Come un rigurgito sleaze salito dalla California di Guns N’ Roses e Jane’s Addiction su su per il grasso ventre dell’America, fino a trasformarsi in conato di vomito glam-metal nel nord-ovest degli Stati Uniti, lì dove sta succedendo quella cosa chiamata grunge. Che è partita proprio da loro, quando ancora “lavoravano” nelle officine dei Green River, degli Skin Yard e dei Malfunkshun.
Dunque, prima di essere un gruppo super i Mother Love Bone sono già un super-gruppo. E Andrew Wood ne è consapevole, tanto da pretendere ed ottenere il primo ingaggio major della scena di Seattle. Per la Stardog, etichetta creata apposta per loro dalla Mercury, incidono prima l’E.P. Shine e quindi Apple, che Andrew non stringerà mai fra le mani: poche settimane prima della sua uscita quel cognome che si è portato dietro dall’Ohio si sarà materializzato in legno vero e il suo sogno di rockstar sarebbe sfilato per la città in orizzontale anziché lanciarsi a razzo verso le stelle.
Quella mela avvelenata non l’addenterà nessuno dei commensali: quando viene servita a tavola nel luglio del 1990 i Mother Love Bone si sono già trasformati in un estemporaneo progetto che vuole accomiatarsi salutando per l’ultima volta il vecchio amico registrando un disco a nome Temple of the Dog.
Ad accogliere Apple resta un pubblico numeroso ed attonito, che ben presto si abituerà a seguire i feretri dei suoi eroi.
Un disco in cui più che le potenti e funkeggianti rock songs portate in dono da Jeff Ament e Stone Gossard (gli assalti di Holy Roller, le chitarre che sfrecciano come aerei a bassa quota su Heartshine, il groove nodoso di Captain Hi Top e l’incenso allo zolfo che si sprigiona su Bone China su tutte) sono proprio le apoteosi di tormento asciutto e romantico delle ballate scritte da Wood a colpire nel segno: Stargazer, Man of Golden Words, Gentle Groove e Crown of Thorns sono un disco nel disco, un’autopsia post-mortem sul petto di Andrew Wood che mette a nudo il suo cuore glam ribelle e solitario, il torsolo di questa mela avvelenata coperta di zucchero caramellato.
All’indomani della morte di Andrew Wood quel che resta dei Mother Love Bone viene convocato da Chris Cornell ovvero colui che col biondo cantante della band condivide, oltre che sogni di gloria, cucina e bagno in un mini-appartamento in città per un tributo alla memoria: è il battesimo di fuoco dei Mookie Blaylock che da lì ad un paio di mesi diventeranno Pearl Jam e che stanno all’epoca ancora rodando questo nuovo cantante di San Diego chiamato Eddie Vedder, apparso fra i tanti candidati l’unico in grado di cucire addosso alla musica di Stone Gossard e Jeff Ament dei vestiti credibili che non siano solo una sgualcita copia delle buffe e colorate divise di Andrew Wood. Il suono d(e)i Temple of the Dog è già quello che farà di Ten un disco milionario: Rick Parashar produce entrambi i lavori dando a quell’impasto sonoro il medesimo taglio, forzando l’imprinting epico/decadente che era già latente nei vecchi Mother Love Bone e che la voce di Cornell carica di drammaticità zeppeliniana e cercando una via alternativa non tanto al grunge della città quanto allo sleaze rock che ancora dilaga in California, alla ricerca di una nuova “classicità” rock che è quella che molti detrattori non perdoneranno mai ai Pearl Jam.
Hunger Strike, Call Me a Dog, Your Savior, Pushin’ Forward Back, All Night Long, Say Hello 2 Heaven fondano il canone dell’hard-rock di Seattle, quello che i Pearl Jam perlustreranno in lungo e in largo per oltre trent’anni e che lo stesso Cornell recupererà nella sua carriera post-Soundgarden e che rappresenterà l’alternativa locale prima e mondiale poi alla strapotenza del grunge.
Ten, il debutto definitivo dei Pearl Jam, è un esordio che mette paura.
Una soggezione reverenziale, come quando ti trovi davanti alla Pietà del Michelangelo o al David di Donatello.
Il primo capitolo dei Pearl Jam è l’ultimo atto del classic rock.
Qui muore quel concetto di rock che trascende i generi e le sottoculture.
Perché dopo di esso tutti avranno paura del confronto, i Pearl Jam per primi, cercando di affrancarsi da un precedente così ingombrante da far sembrare patetici tutti gli epigoni che salteranno fuori da lì a breve.
Faceva bene Eddie Vedder a prendere già allora le distanze dal grunge. La loro musica non aveva nulla da spartire con nessuna scena. Era autosufficiente, autonoma, fiera, indipendente. Ten (dieci, come il numero sulla maglia di quel Mookie Blaylock che era il campione il cui nome era stata la prima scelta quando si era trattato di scegliere un nome per la prima avventura post-Mother Love Bone, NdLYS) è un disco che chiede di fermarti. Reclama concentrazione, totalmente padrone del suo tempo, della sua logica artistica, del suo raziocinio dialettico.
Non lascia scampo e ti fa prigioniero. È una dolorosa lacerazione sulla carne che non smette di bruciare, di localizzare la tua attenzione. Devi fasciarla stretta per farla ammutolire, per concederti un respiro, una tregua, un armistizio con il dolore che ti sale dalle viscere. C’era, nella musica di Ten, questo taglio epico ed eucaristico pieno di nuvole, di masse di vapore scuro, pesante. Era, ed è ancora, come correre lungo una highway americana, ma verso il temporale.
Ha questa maestosità ombrosa, introversa, schiava e vittima delle intemperie.
Schiacciata a terra da una perturbazione meteorologica che è pioggia dell’anima.
È un sapore di fuga che resta irrisolta, incompiuta. L’amarezza inquieta di chi sa che potrà fuggire da tutto ma non dal proprio passato. Che per Eddie è quello di una famiglia a pezzi, di un padre bastardo, di una infanzia negata. È quella del ragazzo disadattato di Once, delle confessioni familiari di Alive e dell’adolescente killer Jeremy Wade Delle.
I Pearl Jam raccontano l’altra faccia dell’America. Un’America che esce a pezzi dal reaganesimo e dall’edonismo degli anni Ottanta, cresciuta a popcorn e videogiochi, che si muove all’ombra dei grandi boulevard, che si raccoglie quando le insegne sono spente e le strade di sgombrano di gente alla ricerca di un benessere posticcio, da grande magazzino. È l’America dei figli della workin’ class affranta e disillusa che abita le canzoni di Springsteen di cui i Pearl Jam sembrano essere diventati negli anni i naturali eredi morali.
Salvo poi, in un imbarazzante gioco delle parti, ad essere il Boss a “rubare” loro produttore (Brendan O’Brien per The Rising e Magic) e riff (Radio Nowhere sempre su Magic, 2007).
La raccontano con una intensità che ha del prodigioso, vista la giovane età. E così mentre quasi tutta la loro citta sguazza nel fango i Pearl Jam mettono le ali proprio come se fosse l’ennesimo, forse l’ultimo Boeing creato nelle officine aeronautiche di Seattle.
Dopo Ten a fare Eleven, ovvero una copia carbone di quel disco, ci avevano pensato gli Stone Temple Pilots di Core.
Ai Pearl Jam restava il compito più difficile: confermare il successo planetario del debutto senza andare in giro con una targa con scritto “svendita” appiccicata al culo.
Provare a fare meglio e di più.
Mettersi alla prova come artisti e come uomini.
Il risultato di questa sfida arriva nei negozi il 19 settembre del 1993.
Annunciato col titolo di Five Against One, poi ufficializzato con la contrazione Vs. nonostante in alcune versioni il disco esca con un semplice sticker col nome della band e nessun’altra indicazione commerciale il secondo album dei Pearl Jam centra l’obiettivo con sorprendente efficacia ergendosi a capolavoro dell’intera discografia della band di Seattle riuscendo a miscelare tutte le caratteristiche mostrate sul debutto e che già dal disco successivo cominceranno a puzzare di stantio, soprattutto a causa dell’abbondare di catene di fast-food musicali (Brothercane, Staind, Nickelback e voi sapete quali altre nefandezze, NdLYS) che infesteranno il mondo seguendo pari-pari quel ricettario fino a rendercelo indigesto.
Ma Vs. è un disco che sfoggia una mascolinità feconda e abbagliante, una raccolta di canzoni da urlare mentre stai per essere sopraffatto dal dolore che la vita ti concede gratuitamente.
E il dolore arriva, bambini.
Travestito o nudo, a seconda dei casi.
Sfoggerete il vostro sorriso migliore per illudervi di averlo gabbato.
Ma lui avrà già spento la fiamma e lasciato la cera.
Avrà disossato la carne.
Avrà svuotato i piatti.
Ora non resta che prendere in mano il detersivo e mostrarli agli amici più brillanti e puliti di prima.
Pronti per un’altra cena che ci tenga lontani dagli specchi.
Raccoglieremo il nostro sorriso di scorta e ne faremo uno zerbino di benvenuto.
Vs. è l’angolo dove decidiamo di lasciarci tormentare dalla vita e dalla morte, senza bisogno di rispondere ad un sorriso idiota con una smorfia di allegria posticcia.
Di quale dolore moriremo domani?
Che differenza fa?
V per Vendetta.
V per Vitalogy.
V per Vedder.
Il terzo album dei Pearl Jam è il trionfo di Eddie Vedder. È lui il primo attore di questo disco umorale e in qualche modo straordinario. Eddie è la mente lucida e dispotica in un momento in cui gli equilibri all’interno del gruppo sembrano incrinarsi. È il momento del risveglio etico e politico di Vedder, della sua ferma posizione avversa nei confronti di Ticketmaster che porterà all’allontanamento di Abruzzese, l’attimo infinitamente lungo e pesante in cui una band partita dal nulla si ritrova a dominare il mondo e si chiede quale debba essere il messaggio da lanciare, quale debba essere il suo ruolo, il suo compito, il suo obbligo morale nei confronti di un pubblico diventato numericamente abnorme.
L’attimo in cui i Pearl Jam si trasformano negli U2 e Vedder in Bono Vox.
Un momento di confusione e di ridefinizione dei ruoli che ben si avverte nella scaletta di Vitalogy, ricco di tracce sperimentali, di incompiute e di frammenti incomprensibili. Non solo al pubblico, ma pure agli stessi musicisti i cui sfoggi solistici sono ridotti al minimo rispetto alla prosopopea solenne e monumentale di Ten. Musicalmente è un’opera slegata ed emotivamente scostante con un attacco frontale degno dei Damned migliori come Spin the Black Circle e dall’altra una ballatona pop come Better Man destinatata in un primo momento a Greenpeace e poi inserita su insistenza di Brendan O’Brien sull’album.
Tra queste due anime, Vedder si muove inquieto e smanioso indagando sulla propria identità di artista e di band violate da un’attenzione dei media e del pubblico esorbitante (le poche parole di Pry, to e Bugs sono al limite della mania di persecuzione), interrogandosi su come colmare l’enorme paradosso che obbliga la sua band a trovare un canale di comunicazione con i propri fan senza aver risolto l’incomunicabilità che invece regna in studio e dietro il palco.
Eddie ha paura di cadere dal piedistallo dove qualcuno lo ha messo. E ha il terrore di precipitare nella stessa buca del suo amico Kurt Cobain. Vitalogy è il disco che fotografa la band sul ciglio dello strapiombo.
Adesso, per salvarsi, occorre sterzare a destra.
Tra Vitalogy e No Code, i Pearl Jam mettono mano a due collaborazioni artistiche importanti con Neil Young e Nusrat Fateh Ali Khan. Due progetti apparentemente collaterali, quelli di Mirror Ball e della colonna sonora di Dead Man Walking, e che incideranno invece in maniera sostanziale per la realizzazione del quarto album. Due esperienze che si riveleranno necessarie ora che i Pearl Jam decidono di mettere in piedi una nuova strategia che li allontani definitivamente dal cliché dei primi tre album e di costruire una nuova identità, più contorta e accigliata.
No Code è piegato da questa necessità. Elaborato con il preciso intento di deludere le aspettative dei vecchi fan, chiedendo loro lo sforzo necessario per buttare giù la statua dei vecchi Pearl Jam.
Uno sforzo reso manifesto già dal singolo che si fa carico di presentare l’album, nel Luglio del 1996, un brano che unisce le arie bucoliche dei Led Zeppelin del terzo album al misticismo qawwali appreso da Fateh Ali Khan e che rifiuta la logica commerciale della sequenza strofa-ritornello ed evita il facile trucco del gancio melodico vincente e dell’impatto sonoro devastante.
È questa la logica che sta dietro a tutto No Code.
La necessità di smorzare i toni, di rendere i Pearl Jam una band dal volto umano, lontana anni luce da quella immagine di muscolosi supereroi che sembrava saltare fuori prepotente dalla copertina e dalla musica di Ten.
La voce di Vedder si ridimensiona.
Cede all’emozione invece di cavalcarla, fino a farsi spezzare come succede quando su Sometimes intona sfilacciandosi come un collant “devote myse-e-e-lf” oppure scegliendo volutamente il sussurro confidenziale all’enfasi carismatica di cui tutto il mondo lo sa capace.
O addirittura facendosi da parte, come succede su Mankind.
La musica si fa inafferrabile e sfuggente. I Pearl Jam ci lasciano stavolta senza ritornelli da cantare e 156 Polaroid e 13 canzoni tutte da decifrare, strappandoci di mano anche l’invisibile air-guitar che per qualche anno ci aveva fatto sentire degli eroi inutili.
Yield è il primo disco dei Pearl Jam a non riuscire a percorrere tutta la distanza che si è data. Paradossalmente, a giudicare dalla copertina, è quello con cui la band americana ha deciso di andare più lontano.
E invece è proprio da qui che la corsa della band si trasforma in una corsa ad ostacoli seppur ben confortata da spalti sempre più pieni.
La partenza è affidata a due belle stilettate come Brain of J. e Faithful con le chitarre che ruggiscono e Vedder acceso dal demone del rock. Poi, lentamente ma inesorabilmente, la band si impantana in un rock di maniera, piccoli intermezzi sperimentali figli in egual misura di Vitalogy, di Mellow Gold e di Monster e un fascio di canzoni attente a non fare del male a nessuno, un mazzo di carte magiche con cui provano a tenersi buoni i vecchi fan e a fare qualche cenno di intesa ai potenziali prossimi compagni di tavolo. L’occhiolino soprattutto.
Il mito dei Pearl Jam supereroi nasce praticamente qui. Soprattutto in quei sette minuti che vanno dall’arpeggio di Given to Fly alle sfumate richieste di Wishlist.
Il mondo decide che dei Pearl Jam, a differenza di tutte le altre band di Seattle, ci si può fidare. E dà loro fiducia. Stringendoli di un abbraccio che fino a quel momento, in quelle dosi di venerazione ed amore, era ad unico appannaggio di Springsteen e U2. Proprio nel momento in cui il loro canzoniere si spopola di canzoni perfette, i Pearl Jam raggiungono la perfezione che il pubblico aspettava.
Binaural è il prodotto griffato che arriva in vetrina per la collezione primavera/estate 2000. Chissà come, avverti in qualche modo che non è necessario. È una suppellettile prestigiosa. Ma è una suppellettile. Non ha più in se il prodigio dell’irriverenza e ha una copertina che non gli appartiene, come non appartiene a te.
In quella nebulosa dal nome Clessidra ti sembra davvero di poter vedere le stelle scendere come granelli di sabbia, senza possibilità di poter essere capovolta.
E ha un po’ il gusto della disfatta del tempo che avanza, su te e sugli altri. E di questa percezione comune, ne avverti il passo greve.
Binaural è il momento in cui capisci che i Pearl Jam non ti stupiranno più. Che in qualche luogo si sta macchinando un’imperfetta messa in scena con i figuranti messi lì a fingere che tutto vada bene, a battere su una macchina da scrivere che martella su un rullo senza fogli. Tic tic tic tic tic.
È una liturgia senza più ostie da consacrare, un incontro in abiti apprettati per stringere altre mani.
Ritrovarsi lì, seduti-in piedi-inginocchiati sulle panche.
Che son suonate le campane, e forse è un dì festivo.
O forse no.
Riot Act è un disco sull’agonia di una nazione e sul crollo dei pilastri virtuosi su cui non solo la loro nazione ma l’intero pianeta dovrebbe reggersi. Ed è un disco che rivela, senza volerlo, l’agonia di una band la cui ispirazione sta affondando nelle sabbie mobili da lei stesso create. La band si muove come impacciata fra i propri fantasmi, tardivi quanto inutili rimorsi per la tragedia di Roskilde, confusi rancori politici, goffi gospel da requiem e citazioni beatlesiane sull’amore che tutti sazia, lasciandoci invece tutti affamati. Un lavoro greve sin dalla copertina, infarcito di morte e debilitato dalla spossatezza e dall’uggia.
Si, siamo dopo l’11 settembre.
Però come atto di sommossa mi pare un po’ inadeguato.
Sulla copertina dell’album omonimo del 2006 troneggia un avocado.
Ovvero, per dirla con gli aztechi, un testicolo.
Ognuno ci veda insomma il simbolo che vuole.
Quello che però salta agli occhi è il cromatismo vivido, la nitidezza di immagine che splende con una precisione ancora più esaltante dopo due copertine buie e tenebrose come quelle di Binaural e Riot Act.
Poi ovviamente ci sono altri segnali importanti, come la scelta di battezzare la nuova creatura col proprio nome, che è un atto enfatico di orgoglio e rispetto simile a quando si decide di dare al figlio il nome del proprio padre, credendo di poterne allungare le radici fino allo stesso albero che ci ha generati. Oppure quello che per la prima volta i Pearl Jam pubblicano su un’etichetta non convenzionale e (quasi) anonima. L’ottavo album dei superstiti del ciclone grunge di quindici anni prima è dunque all’insegna di un ottimismo che sembrava essersi adombrato nei primi anni del nuovo decennio.
Dentro i Pearl Jam ci mettono quanto più Pearl Jam possono metterci.
Quelli delle ballate da groppo alla gola e delle chitarre che ti afferrano alla carotide, quelli languidi e scivolosi e quelli che salgono in verticale come facevano gli Dei del rock negli anni Settanta.
Quelli inutili, pure. Come quelli messi alle corde nella seconda parte del disco che molto presumibilmente nessuno ascolterà mai più di un paio di volte.
Quelli figli di un dolorproprio e di un dolore più grande ed universale.
I Pearl Jam un po’ prevedibili. Che se ci sono è bello averli ma se non ci fossero più, sarebbe bello ricordarli con i loro dischi migliori. E questo non è fra quelli.
Backspacer è il trionfo dei Pearl Jam eroi dell’arena-rock.
L’ottimismo che sembra invadere la band si traduce in un disco che decide di mostrare solo la faccia luminosa della luna. Un’opera “maneggevole” già dalla durata, di un quarto d’ora sotto gli standard della band. Copertina invece nel solito standard bassissimo che le è proprio.
Canzoni, undici, che si prefiggono lo scopo di invadere l’etere. Che passino in radio o che vengano propagate da un adeguato service audio da un palco, poco importa. E lo scopo viene raggiunto, aggredendo da subito le classifiche. Certo, la sensazione è che dei Pearl Jam dei primi anni sia rimasto solo un guscio vuoto ma d’altro canto l’appeal di canzoni come The Fixer e Got Some o di ballate come Just Breathe o Speed of Sound pensate apposta per illuminare di accendini e smartphone le platee è tale che è facile cedere all’inganno, pur avendo la lucidità per smascherarne il trucco.
Un po’ come quando criticate platealmente quelle col seno rifatto e poi ne cercate le foto per scaricarvele sul pc per guardarvele quando vi abbisognano.
Il trionfo dell’erotismo di plastica, ecco.
Che val sempre una sega. Ma non molto di più.
Lightning Bolt, decimo album di una sequenza iniziata ventidue anni prima ci porta, ancor prima di metterlo nel nostro lettore, la consapevolezza che, nonostante la vecchia scena grunge si sia bruciata nel giro di cinque anni, invecchieremo coi Pearl Jam. Anzi, che lo stiamo già facendo.
Pubblicato nel 2013, Lightning Bolt porta con se un’altra consapevolezza, ovvero che le barriere fra corporate rock e rock alternativo sono in realtà un muretto di pietra a secco facilmente scavalcabile con una zampata. E ciò non tanto per i contenuti e le forme ma in quanto gli scenari e gli equilibri fra artisti, pubblico, case discografiche, distributori e piattaforme internet hanno completamente resettato il mercato. È una nota a margine doverosa per un disco pubblicato da un’etichetta indipendente per quella che, assieme agli U2, è la formazione destinata agli stessi bagni di folla che in passato furono di band come Rolling Stones, Led Zeppelin o Who e “spinto” sui social e sul proprio sito internet più che attraverso le radio e le tv. Un disco in cui l’impronta dei loro autori resta fortissima, pur senza lesinare soluzioni meno scontate che tuttavia, visto il carisma raggiunto da Vedder e dai suoi musicisti, finiscono lo stesso per essere perfettamente riconoscibili come “chiaramente” Pearl Jam. Ci si trova dunque al cospetto dei soliti, sinceri tributi omaggi al punk (la bella Mind Your Manners), alle abituali ballate senza le quali probabilmente i Pearl Jam non varcherebbero mai uno studio di registrazione (Sirens, piena di tutti gli stereotipi del caso), a numerosi ma ancora apprezzabili brani di classico, enfatico epic-rock in cui la band è maestra con pochissimi rivali e a qualche tentativo di approcciarsi alla materia con modi meno abituali (le chitarre sdrucciolevoli di My Father’s Son, il groove blues-rock di Let the Records Play o le diradate sincopi di Pendulum) che forse siamo diventati troppo vecchi per poter apprezzare, preferendo noi prima di loro di rifugiarci nei rassicuranti abbracci di Sleeping by Myself o Swallowed Whole, felici di poterci trovare oltre ai Pearl Jam anche i Counting Crows o i R.E.M.).
Perché invecchiando, capisci che non c’è niente di più bello che l’abbraccio della nonna.
Posticipa oggi, rinvia domani, i Pearl Jam hanno mancato il bersaglio e sbagliato il momento, “bruciando” un concept sull’ambientalismo nel momento in cui il mondo è ben distratto da altro e dei ghiacciai che si sciolgono non interessa a nessuno.
Annunciato da una copertina orribile e con quasi un’ora di musica, il nuovo Gigaton non lascia presagire nulla di buono.
E invece.
Invece il “gigante” si muove dentro e fuori la comfort-zone dei Pearl Jam incurante di quanti li criticheranno per non essere più gli stessi e di quanti li criticheranno per il motivo esattamente opposto. Non ci sono le grandi novità preannunciate dal singolo Dance of the Clairvoyants, che resta un episodio isolato (fatta salva la preghiera springsteeniana di River Cross che lo chiude come una persiana che si abbassa sul mondo, lasciandoci prigionieri della nostra stessa effimera libertà) all’interno di una scaletta che è fortemente impregnata del suono che ben conosciamo e che è tornato ad una brillantezza che sarà difficile accettare ai detrattori per professione, pronti ad indossare il monocolo e ad analizzare la purezza di ogni singola pietruzza, cacando più merda di quella che respirano e sentendosi legittimati a sparare a zero, avendo cartucce e fiato da sprecare.
Gigaton suona invece, oltre che enorme, consolatorio.
È come se per un attimo, in questi giorni di reclusione, aprissimo la porta per fare entrare qualcuno di cui conosciamo pregi e difetti. E in questa accettazione degli uni e degli altri ritrovassimo la nostra capacità di assorbire affetti che ci possono essere strappati e la volontà di riprendere dal cestino della nostra vita i fogli accartocciati per ridare vita nuova a loro e a noi. Ecco allora che Who Ever Said, Never Destination, Superblood Wolfmoon, Take the Long Way, Alright, Comes then Goes arrivano per carezzarci o schiaffeggiarci la faccia.
Per dirci che possiamo provare gli effetti benefici della pet-therapy anche coccolando la coda di Godzilla.
E che nessuna corazza ci renderà immuni dal disastro, ma ci imprigionerà dentro le nostre paure e le nostre ansie fino a che il guscio sarà vuoto.
Discutibile, come sempre, già dalla copertina, Dark Matter ribadisce una sola, grande verità: i Pearl Jam hanno fatto solo tre album veramente belli, tutti nella prima metà degli anni Novanta. Tutto il resto, da trent’anni a questa parte, è un tentativo disperato di sopravvivere a sé stessi. Infilando di tanto in tanto un pezzo giusto ma mai un album “a tenuta stagna” come erano stati Ten, Vs. e Vitalogy.
Il risultato più clamoroso ed imprevedibile è stato però che, alla luce dei dischi successivi, in molti si sono sentiti di abbracciare la fertile fede del revisionismo (la stessa che ha avvelenato le sorti di band come Smashing Pumpkins, R.E.M., U2 e, se Cobain non si fosse sparato in bocca, avrebbe contagiato pure i Nirvana, potete starne certi, NdLYS) e rivalutare in negativo anche quelli, che invece erano e rimangono dei dischi di grande valore e con molte cose da dire. Da No Code in poi invece è come se le luci si fossero spente, proprio mentre si accendevano i riflettori delle grandi arene.
Dei Pearl Jam è rimasto poco più che un guscio vuoto, un barattolo che ogni tanto risuona come quello del brano di Gianni Meccia.
Sono, in fin dei conti, la cover band dei Pearl Jam.
Canzoni che sono rimasticature infinite di quanto già scritto, fatto, detto e suonato da decenni.
Roba da campionario.
Loro, dei piazzisti.
Franco “Lys” Dimauro