JAPAN – Oil on Canvas (Virgin)

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Oil on Canvas, registrato dal vivo all’Hammersmith Apollo nel novembre del 1982 durante l’ultima esibizione della loro carriera, è nella pratica una versione live di Tin Drum con l’aggiunta di qualche episodio dei due dischi precedenti (Nightporter, Swing, Quiet Life, Gentlemen Take Polaroids) e tre brevi tracce strumentali di ispirazione etnica (il gamelan per Voices Raised in Welcome, Hands Held in Prayer), ambient (Oil on Canvas) o tutt’e due le cose assieme (Temple of Dawn).

Dal punto di vista storiografico si tratta però del momento in cui il synth-pop inglese raggiunge la sua legittimazione artistica e in cui viene costruito il suo unico, altissimo, mausoleo. Non più folle urlanti di ragazzini ma quasi un religioso silenzio ne ratifica la sua elevazione dal più basso grado di musica di consumo a quello più alto di art-pop. Il suo salto di qualità coincide dunque con l’ultimo tuffo dei Japan, già con un corpo parzialmente mutato (Rob Dean viene ora sostituito da Masami Tsuchiya) ma uno spirito ancora integro, per preservare il quale la band deciderà di mettere il sigillo dorato alla sua carriera. Bruciando l’edificio. Per l’ultima volta.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE B-52’S – Whammy! (Warner Bros.)

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Hey! Sono Fred, vengo dal New Jersey e sono del Cancro. Mi piace collezionare dischi ed esplorare grotte sconosciute.

Ciao, io sono Cindy, sono dei Pesci e adoro i chihuahua e gli spaghetti cinesi.

Ciao! Mi chiamo Ricky e sono un Pesci, mi piacciono i computer e gli involtini messicani.

Hey! Sono Kate e sono del Toro, adoro i pomodori e le cinciallegre.

Hey! Mi chiamo Keith, sono Scorpione e vengo da Athens e mi piace cercare l’essenza intima delle cose.

L’equipaggio del B-52 si presenta così all’appuntamento col terzo album, quello che dopo lo “stringente” Mesopotamia che li aveva visti un po’ troppo assoggettati al gusto di Byrne torna al loro consueto e brillante pop retro-futurista, ora sempre più indirizzato verso l’uso di suoni sintetici e drum-machines, assoluti protagonisti di Whammy Kiss (fredda come una lapide dei Devo), Butterbean (dove tornano gli influssi dei Wall of Voodoo) e lo strumentale da flipper che chiude il disco oppure fusi assieme al loro consueto armamentario sul resto del disco che regala almeno due capolavori assoluti come Song for a Future Generation e la yoruba di Big Bird (che, e non solo per l’ennesimo contributo di Ralph Carney al sassofono, si riallaccia all’ethno dell’E.P. precedente ma con una freschezza ed esuberanza ben più tangibile) e si garantisce l’heavy rotation su MTV con Legal Tender.

Sono gli ultimi salti di gioia, per loro e per noi.

Poi, il bombardiere inizia la sua inesorabile picchiata.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

E.T. EXPLORE ME – Drug Me (Voodoo Rhythm)

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Un “ACE Tone Compact Drum’n’Bass Psych Punk LSD Massacre”. Così recita la cartella stampa della Voodoo Rhythm presentando il terzo album degli olandesi E.T. Explore Me, esposto ancora più dei due precedenti verso il synth-pop tanto da arrivare a strizzare l’occhio alla disco. Mutante, alternativa, eterodossa, avant-funk, androide, ludica, retro-futurista, chiamatela come volete, ma il terzetto viaggia ora decisamente (anche se non in senso assoluto) verso quella direzione, con risultati altalenanti e memori del Tiefcombinatorische postulato da Shumann: un pezzo come Punch, per esempio, è una roba pazzescamente glamour col suo piglio alla Fall che potrebbe fare impallidire i tanti loro epigoni che da qualche anno inflazionano il mercato. Ark, che lo segue, è invece una sorta di esperimento alla Air un po’ troppo fine a sé stesso. Più avanti Radiate si configura invece come uno spasmo post mortem dei Suicide che non può non provocare un sussulto di piacevole diletto, così come la successiva 98% che invece liofilizza i Girls Vs. Boys o, quasi in chiusura, la Lipstic Vibrators che riesuma i dEUS dei primi, bellissimi dischi. Pezzi come Imperia o J sembrano, di contro, assecondare la propensione per la musica “d’ambientazione” senza in realtà portarci da nessuna parte.

Il gusto schizofrenico, del resto, è sempre stata una caratteristica degli E.T. Explore Me, ribadito in uno dei caroselli più funambolici e dissacranti degli ultimi anni. Il che, fa parte del divertimento malsano cui ci chiamano a partecipare. E noi, accorriamo ancora una volta.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE HUMAN LEAGUE – Reproduction (Virgin)

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Ambientato nel 2462, StarForce fu il primo grande gioco di società ad essere “ambientato” nello spazio, oltre che nel futuro. Lo scontro vedeva schierata l’Human League contro le forze della Pan-Human Hegemony. Questo immaginario conflittuale proiettato in un remoto futuro dove anche la razza umana è stata rifondata sui canoni delle nuove tecnologie, questo misto di aspettativa e di sfiducia nel futuro è ciò che anima il progetto Human League al crepuscolo degli anni Settanta. Rifiutando l’idea di un ritorno al passato propagandata dal punk, la formazione di Sheffield ambisce a creare un ponte con quel futuro che hanno intravisto nei dischi dei Kraftwerk e di Giorgio Moroder e fra le pagine di Philip K. Dick e Ballard, affidandosi totalmente all’elettronica, tanto da “firmare” il primo singolo con un lapalissiano “…electronically yours”.

Rispetto alla radicale proposta dei concittadini Cabaret Voltaire, gli Human League mostrano una propensione all’”adattamento” alla forma-canzone, pur senza rispettarne ancora le regole basilari. Quello di Reproduction è dunque più un “progetto” sonoro, un manifesto di intenzioni, l’esposizione di tecniche che poi evolveranno nelle musiche di Dare! e degli Heaven 17, quando il synth-pop incontrerà i gusti di un pubblico che, all’epoca dell’esordio degli Human League non esiste ancora: i loro concerti sono frequentati dagli skinhead e la band sarà costretta a riparare i sintetizzatori ed essa stessa con dei pannelli di vetro e Reproduction venderà talmente poco da costringere la Virgin a cancellare l’intero tour promozionale. Quel che oggi appare inevitabilmente datato era, in quel 1979, una delle avanguardie possibili.

Il mio cane ancora oggi rizza le orecchie come le antenne di un Moog quando partono i suoni sintetici di Almost Medieval e The Word Before Last. Chissà se percepisce il futuro o il passato.

O se, più verosimilmente, è curioso del presente.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JOHN FOXX – Metamatic (Virgin)

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Il sogno di John Foxx di fare degli Ultravox una band all’avanguardia nella gestione dei suoni elettronici era naufragato miseramente scontrandosi con la volontà del resto del gruppo di diventare una rock band. Curiosamente, sia i reduci della vecchia formazione che l’ex-leader giungeranno invece al medesimo risultato una volta scisse le loro strade, realizzando separatamente Vienna e Metamatic, totalmente inghiottiti da quella sorta di buco nero che era diventato il Blitz Club di Steve Strange e che dal Covent Garden, attraverso un buco spazio-temporale, ti portava nel cuore delle Mitteleuropa.

Il biondo Foxx con Metamatic aveva battuto sul tempo gli ex-compagni, pur partendo entrambi dall’elaborazione comune di pezzi come Touch and Go e He’s a Liquid. Roba di qualche mese, ma era bastato per farsi trovare ancora nella top 75 al momento che Vienna viene portato dai distributori ai negozi di dischi. Un disco dove il lato emozionale, quello che Foxx aveva tentato di soffocare in seno alla band, viene totalmente rimosso lasciando spazio ad un suono robotico e “matematico”, figlio diretto dei Kraftwerk e freddo come quell’amore sferzato dal vento dell’Est e tagliato in due da un muro del Bowie di “Heroes”.

Metamatic sembra portare a parziale e formale compimento le teorie evoluzionistiche dell’uomo-macchina di The Man-Machine delineando i tratti dell’”A New Kind of Man” imprigionato in mille diapositive come un ologramma proveniente da una dimensione destinata al cut-off.

John Foxx presta il suo volto al passaggio dall’uomo analogico all’uomo digitale.

                                                                                             Franco “Lys” Dimauro

ULTRAVOX – Vienna (Chrysalis)

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Con l’abbandono di John Foxx e di Robin Simon e il reclutamento di Midge Ure dei Visage gli Ultravox precipitano nel baratro di una leziosità snob che tenta di simulare l’alterità del synth-pop germanico sposandolo all’eleganza new-romantic e alla decadenza neo-esistenziale tutta britannica sottolineata magistralmente dal bianco/nero fulminante di Anton Corbjim. L’album che ne deriva, Vienna o Torque Point che dir si voglia, è un disco altezzoso e presuntuoso sin dalle prime battute, affidate ad una lunga pippa strumentale intitolata Astradyne che tenta l’abbordaggio al synth-pop sinfonico. Mr. X, sulla seconda facciata, fa anche peggio. Ma lo fa leggermente più in fretta, anche se sono sei minuti e mezzo di interminabili scarti dei Kraftwerk.

Il pezzo nodale del lavoro è tuttavia uno dei più gelidi spaccati di tutto il synth-pop inglese: si intitola Vienna ed ha lo stesso soffio gelido dell’Eno degli anni Settanta, l’uomo che aveva fondato la new-wave quando la new-wave non esisteva ancora ed è una sorta di trasposizione dell’Heroes di Bowie nell’altrettanto gelida notte viennese. La batteria, filtrata attraverso una gigantesca macchina Roland, sembra evocare un immaginario di esplosioni lontane come di uno scontro a fuoco che fa da sottofondo al languido fluire dei sintetizzatori, paurosamente simili a quelli usati dai Scott Walker l’anno precedente per la sua The Electrician. Noiosa come i titoli di coda di un film ma in qualche modo iconica, Vienna è il letto del Danubio che separa la vecchia città degli Ultravox da quella nuova che dominerà la vallata del pop inglese per qualche anno.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

OSEES – Intercepted Message (In the Red)

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Gli Osees cambiano ancora pelle, anche se sulle loro copertine non c’è più un solo brandello di epidermide.

Dopo le sferragliate hardcore di A Foul Form il nuovo Intercepted Message si avventura fondamentalmente in un’opera di fermentazione del synth-pop dei Devo e dell’avant-funk, legittimata da tanto di cover di The Fish Needs a Bike ricopiata dall’originale dei Blurt.

Quello che ci si para innanzi è un mondo di go-kart giocattolo che infilano le gallerie sculettando e che quando si lanciano nei rettilinei di Goon o Sleazoid Psycho riescono ancora ad alzare l’asfalto.

La coccia di morto, a fine corsa, sono saltati un paio di incisivi.

                                                                                                                Franco “Lys” Dimauro 

TUBEWAY ARMY – Replicas (Beggars Banquet)

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Alla fine degli anni Settanta a Londra nessuno manovrava quelle nuove diavolerie meglio e prima dei Tubeway Army.

Se ne era reso conto anche Billy Currie, forse l’unico pioniere dell’area londinese di quel sibilo sintetico importato da Giappone e Germania che proprio dopo l’avventura degli Ultravox era finito per gravitare intorno ai progetti di Gary Numan, avviati praticamente già in concomitanza con l’uscita di Replicas, non a torto considerato di fatto il suo primo album in proprio, pur non essendolo nella pratica. Forse, addirittura, già il secondo, considerato che anche il debutto dell’anno precedente era nei fatti suo per scrittura e scelte artistiche.

Il suo “imprinting” su Replicas è però ancora più marcato ed evidente, tanto che anche Paul Gardiner alla fine si renderà conto che l’”idea” di band che avevano sviluppato assieme ai tempi dei Lasers era nei fatti artisticamente crollata. Gary Numan e i Tubeway Army sono già l’evidenza distopica di un mondo dominato dalle macchine e dell’artista messo al loro servizio. Lo spazio per il virtuosismo, simbolo pirotecnico dell’afflato umano, è ridotto a zero: tutto si svolge in funzione delle meccaniche programmate, della struttura minimale e della reiterazione, anche quando i sintetizzatori tacciono e la chitarra riprende il ruolo che le è stato rubato (come in You Are in My Vision) ma che per riconquistarlo è obbligata a riadattarsi negli spazi esigui di un ingranaggio, di una ruota dentata ma complessivamente, è il suono robotico a dilagare lungo tutto il disco, in una gelida sfilata di canzoni che riadattano il suono dei Kraftwerk all’immaginario post-moderno e decadente di Brian Eno e David Bowie.

Gary Numan è l’uomo-fiammifero che non conosce il sorriso e sconosce il dolore. Londra diventa una replica di Gotham.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PASSAGE – Pindrop (Object Music)

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Basso (suonato da Tony Friel, primo dimissionario della lunga lista di ex dei Fall), batteria e tastiere gelide come quelle dei Joy Division. Di Manchester anch’essi, i Passage si fanno strada mettendo in scena un pallore analogo a quello dei loro concittadini approdando nel 1980 al loro primo album quando la band si è di fatto già disintegrata e il nome The Passage viene usato dal solo Richard Witts per registrare in autonomia Pindrop, che è un po’ come il riverbero del synth-pop di Gary Numan dentro una tanica metallica o come una sorta di Kraftwerk in confezione da 100gr, pronti per il banco frigo delle famiglie inglesi con in testa una Fear che si presenta già come un vasetto di yogurt con dentro Trans Europa Express a mo’ di spicchi di amarena.

Evirato dal tono tormentato tipico dei Joy Division e da quel contegno quasi soldatesco, il suono dei Passage ne rappresenta una deviante alternativa meno opprimente in cui l’identità da rock band viene completamente dissolta da quello che suona come un algido ancorché cupo esperimento da studio in cui le stranianti atmosfere di Prelude, Watching Your Dance, A Certain Way to Go, Locust o Anderton’s Hall allungano lunghissime ombre color cobalto sul sentiero del pop sintetico anglosassone.           

 

                                                                                           Franco “Lys” Dimauro

WIRE – The Ideal Copy (Mute)

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Una copia, si. E neppure ideale. Ma degli Human League.

Dopo un lungo silenzio i Wire si ripresentano al mondo con una pelle tutta nuova e tutta sintetica, in ritardo anche sui tempi moderni visto che il synth-pop ha già stufato pubblico e musicisti e formazioni come ABC, Human League, New Order e Depeche Mode sono già tornati a rivalutare le chitarre e il suono caldo della strumentazione analogica. The Ideal Copy è dunque un disco che non solo fa a pezzi il mito dei Wire ma che sovverte l’idea stessa alla base della band che era quella in qualche modo di anticipare i tempi e non di accodarsi ad essi. Non è chiaro, dunque, a quali esigenze The Ideal Copy si pieghi o risponda ma di fatto non lascia quasi impronte, mentre avanza. Fatto salvo per l’apocalittica Feed Me che è forse l’ultima trincea del dark-sound, scavata peraltro da chi con quel tipo di post-punk non aveva mai avuto nulla a che fare. Il resto è new-wave patinata, addirittura compiacente e ammiccante, come se i Wire avessero deciso di togliere definitivamente il filo spinato che cingeva il loro perimetro espressivo e adesso si sentissero felici di poter pascolare nei campi seminati da altri e trattenessero l’intestino per non sporcare quei pascoli.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro