Giovanni Tommaso Garattoni (tra le altre sue copertine storiche quelle di Moonshiner, sempre per i Boohoos, Why Don‘t You Die? dei Rebels Without a Cause, NdLYS). Uno scatto da cui emerge l’idea pornoglam che si è impadronita della mitica formazione pesarese.

Il suono di Rocks for Real, sgombro dalle tastiere di Paul Chain e con una nuova sezione ritmica, è meno debosciato e perverso rispetto agli standard del gruppo, più omologato al gusto del grande pubblico. Le nuove coordinate della band sembrano essere l’hair metal, il boogie rock e lo sleaze di formazioni come Hanoi Rocks, New York Dolls, Aerosmith, L.A. Guns. Un cambio di prospettiva che all’epoca gettò sgomento tra i fedeli del gruppo marchigiano, costretti a fare i conti con una banalità da AOR come Bangkok (Loveshock) e a vendere al ribasso le proprie quote azionarie sul nome Boohoos a causa di un disco bistrattato e giudicato all’epoca troppo severamente e con approssimazione. Quello che all’epoca viene ritenuto un episodio opportunista di approdare alle masse assetate di slamdancing rivela, con le orecchie sgombre dal rigore filantropico che ne occludeva i canali e col senno di poi una scrittura capace di reggere testa a tante osannate band di hard rock metropolitano (Catwoman, Bad Loser, Heartbeat City, King‘s Promenade) e di giocare buone carte anche quando si trattava di allentare la morsa del riff per dare un po’ d’ossigeno ai polmoni (For Absent Friend, breve intermezzo strumentale che imita il portamento alla Since I‘ve Been Loving You dei Led Zep e ai movimenti III e IV della Shine on You Crazy Diamond dei Pink Floyd e il blues Soldier of Fortune giocato su un bell’intreccio di chitarra acustica e slide-guitar).   

Certo, la luce sinistra che avvolgeva The Hoo si era definitivamente eclissata.  

Poi, tutte le altre luci si sarebbero spente a loro volta.

Lasciandoci al buio.

Preludio di un infinito periodo di silenzio che deve essere costati fatica e dolore, dopo i fiotti di rumore che i Boohoos ci versarono addosso nella loro breve vita.

Cinque anni in cui l’unica regola era non risparmiarsi, nemmeno a livello personale.

Dopo, non si sarebbero più sprecati nemmeno per rivendicare il ruolo di prime movers che la storia deve loro o per inghiottire le palle di canfora dal baule dei ricordi.

Come se le sabbie mobili si fossero chiuse su una delle rare vicende del rock tricolore ad avere un suo senso, un suo peso specifico.

Ma del resto i sogni durano sempre poco anche se alcuni ti lasciano segni che difficilmente andranno via dalla nostra pelle. I Boohoos questo sono stati: un sogno deviato da cui ti svegli con la cute sfilacciata.

Here it comes…

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro