TEENAGE HEAD – Teenage Head (Inter Global Music)

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Sembrano i Damned ripuliti dalla schiuma da barba, i Teenage Head che sorridono dalla copertina del loro album di debutto. Poi giri la cover e te li ritrovi ripuliti anche dal gel, coi capelli sciolti sulle spalle, un doppio filo di eyeliner, cuciti dentro giacche, giubbotti, jeans e cravattini che sono un omaggio alle pratiche estetiche e stilistiche del proto-punk, a quel che puzzava già di strada e di birra scadente. Ecco, quello è il mondo dei Teenage Head, un mondo dove il rock and roll è un allegro bivacco accanto ad un muro scrostato, una lunga catena di accordi che dalla loro lancia finisce fin dentro le acque degli anni ’60 e ’50, una serie di “little boxes” dove non c’è spazio per quello che è già stato corrotto dal mondo adulto e dove i beni di prima necessità sono quelli già miticizzati dai Dictators.

Bonerack, Top Down, Curtain Jumper, You’re Tearin’ Me Apart, Picture My Face, Lucy Potato, Ain’t Got No Sense riaggiornano l’abbecedario del punk canadese secondo quelle coordinate che furono appunto dei Dictators, dei Real Kids e dei Ramones con un piglio di amabile strafottenza e di ingenua ma tenace fede nella capacità salvifica del rock and roll.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JIM JONES ALL STARS – Ain’t No Peril (Ako-Lite)

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Memphis, Nashville, Chattanooga, Jonesboro, Atlanta, Jackson, Folsom, New Orleans. Il Sud degli Stati Uniti, la grande provincia della musica americana, quella dove nasce quel sound bastardo che puzza di fogna è la nuova “location” dell’ennesimo progetto di Jim Jones, quello degli All Stars (ovvero, essenzialmente, la Revue con una possente sezione fiati e una voce “nera” nascosta sotto un caschetto biondo).  

Ain’t No Peril, questo il titolo, è come una mutanda sporca di Andre Williams, con la sua strisciata di merda funky. Lunga trentanove minuti.

Su quella lingua di deiezioni ci passano ballate da struscio e voodoo rock maledettamente groovy (I Want You, Troglodyte, Gimme the Grease), gospel da marciapiede, putridi R ‘n B che sono la testa dei Detroit Cobras sul corpo dei Rolling Stones (Devil’s Kiss, che è carne sulla carcassa di Got Love If You Want It), honky-tonk da trinciato forte, strumentali da vertigine exploitation facendo del debutto degli All Stars una delle migliori pietre d’inciampo su cui possiate sbattere l’alluce quest’anno.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WEIMAR GESANG – The Colours of Ice (Supporti Fonografici)

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The Colours of Ice esce nel 1985, dopo che i Weimar Gesang sono diventati già uno dei nomi più
rispettati della dark-wave italiana grazie al 12”
Even Stone Pales e alla bellissima cassetta Our Silent Growth (oltre che a quella condivisa con i Plastic Trash e allegata al secondo numero della fanza VM), omaggi taciti ai Dead Can Dance e ai Cure nei quali la personalità del terzetto milanese fatica ad emergere, a lasciare la sua impronta. Operazione che invece riesce loro benissimo con The Colours of Ice, pentaedro di ghiaccio che si inserisce con i Neon di Rituals e i Carillon del dolore di Capitolo IV nella rosa delle produzioni dark italiane dell’anno.

Malgrado la parsimoniosa durata, in un periodo nel quale la formazione lombarda è invece
in pieno tsunami creativo,
The Colours of Ice riesce anche grazie all’apporto di Kevin Harris (in quello stesso periodo impegnato con i Christian Death di The Wind Kissed Picture, NdLYS) a fornire un identikit preciso della nebulosa dark del “canto di Weimar”, della sua raffinata tenebrosità, del suo lirismo mitteleuropeo, della sua eleganza neo-romantica. Il microcosmo che ebbe l’onore di apprezzarne la caratura se ne sentirà orfano per sempre.


                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

HEAD OF DAVID – ‘LP’ (Blast First)

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Il fragore è quello dei Killing Joke, centuplicato fino a farlo sembrare il rumore assordante di un’officina industriale. Justin Broadrick ha lasciato i Napalm Death nel bel mezzo delle registrazioni di Scum per diventare il boia di David ed esportandone la brutalità, sfigurando i riff in un maelström catastrofico e metallico dentro cui anche la Rocket U.S.A. dei Suicide finisce per diventare ferro liquefatto, come nelle grandi industrie siderurgiche della Black Country da cui provengono.

Chitarra e basso suonano senza mai “affrontare” veramente un riff ma lavorando per accumulo di tensione e rumore, giungendo con Shadow Hills California all’apice del costrutto, trascinando il glam proteiforme dei primi Bauhaus (le cui sagome da pipistrello si avvertono già fra le ombre della precedente Joyride Burning X sotto le forme del celebre mantello dark con cui coprirono la salma di Bela Lugosi, NdLYS) dentro un altoforno per vederli sciogliere fra le fiamme. Snuff Rider M.C., dal canto suo, si ferma ad un passo dai Ministry, guardando il cyber-punk dritto negli occhi prima di sferrargli un calcio con gli anfibi proprio sulle palle.

Potenziali eredi del male estremo degli Swans, gli Head of David non riuscirono ad andare molto oltre lo status di cult-band, presto risucchiati nell’ombra degli enormi Godflesh che Broadrick riuscirà ad imporre come il nuovo avamposto industrial/noise degli anni Novanta.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ULTRAVOX! – Ultravox! (Island)

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Non ho idea di chi abbia sfilato l’armonica dalle labbra di John Foxx. Fatto sta che passò così velocemente che quasi nessuno se ne ricorda più, eppure fu proprio in virtù di quello strumento che il loro album di debutto ingannò per un paio di minuti gli ascoltatori riesumando lo spirito dei Dr. Feelgood prima di mostrarsi per quel che era: un art-rock decadente che prendeva dai Roxy Music e cercava di adattarlo alla nuova epoca, scavalcando il cespuglio punk senza inciampare nei suoi rovi.

Erano, per farla breve, gli Ultravox! col punto esclamativo.

Il vecchio che avanzava vestito di nuovo.

Quelli con dentro un pezzo come I Want to Be a Machine che, a dispetto del titolo che presagiva chissà quali pirotecniche sintassi elettroniche, era un residuato bellico della prima metà degli anni Settanta con tanto di violino, già vetusto quando i Pink Floyd lo avevano provato a tirare fuori dalle acque del Tamigi il mese prima, proprio davanti alle bocche assetate della Battersea Power Station.

Quelli del reggae scomposto di Dangerous Rhythm e di The Wild, the Beautiful & the Damned che invece è quasi un prequel della big music raccontata anni dopo dai Waterboys e devastata da uno dei peggiori solo di chitarra che mano d’uomo abbia mai suonato.

Quelli della desolata My Sex degna del Bowie più funereo e della Wide Boys che invece prendeva in prestito quello glam di Rebel Rebel per costruirne la gemella.

Quelli che forse era meglio non togliere l’armonica. E che avevano progettato il futuro con i residuati dei tanker abbattuti dalla guerriglia punk.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BAD BRAINS – I Against I (SST)

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Sapete chi vinse poi la vecchia diatriba fra reggae e hardcore fomentata dai Bad Brains nei primi anni Ottanta? Nessuno dei due. Alla fine, a trionfare fu il metal. E neppure il metal migliore. Diciamo un hair-metal condito da assoli hendrixiani e svisate alla Van Halen come nella terribile Return to Heaven, un cantato a volte fin troppo ammiccante (Secret 77 è una sorta di incubo Spandau Ballet, anche se pure di questo non si è mai voluto chiedere conto ai “mostri” neri di Washington, NdLYS) e da una ritmica sincopata che si volle chiamare funk (come si sarebbe fatto in quello stesso periodo con Faith No More, Living Colour, Fishbone e Red Hot Chili Peppers) ma che, rifletteteci bene, fosse capitato ai musicisti di James Brown di suonare così si sarebbero presi talmente tanti calci sulla patta da diventare eunuchi. Diciamo allora, meglio, “squadratamente” funky.

I Against I è ritenuta la pietra angolare che in qualche modo dà paternità al funky-metal ma c’è da considerare che in quel momento questo genere di crossover è sentito e sperimentato un po’ in tutta l’America, anche lontano da Washington D.C..

Il terzo album dei Bad Brains segna dunque una metamorfosi completa e a tratti inspiegabile. Un disco che chiede (e ottiene) un rinnovamento completo della fan-base. In parte riuscito, per quanto mi riguarda. Che degli anni Ottanta, più che il pop sintetico, erano proprio le chitarre isteriche del metal da stadio quelle che mi davano più fastidio.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SIMPLE MINDS – Once Upon a Time (Virgin)

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Una spolverata alle chitarre e i Simple Minds sono pronti, dopo essere stati costretti a bere lo scatarro di Billy Idol, Fixx e Bryan Ferry, a conquistare l’America, completando l’assalto tentato loro malgrado con quella merdata assoluta che era stata Don’t You (Forget About Me). Una conquista vera, un riscatto vero, con canzoni proprie, con l’energia di una band new-wave che adesso si riscopre affamata di stadi, arene e tutte le grandi agorà del popolo del rock. Un po’ come sarebbe successo da lì a poco agli U2 con i quali avevano condiviso lo stesso salto da un produttore all’altro, tradendo il gusto raffinato di Steve Lillywhite per quello populista di Jimmy Iovine che mette addosso al gruppo scozzese il “vestito buono” per gli Stati Uniti: chitarre in prima linea, toni trionfali ed incalzanti al posto della decadenza tutta nordica, sintetizzatori meno “sintetici”, batteria roboante, spruzzi di pianoforte, aria vagamente ecumenica (con tanto di cori black che rimandano direttamente alla tradizione gospel e soul) come vuole il DNA della terra dei predicatori.

La “volgarizzazione” del sound frutta l’esito sperato, con l’album e il primo estratto nella top ten americana per oltre un mese ed analogo successo un po’ ovunque l’uomo abbia messo piede. Tuttavia i Simple Minds sembrano a loro perfetto agio in questo nuovo mondo che si stanno costruendo addosso e che diventerà il tratto dominante del loro nuovo universo sonoro e Once Upon a Time, a parte i toni epico-faraonici di cui è intriso, non è un disco da buttare. Restano alcuni bocconi indigesti (la title-track e Alive and Kicking in particolare) ma la scarica istaminica è ancora tollerabile, seppur nella consapevolezza che da ora in avanti vedremo i Simple Minds più nei maxischermi che da sotto il palco e che il successo li sta già divorando vivi.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE DEAD BROTHERS – Death Is Forever (Voodoo Rhythm)

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L’uomo in copertina è Alain Croubalian, il “fratello morto” morto per davvero e di cui questo disco rappresenta il commiato (non solo suo, ma di tutta la band). Il rito funebre cui la formazione svizzera ci ha da sempre invitato a partecipare si fa stavolta cerimonia ancora più struggente e toccante (Wayfaring Stranger in particolare ma anche le visioni desertiche di 500 Horses e di Amara terra) come quando la morte, più che passarci accanto, ci passa sopra.

Il disco però, al di là dei sentimenti che mette in moto una volta sovrapposto agli eventi successivi alla sua gestazione, non è una sindone e contempla, oltre alle ballate noir che hanno da sempre inflazionato il repertorio della formazione, una buona dose di ritmo. Di “ballabili”, oseremmo dire, se epurassimo il termine dal suo significato più immediato per ricondurlo all’alveo delle danze popolari e cerimoniali europee: il trittico Diamond Mind, Born to Die, I Wrote a Book va letto sicuramente in quest’ottica, pur costituendo forse il lato più “slegato” dal processo tematico-stilistico dei Dead Brothers. Che a questo punto, in onore di Alain, giunge al termine naturale del suo processo creativo. Ricordandoci che nulla è più perenne della morte.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

I CORVI – Un ragazzo di strada (Ariston)

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C’era la famiglia Salerno al gran completo (Nicola, in arte Nisa, già paroliere per Carosone, Aurelio Fierro e Adamo + i suoi figli Alberto e Massimo), oltre che a Franco Califano, Piero Umiliani, Herbert Pagani e Stelvio Cipriani a rendere i loro servigi come parolieri e compositori per il debutto in grande formato de I Corvi, la band più impattante ed iconica del beat italiano.

L’attenzione dei quattro musicisti parmensi tanto per i nuovi suoni psichedelici e folk-rock americani quanto per il ruvido fuzz appena sdoganato dagli Stones si sposa, e non è sempre un matrimonio felice, con la forza del team di autori messi al loro servizio. 

I Corvi pigliano un po’ da tutti, come è prassi di quel periodo, da Donovan a James Brown, dai Brogues ai Kinks, da Sonny & Cher e, appena dopo, dagli Electric Prunes mentre Quando quell’uomo ritornerà e Si prega sempre quando è tardi si inseriscono in quell’interstizio culturale che, sebbene non sia mai stato indagato fino in fondo, esemplifica come la nuova idea di comunità beat sia in qualche modo ancillare a quella ben radicata nel tessuto sociale italiano, di associazionismo cattolico.

Vezzi e vizi sono pertanto quelli comuni praticamente a tutte le produzioni coeve di matrice “bitt” e più in generale di tutta la musica popular, non ancora pronta ad affrontare la prova dell’album e a replicare l’efficacia messaggistica del singolo. Anche per i Corvi, l’appuntamento è un appuntamento mancato. E i tardivi rammarichi, come quello della Ricetta antirughe non basteranno a recuperare l’occasione perduta.  

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro 

NDOX ÉLECTRIQUE – Tëd ak Mame Coumba Lamba ak Mame Coumba Mbang (Bongo Joe)

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Musica cerimoniale, rituale, sciamanica. Una trance terapeutica dove uomini e demoni si incontrano e si scambiano la pelle.

Voci, tamburi, graffi elettrici, suture elettroniche: il popolo dei Lebous cosparso delle polveri velenose di François R. Cambuzat e Gianna Greco. O viceversa.

Un rito adorcista penetrante e invasivo, a tratti dirompente. Emerge, e non è una novità per il duo franco-italiano, l’impatto aggregante, socializzante, delle musiche da cui vengono attratti e con cui finiscono per interagire cercando di comprenderle fino in fondo immergendosi nel loro flusso di coscienza. Che è un po’ la maniera per rendere esperibile una musica simile, che è musica del Delta, laddove il Delta è quello del fiume Senegal, lungo le sponde di quella che è la langue de Barbarie, su fino alle comunità proto-urbane di Saint-Louis. Acque-elettriche le chiamano. Acque dove le scorie della civiltà industriale del primo mondo annegano tra i flutti di quello che essa ha deciso essere il terzo. Acque da cui risalgono gli spiriti di tutte le civiltà del mondo, agitandosi come demoni senza più unghie ma con la pelle di tamburo.

Ora, potete provare a nuotarci.                                           

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro