FRANCO BATTIATO – Il nibbio dell’Etna

0

Esempio tangibile del saṃsāra di dottrina induista, Battiato nasce e rinasce artisticamente infinite volte. Quando arriva al mondo sottoforma di feto traslucido è in realtà al suo secondo ciclo di rinascita artistica. Il primo si è consumato tra canzonette sentimentali, dischi per le belle estati degli anni Sessanta, qualche delusione sanremese senza che il mondo si accorga di lui e un passaggio da cometa tra le stelle neppure troppo vivide degli Osage Tribe.

Il nuovo ciclo terreno, quello dei primi anni Settanta, viene concepito e portato a gravidanza compiuta grazie ad una serie di piccole e grandi rivoluzioni personali che spingono l’embrione Battiato in un dedalo di trasmutazioni di carattere mistico e religiose da un lato e di scoperte e studi sull’elettronica applicata alla musica dall’altra. L’incontro con Gianni Sassi, pubblicitario e grafico strabordante, avrebbe fatto il resto. È lui ad immortalare il feto raggomitolato su carta paglia che tanto scandalizzerà i rivenditori di dischi che furono costretti a rigirare il disco di retro per non incappare in guai con gli organi preposti al controllo sulla censura e non alimentare disgusto tra i pochi acquirenti.   

Fetus catapulta Battiato dentro un pozzo di avanguardia aliena e concettuale ancora acerba e “deturpata” da molte ingenuità vocali, da testi astrusi declinati, nella sua versione per il mercato estero, in un inglese incerto e formule matematiche (che invece non verranno tradotte). Un disco creato insomma per alienarsi quelle già poche simpatie riservate all’artista siciliano sia nella terra natìa che nella Milano dabbene che lo ha accolto malvolentieri ma che ovviamente lancia chiari segnali di appartenenza a quel mondo mitteleuropeo che vigila sulle scorribande elettroniche di band come Tangerine Dream e Amon Düül, trovando cova accogliente nel ventre della musica cosmica tedesca.  

 

Bologna.

Dall’8 al 14 ottobre del 1972 sull’asfalto di Piazza Santo Stefano si consuma l’ennesima stramberia di Gianni Sassi. Il progetto si chiama «Pollution » e prevede “una pavimentazione del centro storico di Bologna e venticinque modi di gestire una natura mutante: ventitre artisti e due gruppi musicali.”. Uno di questi sono i Battiato Pollution, venuti a chiudere i sette giorni dell’installazione con la loro esibizione sulle diecimila piastrelle di ceramica. Della formazione fanno parte, oltre a Battiato, Roberto Cacciapaglia, Aldous Tedesca, Gianni Mocchetti e Gianfranco D’Adda. È il momento in cui la sperimentazione del musicista catanese incontra le teorie del Movimento Fluxus importate in Italia da Daniela Palazzoli (la storica dell’arte che curerà anche il libro-documentario dell’evento) in un’esplosione creativa imprevedibile che si consuma in concerti-happening dove tutto può succedere, anche che Battiato frantumi pubblicamente una croce di legno per simboleggiare la liberazione e lo schiodamento dai tabù culturali e religiosi, suscitando lo sdegno delle frange più ortodosse del pubblico. Non necessariamente il suo. Che quando c’è da sdegnarsi è facile radunare folle impensabili. È il momento più violento e spiazzante della carriera di Battiato, incuneato in un’immagine che viene recepita da qualcuno come quella di genio estremista e sregolato, da altri come quella di un impostore modaiolo (e assieme ai due ideatori del progetto bolognese accusato di mascherare dietro la scusa dell’ecologismo, finanziamenti trasversali alle industrie ceramiche dell’Iris e di chissà quante aziende).

Pollution è il disco manifesto di questa fase storica e che utilizza, enfatizzandole, le immagini e le tematiche dell’installazione ambientalista voluta da Albergoni e Sassi. Il sintetizzatore è l’altare posto al centro della chiesa di Battiato, l’imbuto dentro cui l’officiante etneo butta brandelli di biologia, retorica, medicina, scienza idraulica, musica concreta, memorie classiche, poemi sinfonici, citazioni letterarie che defluiscono in un disperato e angoscioso pianto a dirotto finale. L’intenzione è di creare sconcerto e sgomento. A partire come sempre dalla copertina, come era stato per Fetus. E applicando le regole del situazionismo per trarne vantaggio, ad esempio inviando ai giornalisti che avevano recensito il disco precedente in maniera sommaria e sotto il condizionamento psicologico della foto-shock di presentazione la sola copertina. Che tanto non avrebbero comunque ascoltato il disco.

Anche questo era un modo per inquinare di meno, dopotutto.

 

Sulle corde di Aries segna l’ennesima rinascita (guarda caso, la costellazione dell’Ariete cui allude il titolo e sotto la cui luce diafana era nato il musicista catanese quasi trent’anni prima astrologicamente sta a simboleggiare proprio il rinnovarsi della vita dopo i letarghi invernali) di Battiato dopo la fase causticamente sperimentale dei primi due album. Una rinascita che ha del prodigioso. Sulle corde di Aries è il disco-crisalide del Battiato anni Settanta, un immenso vivaio di cristallo dove i boccioli elettronici di Fetus e Pollution giungono alla compiuta fioritura.

Gli studi sulle modulazioni vocali, sulle spazializzazioni musicali operate da Cage e Stockhausen, sulla musica etnica e sul minimalismo colto di Philip Glass e Steve Reich in cui Battiato si immerge negli ultimi giorni di permanenza nella capitale lombarda mutano efficacemente lo scenario avanguardista un po’ naif dei due album precedenti in un disco strabiliante, caleidoscopico, fatato sviluppato su quattro movimenti che vanno dai cinque minuti di Aria di rivoluzione in cui nascono ufficialmente i C.S.I. ai quasi diciassette che occupano l’intera prima facciata sotto il lapalissiano titolo di Sequenze e frequenze. L’elettronica, rinunciando in parte al rigore snob dei lavori precedenti, diventa una foresta di orb luminescenti dentro cui fluttuano percussioni arabe, sassofoni jazz, clarinetti e violoncelli saltati fuori dalla finestra socchiusa di una piccola orchestra da camera da cui passano spifferi di calda aria mediterranea che trasportano la polvere dei ricordi.  

Il piccolo mondo antico si trasforma in una sacca schiumosa di mercurio fuso.

 

L’ultimo disco su cui Battiato fa sfoggio del suo VCS3 (di cui in Italia fu, assieme a Piero Umiliani, un autentico pioniere) fu “Clic”, ovvero il disco con cui per un breve periodo potemmo orgogliosamente dire agli inglesi che, se loro avevano i Pink Floyd, noi…be’, si, noi avevamo Battiato. Che detto oggi sembra quasi un’eresia o al massimo una barzelletta. Ma che allora, mettendo a confronto un pezzo come Propiedad Prohibida con uno a caso del loro Obscured by Clouds, non suonava affatto come tale.

“Clic” è uno dei più esoterici dischi di Battiato. Il lavoro con cui il musicista siciliano riflette, come colpito da un sonar attivo, l’eco dei suoni lanciati dal suo mentore Stockhausen. Per nulla cedevole al compromesso e, anzi, inorridito e disgustato dalla distratta benevolenza con cui i giovani si lasciano incantare da musiche prive di ogni anelito di caos culturale Battiato elabora un lavoro dal fascino cupo, onirico e permeato da uno spirito errabondo e solitario. Un buco nero che inghiotte il mondo moderno e lo risputa in una dimensione parallela, aliena, spirituale. Disciolto, polverizzato nell’etere universale come lievito madre dentro un impasto di acqua e farina. “Clic”, con le sue autobahn di sintetizzatori, le piazzole di sosta illuminate dai neon, i suoi pianoforti che gocciolano come rubinetti nei bagni degli autogrill, le sue onde radio destinate a perdersi, a sovrapporsi, ad annientarsi l’un l’altra, è la fotografia di un mondo che avrebbe potuto sacrificare alla curiosità l’ultimo suo brandello di imene e che invece non lo ha fatto.  

 

Prima di cominciare a studiare concretamente musica e composizione e di prendere commiato dalla Sicilia, Battiato si concede un ultimo sfizio: suonare l’organo della cattedrale di Monreale.

La concessione del custode della struttura alla supplica del musicista catanese dura meno di mezz’ora e il risultato sono le registrazioni, effettuate in totale solitudine, delle due tracce che occupano M.elle le «Gladiator», per l’altra metà è occupato da un cut-up di voci, registrazioni, rumori, sibili che ricorda i messaggi in codice trasmese dalle number stations della Prima Guerra Mondiale intitolato Goûtez et comparez e in realtà destinato originariamente (solo come titolo, visto che il contenuto era invece un serrato dialogo in dialetto fra alcune donne sicule) ad un disco dal titolo provvisorio Chi Chi Ri Chi alla fine abortito. Aperti da quelli che sembrano semplici esercizi di accordatura, i sei minuti di Canto fermo vagano su una forma destrutturata di componimento che si placa negli ultimi due minuti per riaccendersi subito dopo con le modulazioni di Orient Effects che sono in realtà puro esercizio più onanistico che organistico di chi ha finalmente potuto toccare l’oggetto dei suoi desideri. Che spesso non coincidono con i nostri.  

 

“Cos’è questa grandissima rottura di coglioni?”

“È Franco Battiato”

“Quello di Bandiera Bianca?????”

“Si, proprio lui”.

A lungo, negli anni Ottanta, si dovette giustificare in qualche modo il fatto di aver comprato un disco che recava il nome di Battiato (“quello di Bandiera Bianca”) in copertina e di essersi imbattuti invece in una sòla colossale.

Era un disco pubblicato nel 1977, l’anno in cui le chitarre esplodevano ovunque come granate.

Battiato invece pubblicava sul disco omonimo una cosa come Za: diciannove minuti di pizzicotti sui nostri nervi, una galleria fotografica infinita di scatti tutti uguali, posizionati tutti alla stessa distanza e alla stessa altezza, poi leggermente distanziati ed impercettibilmente asimmetrici rispetto alla linea di partenza ma in ogni caso sequenziali fino alla follia.

In realtà è un accordo di pianoforte.

Ma potrebbe essere qualsiasi cosa buona per percuotere, non necessariamente suonata da Battiato.

Ad essere evocato è dunque il ritorno alla forma unicellulare già celebrata da Fetus. In maniera ancora più esasperata e delirante.

Cafè-Table-Musik è invece un collage di schizzi estemporanei e razionalmente inadatti a starsi accanto e invece costretti a convivere. Recitativi, polifonie, canto lirico, voci dialettali, annunci di venditori ambulanti, bastonate sinistre, miagolii di gatti e una distesa pianistica stavolta dal sapore tardo-romantico che, nonostante la ripetitività, offre ristoro dal turbamento dai venti minuti dell’altra facciata del disco.

Ancora irriverente, ancora provocatore, Battiato si muove ancora negli abissi tramando di fare capolino per impaurire i turisti.    

 

Il disco rinnegato da Battiato nasce come disco “su commissione”. È la RAI difatti a chiedere a Battiato delle composizioni per accompagnare le immagini di uno sceneggiato dedicato alla vita del Brunelleschi. Quando il disco viene pubblicato però Battiato e la Ricordi non sanno ancora che la produzione RAI ha bocciato il lavoro del musicista siciliano, tanto che il disco viene pubblicato indicando in copertina che si tratta di una colonna sonora.

Vero, ma solo a metà.

Il titolo però si, quello è fuorviante davvero. Nessun juke box installato sul nostro pianeta potrebbe infatti mai avere in pancia un solo frammento delle sei canzoni che compongono Juke Box, disco ostico e sperimentale che la RAI cestina e che lo stesso Battiato, in seguito al rifiuto, ripudierà. Violini (uno dei quali “manovrato” da Giusto Pio, un altro dal suo allievo Battiato) e pianoforte sono gli strumenti principi, mentre il canto è affidato ad una soprano (Alide Maria Salvetta) capace di affrontare altezze vertiginose e al timbro estremamente plebeo di Juri Camisasca. Un disco sperimentale e disturbante anche se è lecito pensare che il disappunto mostrato dal suo autore nel riconoscerne la paternità sia dovuto più al rifiuto dell’opera da parte dei commissionanti che al valore del disco, visto che l’album continua nella vena incomprensibile dei suoi lavori di poco antecedenti, tanto da riuscire in qualche occasione a svuotare intere platee radunatesi per ascoltare la sua “musica”.

Hiver, Su scale, Telegrafi, Martyre Celeste sono composizioni innaturali e aliene per orecchie che trovano ristoro solo nell’oasi mistica di Agnus, che verrà in parte riciclata da Battiato per costruire Stranizza d’amuri.

Il resto sono spine e chiodi.

Come se Battiato ci costringesse al nostro calvario.     

 

L’estraniamento autoinflittosi da Battiato raggiunge il suo apice con L’Egitto prima delle sabbie, lavoro comprensibile solo per chi ha raggiunto o brama di raggiungere quell’equilibrio introspettivo che lo stesso autore sta inseguendo ormai da qualche anno. Siamo all’ultimo approdo dell’autocompiacimento, prima della svolta epocale de L’era del cinghiale bianco e del grande successo di massa.

L’Egitto prima delle sabbie è infatti un compiaciuto omaggio all’isolamento. Non è un disco “condivisibile” in alcuna forma, in alcun modo. Non lo è nella progettazione e non lo è nella sua fruizione. Le due lunghe composizioni (ma in realtà si tratta della frammentazione e della replica più o meno casuali di forme elementari di segmenti pianistici reiterati ad libitum), vale la pena dirlo, quando falliscono nel tentativo di far vibrare come un diapason le corde emozionali dell’ascoltatore diventano di una noia imbarazzante.

E questo fallimento, nella musica colta, è sempre uno dei pericoli da tenere in conto. La simbiosi emotiva può diventare, oltre che un obiettivo, un limite.

Lo è sicuramente per L’Egitto prima delle sabbie, così come lo era per i due dischi precedenti. Ed è una dimensione che il musicista siciliano, spinto dalla frequentazione con Gaber e dalla fisicità ed empatia degli spettacoli dell’artista milanese sente di dover abbandonare per trovare un altro livello di comprensibilità, meno astrusa, meno enigmatica almeno sotto il profilo musicale. Dopo aver fatto tabula rosa di orchestranti, musicisti e finanche della musica stessa, per Battiato arriva il momento di cavalcare lo stallone ammaestrato della musica di consumo.   

         

Il passaggio dal Battiato avanguardista a quello popolare è identificabile storicamente con la firma in calce al contratto EMI. Contratto inaugurato con il primo disco pop del musicista siciliano. È il 1979 e Battiato fa tabula rasa dei suoi esperimenti con la musica concreta, le escrescenze craute, l’avanguardia, i pastiche di rumore, i flirt con Stockhausen e Cage per darsi in pasto alla folla.

L’era del cinghiale bianco è un disco che si concede come una prostituta, con suoni orecchiabili e arrangiamenti che incontrano il gusto del grande pubblico con una sorprendente e apparentemente accidentale congiunzione temporale (il violino di Giusto Pio che svolazza sulla title track anticipa di un anno buono lo strepitoso successo del Rondò Veneziano, NdLYS).

Dal punto di vista lirico, è con questo disco che sboccia il vocabolario filosofico e mistico semiserio e provocatorio tipico del Battiato degli anni Ottanta, l’ascetismo snob e le immagini paradossali e stravaganti che coniugano la mistica con l’iconografia pop (come dimenticare la frase “…e giorni di digiuno e di silenzio per fare i cori nelle messe, tipo Amanda Lear” su Magic Shop?) utilizzate per fare un’analisi feroce dell’etica comportamentale dell’età moderna.

Citazioni e riferimenti colti e popolari fusi assieme per attivare la soglia percettiva dell’ascoltatore e invitare alla curiosità e alla scoperta attraverso l’adescamento melodico accattivante e persuasivo.

Ecco così apparire immagini, personaggi e simbolismi esoterici (il cinghiale bianco legato alla tradizione sacra dei Celti, le dottrine di René Guénon), abbondanti richiami etnici e geografici (le danze sufi, i mercanti indiani, gli alberghi di Tunisi, i treni dell’Albania) e, di contro, la critica pungente alla futilità e alla mercificazione che dominano l’età contemporanea scaraventata attraverso le diapositive che scorrono lungo tutto il viaggio (“nelle metro giapponesi, oggi, macchine d’ossigeno”, “Supermercati coi reparti sacri che vendono gli incensi di Dior”, “studenti di Damasco, vestiti tutti uguali”, “vuoi vedere che l’Età dell’Oro era appena l’ombra di Wall Street?” e l’impareggiabile monito “il giorno della fine, non ti servirà l’Inglese“) e che paiono buttate un po’ a casaccio e ne rappresentano invece l’ anima vera, la mossa usata per mettere sotto scacco le certezze volubili e falsamente consolatorie del nostro tempo.

Musicalmente c’è, soprattutto nella prima parte dell’album, la scelta di aderire ai canoni estetici della musica pop che si affaccia agli anni di plastica del decennio ormai alle porte con l’uso di sintetizzatori, della chitarra graffiante di Alberto Radius e della batteria pulsante in primo piano ma non mancano gli spazi riservati all’introspezione e ai richiami alla musica da camera come nello strumentale Luna indiana, nella melodia per piano, oboe e canto latino di Pasqua etiope, e nella conclusiva Stranizza d’amuri, canzone d’amore che evoca immagini insolite (i carrettieri che fanno i loro bisogni lungo la strada) e nasconde strabilianti finezze di dizione armonico/dialettale (“‘a litturina da Circum’Etnea, i saggi ginnici, ‘u Nabuccu, ‘a scola sta finennu” è uno dei pochi autentici virtuosismi lessicali concessi da Battiato lungo la sua carriera).

Pochi ne capiranno il senso, fermandosi a guardare il dito anziché la luna dando ragione a Confucio piuttosto che a Guénon.  

 

Avvicinarsi al genere umano pur disprezzandolo, sacrificare la vita ascetica per farsi carne pop. Dopo le scelte estreme degli anni Settanta, per il nuovo decennio Battiato cambia, addirittura inverte, la sua strategia artistica.

Per questa sorta di incarnazione Battiato sceglie un luogo imprecisato che si trova al crocevia fra l’Asia minore e la Mitteleuropa. L’Anatolia, probabilmente. O una zona della penisola ellenica. Un balcone affacciato sul Mediterraneo coloniale che conserva e preserva però l’austerità asburgica. Una tribuna austera e appartata da cui Battiato si affaccia come un gran visir per giudicare l’uomo comune e lanciare invettive su politici e cantanti, profetizzando l’era del cinghiale bianco. Su quei luoghi torneranno, sulle tracce del profeta e alla ricerca di analoga ispirazione, molti adepti di quella che sarà la “nuova onda” italiana.

Patriots è il disco chiamato a rivendicare questo suo ruolo, dopo l’annunciazione del lavoro precedente. L’album destinato a setacciare la penisola alla ricerca di fedeli, credenti, devoti, apostoli. Parlando in parabole e citazioni (Proust, Leopardi, Carducci, i Nomadi, Calasso, i Beach Boys, ‘o sole mio e cento altre) in una bilancia di equilibrismo fra l’estremamente colto e l’estremamente popolare, affinché i prescelti capiscano di essere tali essendo riusciti a riconoscere qualche pesce dall’enorme messe ittica tirata su dalla rete del profeta. Patriots è dunque disco intellettuale e volgare assieme, atto di riappacificazione forzata con le masse, snodo cruciale del Battiato che sceglie il compromesso schifandosene nel momento stesso in cui abiura dalla sua naturale propensione all’emancipazione dalla follia terrena, specchio con cui il musicista si mette faccia a faccia con quel mondo da cui si è escluso e da cui spesso si è visto escludere, cercando di individuare quale sia la sagoma, la fisionomia del mostro.     

In questo senso Patriots è disco volutamente enigmatico e bivalente sin dalla bellissima, imperturbabile chiamata alle armi che lo inaugura. Up Patriots to Arms è canzone sibillina che insinua dubbi, punta il dito, avanza capi di imputazione e gioca sull’ambiguità: quando il musicista siciliano prende le distanze dalla “musica contemporanea” a quale si riferisce? A quella colta di Stockhausen di cui egli stesso è stato allievo e profeta o a quella pop del nuovo corso in cui anche lui si è tuffato? Difficile capirlo, anche perché in entrambi i casi Battiato ne ha percorso o ne sta percorrendo le strade, per quanto divergenti. Stessi dubbi insinua la frase “noi siamo delle lucciole”, altro termine ambivalente che potrebbe significare che “noi siamo l’avanguardia artistica, la luce da seguire” oppure molto più verosimilmente potrebbe voler dire, come aveva dichiarato il Pop Group solo pochi mesi prima, “noi siamo le prostitute” ovvero noi ci vendiamo. Un Battiato che si dichiara antimoderno e autarchico, che prende le distanze dai “fumi e raggi laser” tipiche delle scenografie di quegli anni proprio nel momento in cui approda nelle televisioni nazionalpopolari, immolandosi allo stesso scempio da cui si tira fuori. Proclamando altresì la caccia alle streghe a discapito di quei “direttori artistici” e “addetti alla cultura”, ruoli che più avanti negli anni si troverà a ricoprire, in aggiunta a quello di assessore nella giunta regionale di Crocetta.

Un’ambiguità che si riflette anche sul piano musicale, scegliendo la via modaiola e superficiale di un synth-pop ma dall’aria aristocratica. Come ad imbrattare di merda il monumento della musica colta ma dall’altezza di uno sparviero, non da quella del culo di un piccione.

L’intero album, l’intera “trilogia delle palme” di cui fa parte, offre una via ricercata alla volgarità degli anni Ottanta cui abbiamo appena offerto il primo tappo di spumante. Si fa custode del tempo e della memoria in una visione pop quasi warholiana e butta in pasto agli ascoltatori nomi, città, poesie, titoli di canzoni, lingue, slogan e citazioni. Lo fa anche Rino Gaetano, in quel periodo, ma Battiato lo fa senza sorrisi e con un distacco che se non è ancora ascetico è però già plasmato da un’austerità che incute soggezione e che allo stesso tempo viene di colpo spezzata, disarmata da improvvisi squarci aperti sulla patetica ovvietà dell’ordinario, ritratti impassibili e impietosi dell’”animale più stupido che c’è” che presto tornerà a menar vanto della sua miseria e del suo squallore ai piedi della Bandiera bianca, ovvero la resa dei patrioti sconfitti protagonisti di questo capolavoro di arte “contemporanea”.  

 

Eccolo, il disco con cui, dopo un decennio di sperimentazione iconoclasta e ascetica e dopo essersi timidamente affacciato alla balaustra della musica leggera con un ermetismo da esteta misantropo e asociale, Battiato si concede totalmente al pubblico regalandogli un disco di pop antropofago di un’immediatezza schiacciante. Il disco con cui, commercialmente, l’artista siciliano si prende la sua rivincita. Ed è una rivincita paralizzante che fa tabula rasa di tutti i cantautori che hanno monopolizzato le classifiche di vendita italiane degli anni Settanta, forti di un consenso popolare che a lui era stato prima negato e che poi aveva egli stesso ripudiato, chiudendosi a riccio dentro dischi impenetrabili come M.elle le «Gladiator» o L’Egitto prima delle sabbie e di cui adesso si prende l’intera porzione, lasciando gli altri a raccogliere le briciole dal suo piatto.

La voce del padrone è un disco dalla luce pop abbagliante. Perfetto per sintesi e sintassi. Capace di ergersi a vessillo di una qualche sorta di musica elevata mentre mesce nella melma della cultura popolare più kitsch in un elenco citazionista ma non didascalico dei suoi luoghi comuni più gretti. Un abile e ruffiano gioco di specchi in cui Battiato afferma la sua identità e il suo spregio per la cultura dominante così come da quella propugnata come sua alternativa (da Vivaldi ad Omero, dalla new-wave alle canzoni per l’estate, dai Beatles a Dylan, da Mina ad Alan Sorrenti, dall’uso dei cori da parata militare a quello del megafono fino allo “sfruttamento” dei canoni estetici narcotizzanti del tormentone) immergendovisi però totalmente. Battiato è abilissimo a muovere le tessere del suo puzzle ma è soprattutto nella furbizia del consegnarle a noi ed illuderci ad essere noi a completare questo mosaico che si gioca la sua partita vincente. Anche quando ci parla di cose lontane nello spazio e nel tempo, ce le porge con disinvoltura elegante ma allo stesso tempo carica di attenzione, invitandoci a fare altrettanto. Come quando vai a prendere un thè dagli amici e te lo versano in una pregiatissima porcellana giapponese del diciottesimo secolo.

Non c’è una sola canzone che non sia strutturalmente costruita ad arte per irretire il pubblico.

Non una sola canzone che non sia passata dai solchi di un disco alle pagine della storia della nostra musica popolare, stazionando ancora stabilmente fra i dischi più amati e più venduti della canzone italiana.

È il 1981. E, dopo aver vinto Sanremo con una canzone affidata ad Alice, con le vendite de La voce del padrone, Battiato si paga le vacanze più belle della sua vita. Per quell’estate e per tutte le estati che verranno.

L’equipaggio chiamato a varare e a gestire il viaggio sul L’arca di Noè è lo stesso che si nascondeva dentro il ventre cavo di quel cavallo di Troia de La voce del padrone, guerrieri che portano i nomi di Alberto Radius, Giusto Pio, Filippo Destrieri e l’intero reggimento dei Madrigalisti di Milano. La scommessa è grande e già persa in partenza: bissare il successo del disco precedente.

Il pericolo di naufragio è altissimo e infatti l’arca si incaglia.

Dignitosamente, ma si incaglia.

E si incaglia perché invece che evitare i pericoli che già emergevano come punte di iceberg kitsch nel mare pop de La voce del padrone facendone un capolavoro di sovrastrutture neoclassiche, ha l’ardire di andarci incontro e farsene beffe. Ecco dunque delle autentiche mareggiate di sintetizzatori e tastiere elettroniche e degli eccessi operistici che rischiano in entrambi i casi di far sbandare la nave, sovraccaricando le paratie del buongusto (Clamori, La torre, New Frontiers).

Il rischio è di “affondare” nella mediocrità da cui Battiato stesso vuole fuggire e verso cui punta sovente il suo dito ammonitore ed inquisitore, di sprofondare nella spaccatura ancora insanabile tra i limiti umani e le ambizioni spirituali che affliggono l’autore al pari di ogni altro essere umano, anche da quello da cui sente di dover prendere le distanze, di prendersi troppo sul serio bruciando quell’equilibrio tra pop-art e surrealismo che era diventata la sua carta vincente.

L’unico album di Battiato realizzato esclusivamente con l’ausilio di tastiere elettroniche, sequencer, sintetizzatori, batteria programmata e violino elettrico con gli alambicchi tecnologici da studio, tanto da relegarlo ad un mero prodotto da studio di registrazione, tenendolo al riparo dalle folle scroscianti dei concerti. Figlio esclusivo del suo tempo, Orizzonti perduti flette dunque verso un’algida rappresentazione dei tre dischi precedenti e si allinea al synth-pop d’oltremanica, quello di Freur e Orchestral Manoeuvres in the Dark soprattutto, senza grandi sussulti pur senza lesinare ottimi brani come Campane tibetane, Tramonto occidentale e La stagione dell’amore ma mostrando anche degli abiti incredibilmente kitsch che su La musica è stanca rasentano il cattivo gusto dei Righeira e dell’italo-disco. E alla fatta, dei conti, che duri appena mezz’ora è il maggiore dei suoi pregi.        

 

Ormai definitivamente in orbita (ma con rischio di caduta) fra sublime e nazional-popolare, Franco Battiato pubblica in rapida successione al brutto Orizzonti perduti l’altrettanto orribile Mondi lontanissimi completato in fretta con le canzoni scritte per Alice e Giuni Russo e riaprendo le porte ad Alberto Radius (che dal canto suo continua ad aprire quelle del suo studio all’amico siciliano, NdLYS) e illuminato dalla bellezza abbagliante di No Time No Space. Il suono del nuovo lavoro è vanamente sontuoso e rivela a tratti la taciuta ambizione di Battiato di proporsi come un Vangelis tricolore. La difficoltà a trovare la quadra fra le nuove tecnologie e la vocazione ascetica dell’autore, oltre che manifesta a livello sonoro, viene pubblicamente rivelata su Personal Computer, di gran lunga la traccia peggiore del disco. L’ultimo, definitivo abbaglio synth-pop è Chan-son Egocentrique, con i sintetizzatori di Filippo Destrieri a sostituire quello che nella versione originale di quattro anni prima era l’onnipresente sassofono di Claudio Pascoli (da Lucio Battisti a Rettore, da Roberto Vecchioni a Gianna Nannini, da Eugenio Finardi a Ivan Cattaneo, da Ivan Graziani alla P.F.M., da Lucio Fabbri a Faust’O, da Alberto Radius a Massimo Bubola, da Zucchero a Loredana Bertè, da Fabio Concato a Nino D’Angelo, da Fiorella Mannoia ad Edoardo Bennato se avete in casa un disco italiano uscito dalla seconda metà degli anni Settanta in avanti, ci troverete lui, NdLYS), come per grattare via l’ultimo respiro analogico.

Gli anni Ottanta, QUEGLI anni Ottanta, per Battiato finiscono qui. Fortunatamente.

 

Parallelamente alla realizzazione di dischi per soddisfare le masse, Battiato lavora alacremente a un’opera per realizzare il proprio ego. Realizzata nell’arco di quasi cinque anni, Genesi arriva al pubblico nel 1987, portata in scena e messa su disco come “opera in tre atti”. I riferimenti più diretti sono il Maestro Gurdjieff, la danza mistica dei sufi, il ballo roteante dei dervisci e dell’intero Creato che ne ispirano pure la spirale stilizzata usata per la copertina ma dentro Genesi confluiscono, come un grande imbuto, gli studi da autodidatta di Battiato in relazione alla musica classica, alle partiture orchestrali, agli scritti sanscriti, turchi e persiani e la ricerca nel campo dell’elettronica, della musica concreta e del minimalismo. Non un accostamento di elementi ma un contenitore mistico dove ogni particella vive e vibra in armonia con le altre, unendo culture e dimensioni diverse.

In realtà, diversamente da quanto il titolo potrebbe far pensare, non è un lavoro sulla creazione del mondo ma sulla “seconda opportunità” concessa all’uomo, sulla benevolenza di Dio (o degli Dei, per meglio dire) che concede di far rifiorire le sue creature predilette dal buon seme (come gli ottantotto musicisti elencati su Albinoni, Albeniz, Bach, ecc.). Incernierato a tanta magnificenza troviamo il Battiato sperimentale dei primissimi lavori discografici, teatrali e performativi, quello di “Clic”, di M.elle le «Gladiator», de L’Egitto prima delle sabbie, di Baby Sitter, di Juke Box con i loro suoni catturati da radio e tv, i rumori e le dissonanze, gli stralunati interventi parlati, gli elenchi di nomi, i flash mnemonici e onomatopeici, ovviamente “sepolti” adesso sotto la cupola di una grandeur da opera lirico/sinfonica che, più che la “genesi” ci racconta il compimento assoluto della prima lunga fase del musicista (adesso eletto a furor di popolo “Maestro”) siciliano.  

 

Un giovanissimo Franco Battiato con un naso ancora “regolare” ci accoglie alla nuova incursione nella musica pop dell’artista catanese.

Battiato è l’uomo dalle mille evoluzioni.

Fisiognomica è disco speculare a L’era del cinghiale bianco, come quello uno snodo verso la forma-canzone dopo anni di sperimentazioni e di dischi colti, il momento in cui Battiato riscopre il valore del Verbo inteso come parola, come momento di riflessione narrata, collettiva e popolare, comprensibile a tutti.

A saldare idealmente gli otto anni che separano i due atti discografici e a sottolineare questa volontà di abbassare l’asticella del linguaggio aulico o esoterico una nuova incursione nel dialetto, linguaggio plebeo per antonomasia. Dopo Stranizza d’amuri, tocca a Veni l’autunnu riallacciare i legami, peraltro profondissimi, con la propria terra e le proprie origini. Fisiognomica tuttavia galleggia dentro una placenta di una diversa consapevolezza, in uno slancio più maturo e sereno verso l’amore, specchio terreno dell’Amore divino, luce suprema che tutto illumina e del cui chiarore anche la nostra fisionomia subisce le ombre. Musicalmente invece il disco si trascina dietro, e fortemente, l’esperienza di Genesi, il tuffo nella musica sinfonica e operistica che Battiato sperimenterà ancora sugli album successivi. Un’eco che si avverte lungo tutto il disco e che giunge a compimento nelle conclusive Il mito dell’amore e L’oceano di silenzio, elaborate sinfonie fluttuanti che cercano di evocare su pentagramma le esperienze extracorporee dell’arte zen e di dare ad ogni nota un respiro che sia in tutto e per tutto simile a quello dell’universo. Che ha anch’esso una sua fisionomia, che tuttavia non riusciamo a cogliere.     

 

Nell’estate del 1991 un uomo barbuto entra negli Abbey Road Studios assieme ai suoi musicisti più fidati, al pianista Antonio Ballista e ad un’intera orchestra, per uscirne con uno dei dischi più ispirati della sua carriera. Un disco illuminato dall’alto, da una qualche ispirazione divina.

Disco bifronte, Come un cammello in una grondaia presenta sulla prima facciata quattro fra le più belle canzoni di tutta la carriera di Battiato, dall’ode al disgusto di Povera patria alla preghiera struggente de L’ombra della luce attraverso cui Battiato si arrampica come su una pertica attraverso quella “linea verticale” che, come canterà anni dopo su Inneres Auge, ci spinge verso la spiritualità, passando all’omaggio a Gurdjieff de Le sacre sinfonie del tempo, ampia e maestosa quanto una cattedrale sino alla meravigliosa title-track aperta da un accogliente giro di piano che lentamente si lascia travolgere da un impeto tutto eleganza viennese e romanticherie ascendenti, mentre sul secondo lato quattro omaggi a Brahms, Beethoven, Martini il Tedesco e Wagner, magnificenze da teatro rinascimentale che tuttavia allentano anzi sfaldano del tutto la tensione emotiva della prima parte dell’opera, facendo di quello che è il testamento spirituale dell’artista siciliano un testamento a metà.     

 

Gli studi Real World sono sinonimo di meticciato. E così è, il disco chiamato a fare da ponte con Fisiognomica dopo aver fatto tabula rasa della strumentazione elettrica con l’album precedente.

Diviso fra solennità pop e richiami etnici, “Caffè de la Paix” è storicamente il disco con la peggior copertina mai inciso da Franco Battiato eppure piacevolissimo all’ascolto a cominciare dalla circolarità tutta derviscia della title-track già giù fino al minimalismo intimista di Haiku attraverso un lungo viaggio fra giardini pensili, deserti nord-africani, paesaggi indiani, laghi salati, cespugli odorosi di gelsomi e mercati mediorientali di spezie pungenti.   

Sui giardini della preesistenza è il pezzo che incardina il disco precedente al nuovo, castello di arie sinfoniche che abbassano i ponti levatoi per lasciare entrare basso e batteria. 

L’ode a Dio, ormai appuntamento immancabile nella sua produzione, si intitola stavolta Lode all’inviolato ed è tutta ammantata di violini che sembrano voli di rondini prima di venire assaltata dalla classica strumentazione elettrica che è tornata prepotente a bussare alla porta. Musicalmente e tematicamente “Caffè de la Paix” è un abuso del Battiato-pensiero (il quale, dal canto suo, avendo ormai completato il dibuja un piraka sulla crosta visibile del pianeta, finisce adesso per riscoprire Atlantide, NdLYS) esaltato dalla ricchezza di risorse degli studi di Peter Gabriel, con almeno un capolavoro nascosto tra le sue sabbie, un’elegia per metà in lingua latina e per metà in idioma italiano (con poche, eleganti righe scritte da Angelo Arioli) che celebra la caduta di Cartagine ad opera dei Romani e intitolata Delenda Carthago, immensa su tutte le altre che tuttavia rappresentano uno dei più elevati e vasti altipiani delle terre di Battiato, il Conquistatore.  

 

L’abbagliante cromatismo di “Caffè de la Paix” si spegne in un severo grigio su L’ombrello e la macchina da cucire, prima notte di nozze dello sposalizio con Manlio Sgalambro che ricorda l’altro matrimonio chiacchierato della musica leggera italiana, ovvero quello di Battisti con Panella celebrato dieci anni prima e che aveva allontanato il cantante di Poggio Bustone dai falò rischiando di farci finire dentro i suoi dischi. 

Un rischio che corre anche Franco Battiato, lasciando penetrare nel caveau della sua poetica già straboccante tutto l’ermetismo e il simbolismo di cui si nutre la dialettica del filosofo di Lentini. Stimolato dal confronto, Franco Battiato torna a sperimentare sui tasti d’avorio facendone lo strumento chiave del lavoro e concentrandosi su un lavoro certosino sulla “disposizione panoramica” e sull’elaborata architettura dei cori e degli incastri vocali che rappresentano il vero asso nella manica del disco (Moto browniano, Gesualdo da Venosa, L’esistenza di Dio, L’ombrello e la macchina da cucire, Breve invito a rinviare il suicidio, Tao). Che è Battiato all’ennesima potenza, aulico e feroce, appartato dal mondo eppure completamente immerso in esso.   

 

La rivalutazione dell’opera di Battiato avviata con il disco-tributo Battiato non Battiato fortemente voluto dall’amico Francesco Virlinzi con artisti come C.S.I., La Crus, Flor de Mal, Disciplinatha, Lula, Nada, Carmen Consoli alle prese con il suo repertorio spinge il musicista siciliano ad un risoluto ritorno all’elettricità e alla musica pop dopo la trilogia ermetica di Come un cammello in una grondaia, “Caffè de la Paix” e L’ombrello e la macchina da cucire.

L’imboscata equivale per gli anni Novanta a quello che L’era del cinghiale bianco era stato alla soglia degli anni Ottanta, con un parziale “adeguamento” della forma-canzone al gusto popolare, senza svilirne i significati e senza rinunciare a quella giungla di citazioni che sono curve goniometriche che toccano la filosofia e l’etica neo-classica, la saggezza popolare, i vaghi ricordi scolastici di cultura umanistica e l’iconografia moderna che rappresentano la pop-art di Battiato nella sua magnificenza.

Sottili anche i richiami al patrimonio cantautoriale italiano (una “linea” di Rimmel nell’inciso di Ecco com’è che va il mondo, un filo di Amarsi un po’ ad aprire Serial Killer) che tuttavia vengono colti solo da una piccolissima fetta di pubblico, distratta dalla grandeur de La cura, che diventa la canzone per antonomasia di Battiato e che, nella sua ode alla creazione e nel simbolismo dei fiori di loto, delle aquile e del mare viene invece scambiata per una banale canzoncina d’amore, è il classico esempio del dito che indica la Luna e di milioni di fessi che guardano il dito. Ma chi è in cerca da sempre del suo “Battiato preferito” qui potrà scegliere anche fra Strani giorni, Di passaggio, Amata solitudine, Ecco com’è che va il mondo o nella mia preferita che è quella piccola radura appartata di Segunda-Feira. Battiato apre la sua coda di pavone. E ognuno gli tira via una piuma, credendo sia stata dischiusa per lui o per lei soltanto.

 

La volontà di riadattare il proprio stile per renderlo nuovamente attuale si concretizza del tutto con Gommalacca, grazie anche alle preziose mani di Morgan e Madaski che non solo contribuiscono a dare un tocco di modernità all’insieme ma educano Battiato, da sempre professatosi pigro in tal senso, all’ascolto di tutta una serie di album contemporanei. I ritocchi in sede di “progettazione sonora” permettono alla squadra di alterare voce e suoni, di innestare elementi di disturbo, coloriture elettroniche, di lavorare sulle dinamiche delle parti vocali e strumentali in maniera esplosiva, di dare rotondità e profondità ai suoni in maniera magistrale, assaltando alla gola come negli incisi fenomenali de Il ballo del potere e Shock in My Town o, subito appresso a questa, negli scoppiettanti suoni d’artificio di Auto da fé. In realtà quello dei suoni à la page è forse l’unico vero pregio di un disco globalmente abbastanza trascurabile sotto il profilo della scrittura, con l’effetto sorpresa che lentamente scema verso ampie paludi di noia.

“Sentinella, sentinella, che vedi?”  

“Una catastrofe psicocosmica

Contro le mura del tempo.”

 

Nel 1999 Battiato mette ad asciugare sul velluto alcuni classici della canzone con cui è cresciuto, ovvero fondamentalmente le struggenti malinconie del cantautorato francese e italiano con una deviazione verso quella Ruby Tuesday già citata ai tempi di Cuccuruccucù e al tradizionale partenopeo Era de maggio. Accostati a queste, in un esercizio di “scrittura affine” (ma l’inquietante Le voci si faranno presenze per la quale mai fu meglio usato il termine “ghost track”, in realtà completamente difforme, NdLYS), tre inediti della coppia Battiato/Sgalambro. Come in un concerto di musica da camera, si viene spesso soffocati dagli stucchi e strangolati dai papillon e FLEURs imprigionana Battiato in un romanticismo estenuante e un po’ snob che ci fa rimpiangere le cadute nel vuoto dai grattacieli urbani di Gommalacca.  

 

Dell’austerità esibita in copertina Feяяo Bдttuto ha in realtà poco e niente. Si tratta di uno dei dischi peggiori della discografia di Battiato, inconcludente e poco definito, con irritanti interventi esterni di Jim Kerr, ormai da tempo siciliano d’adozione, e Natacha Atlas che, come i gatti, cercano di arrampicarsi in qualche modo su brani con pochissimi appigli, scivolosi come una lastra di specchio. Un album che si trascina per i tre quarti d’ora che sono i tempi minimi da garantire nell’era del compact disc, senza nessun brivido e nessun passaggio memorabile, investendo sull’ormai premiata ditta Battiato/Sgalambro senza più regalare una canzone da mandare a memoria, fatta forse eccezione per qualche barra di Bist du bei mir e Sarcofagia, giusto per giustificare ai genitori o al coniuge di aver sprecato i soldi per comprare un Battiato di Serie B.    

Nel 2002 la nuova etichetta pretende da Battiato un nuovo disco di cover, un po’ per leccarsi le ferite dal flop radiofonico degli estratti da Feяяo Bдttuto, un po’ perché i classici sono come il vestito nero, che vada come vada non sbagli mai, soprattutto se sei ad un funerale. Ed è un po’ questo il caso: Flεurs³ sembra un disco dei più tardi, stucchevoli e barbosi La Crus e sprofonda i piedi in alcuni classicissimi come Il cielo in una stanza, Impressioni di settembre, Insieme a te non ci sto più, Ritornerai e quella Perduto amore che prenderà in prestito per dare il titolo al suo primo lungometraggio. Inciampando, prendendo alcune storte alle caviglie e franandoci addosso, fra i gioielli di famiglia.

Un disco vanaglorioso e francamente inutile.

Finto come un amplesso simulato.

Un vaso di fiori di plastica.

Elevato a tre.

                                                                      

Con Dieci stratagemmi Battiato riacciuffa la bellezza sprecata sui dischi più recenti.

Lo fa con un disco di “lacrime e arcobaleni”. Un disco che non eccede nell’autoindulgenza che era emersa in FLEURs ne’ nella ricerca di novità a tutti i costi degli ultimi due dischi di materiale autoctono, maestoso ma allo stesso tempo consapevole della caducità inevitabile delle cose e delle persone, altèro come nella danza samurai di Le aquile non volano a stormi ma pure ben disposto all’ironia pungente (Ermeneutica) e con un’inclinazione al pop alla Max Gazzè, tangibile in Odore di polvere da sparo che però porta la firma di Maurizio Arcieri, nonostante un preludio di apocalisse imminente come La porta dello spavento supremo che ci mette in guardia dal prossimo saṃsāra. L’elettronica di 23 coppie di cromosomi ed Apparenza e realtà è stavolta affidata ai Krisma e sono i pezzi meno a fuoco del disco o semplicemente quelli più fuori posto e dimostrano la perseveranza del Battiato 4.0 nel voler a tutti i costi realizzare album poco omogenei dal punto di vista stilistico, rinunciando quasi volutamente a dare un corpo unico alle sue infinite curiosità. 

 

Che Battiato, o meglio il Battiato della discografia “leggera”, in qualche modo non stupisca più è cosa legittima. Quello che si respira da un po’ di tempo è un segno di assuefazione che in questo Il vuoto raggiunge quasi i segni premonitori di una raggelante, cadaverica profezia di morte imminente, di pace anelata, un desiderio di scivolare nell’oblio, una fame di ombra, un’inedia come unica concessione possibile al movimento.    

La cosa che sembra più azzeccata stavolta sembra la scelta dei titoli: I giorni della monotonia, Il vuoto, Tiepido aprile, The Game Is Over sembrano confermare quel che minacciano. Un’atrofizzazione delle mucose e dell’ispirazione che lascia di Battiato il puro involucro.     

 

A dieci anni dal primo raccolto di campo, ecco Battiato porgere il terzo mazzolin di fiori.

Sarà che sono allergico ai pollini ma anche questo viaggio a ritroso fra il sentimentalismo della canzone italo-francese e alla conquista delle fortezze inespugnabili di Otis Redding e di Simon & Garfunkel offerto da Fleurs 2 mi procura un vago e diffuso senso di prurito che anche gli inediti scritti per l’occasione (un barocco brano cantato con Carmen Consoli e una lugubre ballata a tre voci intitolata L’addio (che ricorda in alcuni passaggi l’altro famoso addio, quello a Lugano di Ivan Graziani, NdLYS) non riescono ad alleviare. Un tono da cantante confidenziale, da gigante ammaestrato si impossessa del maestro ancora una volta, lasciandoci la gola asciutta di acqua piovana.

Un po’ uccellaccio del malaugurio, un po’ grillo parlante. Un po’ apostolo, un po’ predicatore.  

Insomma, un po’ una rottura di coglioni il Battiato davanti alla porta dei quaranta ladroni. Tanto che alla fine sesamo non si apre nonostante le buone intenzioni dei nuovi Dante e Virgilio che sono diventati Battiato e Sgalambro. Apriti sesamo supera il guado di noia dei dischi precedenti per diventare addirittura irritante con i suoi giochi di parole, le sue rime, le sue citazioni, le sue visioni un po’ didascaliche e ripetitive che raggiungono il culmine nell’atroce tortura di Eri con me. La voce sempre più flebile del cantante siciliano è al servizio di una serie involuta di canzoni autoindulgenti nella forma e nella prosa, imprigionato in sé stessa laddove invece anela allo scollamento definitivo dalla prigione del corpo.   

L’ultimo lavoro di Franco Battiato concepito come tale è il ritorno nel ventre della madre, la riacquisizione della posizione fetale che aveva dato origine a tutto. Joe Patti’s Experimental Group è nei fatti la versione postmoderna di Fetus, secondo le tecniche di ambientazione elettroniche sperimentate qualche anno prima per Campi magnetici. Realizzato assieme a quel Pino Pischetola che quasi trent’anni prima aveva sistemato in studio le musiche composte da Battiato per il film su Benvenuto Cellini Una vita scellerata Joe Patti’s Experimental Group è un volontario, deliberato ritorno alla sperimentazione dei primi anni ’70, andando a recuperare frammenti di idee e rassembrandoli in un groviglio di fili di rame e di tungsteno, come lamelle polarizzate di musica sinfonica, elettronica minimale, ambient, glitch-pop e un funky digitale come Proprietà proibita a ricordare gli Azymuth di Jazz Carnival e i Pink Floyd che fanno cadere Pompei per la seconda volta.

È’ l’ultimo volo verso l’alto del nibbio dell’Etna.

Poi la mente si offusca, i ricordi spariscono, la spina dorsale si ricurva, le ali non riescono più ad intercettare il soffio del vento.

Grandi e piccini si arrampicano lungo le pendici dell’Etna per fotografare il suo nido. 

           

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro