IDOL LIPS – Scene Repulisti (Nerdsound)

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Non si può conoscere tutto, e infatti gli Idol Lips non li conoscevo.

Però di copertine con brutti musi incorniciati da occhiali neri e cravattino d’ordinanza ne ho pieni gli scaffali e ho scoperto che non sempre c’è da fidarsi.

Perché anche in campo tutte le squadre scendono in divisa ma non tutte offrono un bello spettacolo, soprattutto se vengono dalla zona promozione.

Dopo diciottomila e passa dischi posso permettermi il lusso di non fidarmi insomma. E infatti non mi fido.

Ma se una band decide di inviarmi un disco, il minimo è ripagarli con un ascolto, magari distratto. Così dopo qualche giorno, tra una minchiata qualsiasi della Warner, un deprimente James Blake, una ristampa Sundazed e qualche discreto dischetto garage punk, infiocino Scene Repulisti e lo infilo tra le grandi labbra del mio stereo. Non sborro subito, perché ormai ho appreso le strategie tantriche e, come Sting, scopo con la stessa partecipazione dei consiglieri comunali durante le sedute consiliari del dopo cena. Però il piacere arriva uguale.

Scene Repulisti odora di lacche, solventi, colla e aerosol e riecheggia di vecchi concerti al Marquee e allo CBGB‘s. Sleazy rock ‘n’ roll dai jeans attillati con tutte le figure votive che il genere impone, da Johnny Thunders a Stiv Bators, da James Williamson a Rik L. Rik, da Jeff Dahl ad Euroboy, da Sylvain Sylvain a Johnny Ramone sistemate al posto giusto a macinare power chords con le chitarre appoggiate al ginocchio destro. È questo l’immaginario decadente dentro cui si muove la musica degli Idol Lips, una genuflessione al Dio del rock ‘n’ roll perdente, ma con la testa china che nasconde una linguaccia da teppistelli.

Quanto al resto, non c’è bisogno che ripuliate la scena.

C’è sempre meno gente che sporca, in questa Italia dove i vecchietti fanno la differenziata e l’ecomafia i grandi affari.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro  

idol lips - scene repulisti

HIPBONE SLIM AND THE KNEETREMBLERS – Square Guitar (Dirty Water)

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La “chitarra quadrata” è, ovviamente, quella di Bo Diddley.

Ed è quella che suona sul pezzo omonimo e su quell’altro omaggio alla giungla nera di Mr. Bo di Why Ain’t Bo on My TV?. Square Guitar completa dunque la trasformazione di Hipbone Slim in Mr. Bald Diddley anche se non è detto sia finita.

Il terzetto di stanza a Londra è una retro-band assolutamente credibile e capace. Una di quelle che nessun amante del più classico rock ‘n’ roll anni ’50 dovrebbe ignorare soprattutto chi da qualche anno si sporca la bocca parlando di rockabilly e non riesce ad andare oltre agli Stray Cats.

Qui c’è tutto quello che c’è da sapere sul rock ‘n’ roll delle origini: Bo Diddley, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Dale Hawkins, Sonny Burgess, Charlie Feathers, Eddie Cochran, Link Wray, Dick Dale. Sembra di tornare indietro alla British Invasion di Downliners Sect, Manfred Mann, Pretty Things, Animals, Yardbirds e Rolling Stones quando ogni accordo, ogni frase ritmica, ogni smorfia era una storpia boccaccia rubata ai dischi dei maestri.  

The world ain‘t round, it’s square!!!                                                      

                                                                          Franco “Lys” Dimauro

DR. DRE – 2001 (Aftermath)

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Suonato dalla prima all’ultima nota come uno di quei dischi funk con cui AnDRE Romelle Young è cresciuto ancora prima del dottorato, 2001 è il disco destinato a trasportare la salma del gangsta-rap oltre la soglia del nuovo secolo.

Dr. Dre “l’Osservatore” assembla il suo secondo progetto riunendo il meglio dei musicisti e dei rapper che il suo fiuto gli indica. Lui sovraintende il lavoro e lo marchia con lo sperma del re, ma sono gli altri, la manovalanza pregiata, i ghostwriters, a fare tutto il resto e a fare di 2001 il degnissimo successore dell’ormai vecchio The Chronic. Spiaccicato sul lunotto di questa decapottabile che passa col suo puzzo funk è tutto l’universo conosciuto del gangsta-rap, ovvero il western urbano degli anni ‘80. Pistole e puttane, auto di lusso, rivendicazioni d’appartenenza e cazzim’ e tutto quel vocabolario di scurrilità che tracimano nel porno di Pause 4 Porno e che il Parental Advisory fatica a coprire tanto che la Aftermath è costretta, pur di “raggiungere” il pubblico di giovanissimi che rappresentano il target prescelto, a correre ai ripari pubblicando una versione “censurata” dove ogni parolaccia viene brutalmente cancellata dalla traccia audio, trasformando le barre in una sorta di annaspante conversazione telefonica in assenza parziale di campo (Pause 4 Porno diventa, ovviamente, uno strumentale, NdLYS). Nella sua forma originale però 2001 è un’autentica bomba di stile, calibrata sin nel più piccolo particolare, nel più infinitesimale interstizio di suono, un lavoro elegantissimo con pezzi come What’s the Difference, The Watcher, Still D.R.E., Forgot About Dre, Murder Ink, Big Ego’s che sono abiti perfetti per il corpo nudo dell’hip-hop di fine decennio tanto quanto avrebbero potuto esserli per quello di dieci anni prima o di dieci anni dopo. Perché Dr. Dre non ha apparentemente nessun altro talento se non il più grande di tutti: riuscire a coordinare tutti i talenti altrui in un’unica, grande opera d’arte.      

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE GALILEO 7 – Are We Having Fun Yet? (Teen Sound)

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Nessuno potrà mai saperlo ma credo che se gli Oasis fossero stati ossessionati dai Who invece che dai Beatles, probabilmente avrebbero suonato così.

O in maniera molto, molto simile.

Galileo 7 sono la nuova band guidata dall’infaticabile Allan Crockford.

Prego aprire alla lettera C il libro sulla storia della musica neo-mod inglese.

Al suo fianco c’è Paul Moss, pregiatissimo session-man e tutor del quattro corde che recentemente ha suonato pure sul fantastico disco di Groovy Uncle (sempre accanto ad Allan, NdLYS).

Viv Bonsels è l’organista chiamata a indossare le vesti che già furono di Fay Hallam nei Prime Movers, altra vecchia misconosciuta band di Allan.  

Russ Baxter, alla batteria, è un’altra vecchia volpe del “giro” avendo prestato pelli e bacchette, tra gli altri, a Secret Affair e Phaze.

Suggestionati dal titolo e dalla caratura dei personaggi coinvolti si insinua il sospetto si tratti di un’operazione con tanto stile e poca voglia di divertirsi.

Insomma, una cosa messa su per sistemare un po’ le finanze dissestate degli autori.

Ascoltando il disco, il dubbio rimane. Nel senso che tra tutti i dischi pubblicati da Allan questo Are We Having Fun Yet? è quello dove l’appeal melodico ha la meglio sull’irruenza e l’energia. In realtà si tratta solo dell’affinamento di un senso della melodia che Allan ha elaborato sui suoi decennali ascolti dei dischi di Who (Never Go Back, Running Through Our Hands), Kinks (Some Big Boys Did It), Pink Floyd (Feet on the Ground) e Buzzcocks (Go Home) e che ora trova una forma che, svincolata dalla “prigionia” dei Prisoners così come dalle urgenti e focose fiorettate punk degli Stabilisers, si avvicina a quella modellata dalle band che proprio al suono dei Prisoners si rifecero durante gli anni Novanta.

Canzoni morbidamente psichedeliche come Orangery Lane o The Sandman Turns Away gettano dunque un ponte tra il giardino delle meraviglie freakbeat inglese adornato dai petali di Creation e Tomorrow e il brit-pop della generazione successiva, facendo salva la lezione di band come Sun Dial o Ride mentre pezzi come la title track, Something Else o The Best Way Is Our Way nella loro immediatezza pop potrebbero davvero garantire alla band inglese un po’ di visibilità fuori dai circuiti carbonari in cui verranno relegati, soprattutto fuori dai patri confini.  

Resta un po’ il sapore di lacca, che non aiuta a fugare del tutto i dubbi se il divertimento sia artificiale o meno.

Lo scopriremo nel prossimo episodio del Galileo 7, se ce ne sarà dato modo.                                                    

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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FARIÑA – Three People (Pickled Egg)

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Dolcissimi Fariña.

Col cuore immerso nel pop agrodolce di Pet Sounds, con le loro caramelle pop docili e discrete. Ricche di gingilli e chincaglieria assortita (ascoltate la minisinfonia elettronica di Confession TV), immerse nel pop dei tardi sessanta ma anche in certa pregiata pasticceria inglese degli eighties (certi Pale Fountains ma soprattutto molta eco di Julian Cope, NdLYS). Dopo i 7” targati Pickled Egg e Bad Jazz le “tre persone” del gruppo inglese giungono a questo album di dodici tracce che è un campionario di suprema arte dell’ arrangiamento pop.

Quadretti che Belle & Sebastian stentano a dipingere, simili in parte a certe miniature degli Arab Strap. Morbidi, semplici e discreti senza mai inzupparsi nello zucchero o nel miele.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

IGGY AND THE STOOGES – Metallic KO (Skydog)

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È fatto ormai noto, ma vale la pena ripeterlo: se c’è un album che può documentare gli eccessi tossici del rock ‘n’ roll senza sprofondare nel travestitismo splatter del rev. Manson o nel gossip mediatico di un Pete Doherty qualunque ma mostrando invece con crudo raccapriccio il ciglio del baratro eroinomane, beh, signori miei, questo album è Metallic KO, ovvero la registrazione cruda e crudele dell’ultimo gig degli Stooges, il 9 febbraio del 1974.

Un disco che scardina ogni classico e vetusto criterio di perizia critica e si impone per ciò che è: un abbacinante documento di una delle più furiose e vere discese agli inferi da parte di una rock ‘n’ roll band. Un disco dove la morte, quella stessa morte irragionevole e mutilante passata cinque anni prima per Altamont, incombe come un avvoltoio. Tutto il resto, scaletta e qualità di registrazione comprese, non conta. Questo per dire che il suono di Metallic KO e di tutte le sue successive ristampe, pur se rimasterizzate e “accelerate” (correggendo il master originale inquinato da un vizio di forma dovuto al registratore usato per catturare il gig, NdLYS), resta quella merda che era. Sono certo che anche tra i più sciatti indie-nerd ne circola qualche copia magari scaricata dalla rete solo per puro “completismo” e non è comunque a loro che mi rivolgo: Metallic KO resta la diapositiva più estrema della più grande r ‘n’ r band che sia mai passata sulla Terra.

              Franco “Lys” Dimauro

 

 

SOUL COUGHING – Ruby Vroom (Slash)    

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Nel 1993 la Slash si trova orfana di una delle band più eccentriche del suo catalogo, ovvero i Violent Femmes. La necessità di rimpiazzarli si concretizza mettendo sotto contratto un gruppo di New York dal suono scriteriato e pazzoide chiamato Soul Coughing.

Che col suono del gruppo di Milwaukee ha poco a che spartire se non che Ruby Vroom ha la stessa genialità trasversale e busker del debutto di quel terzetto lì.

A dialogare, qui, ci sono un contrabbasso, una batteria jazz e un sampler. Macchinette infernali che permettono a Mike Doughty di poter cantare su un campione di Toots & The Maytals, di Howlin’ Wolf o Raymond Scott, su una linea di basso rubata a Thelonious Monk, su una rullata marocchina o su una segreteria telefonica. Anzi, due.

Una dedicata all’amore casalingo.

L’altra, all’amore a pagamento.

Osando pure profanare il tempio dei Fugazi. 

È la versione bianca ed intellettuale del Jazzmatazz di Guru.

Quella meno pappona e pulp del soul grasso dei Fun Lovin’ Criminals che uscirà fuori dalle fogne della stessa città solo qualche mese dopo.

O ancora, quella più giocherellone e stranita del jazz depresso degli Spain che pioverà dalla California l’anno successivo.

Un disco cannibale che si nutre di cose poco ordinarie per metterne su una altrettanto straordinaria.

Genio e sregolatezza, dentro Ruby Vroom.

Disco che ha il coraggio di sfidare l’onda di reflusso del grunge e quella d’urto del punk mettendo sul tavolo gli alambicchi del piccolo alchimista.

Unendo davvero tutti, o quasi tutti. Come le belle donne.

Finendo per essere desiderati da tutti. Come le belle donne.

Da Jeff Buckley a Dave Matthews.

Da Roni Size ai Violent Femmes stessi.

Dai cornicioni del Palace Theatre, i Soul Coughing cagano sulle teste dei passanti.

Come piccioni dispettosi.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro  

 

PAVEMENT – Crooked Rain, Crooked Rain (Matador)  

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E così, nel 1994, i Pavement si giocano il Loollapalooza.

Colpevoli di aver tirato merda sul bel faccino di Billy Corgan, una mezz’oretta dopo che il lettore ha ingoiato il loro secondo album.

Ma gli Smashing Pumpkins vendono molto di più, all’epoca. E incidono per la Virgin. Quindi, sono loro a dettare le regole.

Billy si segna le parole di Range Life nella sua agenda e promette vendetta. 

E la ottiene.

Crooked Rain, Crooked Rain viene ricordato per questo.

Oltre al fatto di contenere la prima canzone dei Pavement che è possibile cantare: Cut Your Hair (operazione replicabile con la bellissima Unfair, scartavetrando ulteriormente le corde vocali).

È il 1994, e i Pavement si consacrano, umidi di pioggia, come la band indie definitiva di quella stagione.

A dispetto di canzoni che sembrano potersi polverizzare da un momento all’altro, sembrano destinati a durare per sempre.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

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THE RED HOT CHILI PEPPERS – One Hot Minute (Warner Bros.)  

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All’alba del primo trionfale Lollapalooza, i Jane’s Addiction si sciolgono, sputandosi in faccia.

Le dita capaci di Dave Navarro diventano subito tra le più contese fra le altre due band fondamentali della scena di Los Angeles, entrambe bisognose di trovare un sostituto ai dimissionari Izzy Stradlin (Guns N’ Roses) e John Frusciante (Red Hot Chili Peppers). Sono questi ultimi ad avere la meglio, portando Navarro davanti alla barba di Rick Rubin per il sequel del plurimilionario Blood Sugar Sex Magik e costringendo i fan degli Addiction all’attesa per il risultato.

Che arriva nei negozi nel settembre del 1995 col titolo di One Hot Minute.

Nel mezzo, tra “quello” e “questo”, sono successe tante cose.

Blood Sugar Sex Magik ha venduto un botto e i RHCP sono diventati la band più “calda” della West Coast.

Ma il successo non ha curato le ferite personali del gruppo.

Kiedis è ripiombato nella sua tossicodipendenza, Flea ha visto naufragare il suo matrimonio tra le onde del Pacifico e Frusciante è infelice di vivere lo stress di un successo che ha travolto l’assetto della band e trasformato l’allegra ciurma in un gruppo di tristi Pierrot.

Nel frattempo, lontano ma non abbastanza dal gruppo, River Phoenix e Kurt Cobain lasciano volare le loro anime come palloncini d’elio. Per sempre.

Al primo e al secondo dedicheranno due delle migliori ballate del disco: Transeeding e Tearjerker.

Per questo, e non solo per questo, rispetto al suo predecessore (e nonostante certe arrabbiate scorribande di funky-metal siano tra le migliori del canzoniere dei RHCP), One Hot Minute è attraversato da una cupezza che lo rende un capitolo a sè nella lunga discografia della formazione americana.

Come se l’alchimia fra i tre peperoncini rossi e Navarro non si fosse mai realizzata compiutamente, nonostante il disco funzioni alla perfezione.

Forse, addirittura, più dell’ingombrante BSSM, con una sottile e fosca ombra psichedelica che si allunga su alcune delle tracce (la più bella nella conclusiva Transeeding, la più eterea e sinistra nell’introduzione di Deep Kick, la più drogata nel finale dello stesso brano, la più hendrixiana nell’ultra-funk di One Big Mob, la più turbinosa nell’inaugurale Warped) e che fa apparire la musica dei RHCP più cedevole alle emozioni di quanto non sia mai stata in passato e di quanto non lo sarà mai in futuro.

 

Franco “Lys” Dimauro