R.E.M. – And I Feel Fine… (Capitol)

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Il meglio degli anni su I.R.S..

Ovvero, i migliori anni dei R.E.M., quelli in cui il sogno prende forma, in un angolo remoto della provincia americana. Gli anni migliori anche per noi, a pensarci bene, che scorrendo la track-list, proviamo un brivido ad ogni titolo, come se ogni brano fosse uno di quei distributori dove ci siamo fermati a far benzina quando avevamo tredici, quindici, diciassette anni e avevamo già sete di petrolio: Fall on Me, Begin the Begin, Radio Free Europe, Pilgrimage, Sitting Still, It’s the End of the World (as We Know It), These Days, Finest Worksong, I Believe, Welcome to the Occupation, Cuyahoga, Talk About the Passion, 7 Chinese Bros., Can’t Get There from Here, Driver 8, Sitting Still e tutte le altre che sapete a memoria, per un totale di quaranta, al netto di un paio di “repliche”. E pure qualcuna che non sapete o che conoscete con addosso un altro vestito, a volte anche migliore (è il caso di Bad Day, qui ancora in una versione acerba tanto da restare fuori dall’album cui era destinata).

Cinque album e un mini-Lp fondativi per tutto il college rock. Larve che diventano farfalle sotto i nostri occhi. Bachi da seta che ci cingono in un abbraccio di arpeggiata tenerezza.

La prateria americana si spopola di bufali e diventa il regno alle antilopi.

Welcome back to Rockville.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

TRUE WEST – Hollywood Holiday (New Rose)

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Tutte le potenzialità dei True West, poi rimaste parzialmente inespresse, vengono raccolte dalla New Rose su Hollywood Holiday, proprio un attimo prima dell’album di debutto ufficiale della band.

Tecnicamente si tratta di una riedizione dell’omonimo E.P. pubblicato dalla piccola Bring Out Your Dead con l’aggiunta di tre pezzi registrati nell’estate del 1983. Siamo comunque nella fase più creativa del gruppo di Davis, carica di luminescenze acide (Steps to the Door, col suo muro di suono shoegaze, l’epico folk onirico e fluorescente di And Then the Rain che riapparirà, innaturalmente rallentata, su Drifting, la cover di Lucifer Sam) così come di un febbricitante roots-rock che trova in I’m Not Here la sua epifania tribale e in You la sua apoteosi visionaria, memore delle lezioni di Tom Verlaine (designato a produrre l’album da lì a breve, a fronte di una pretesa economica non negoziabile ne’ tantomeno esaudibile dalla band e dal loro management, NdLYS) e di Robyn Hitchcock.

Non meno importanti sono, per il portfolio della Paisley-band perfetta, i tre brani che completano le vacanze hollywoodiane: Hollywood Holiday, It’s About Time e Throw Away the Key con le loro chitarre fumanti come un falò pellirossa promettono ciò che poi verrà mantenuto solo in parte ma che qui aveva tutto l’ardore per poter raccontare l’ennesimo romanzo americano.  

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DREAM SYNDICATE – Live Through the Past, Darkly (Label 51 Recordings)

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Undici brani dal vivo da strapparsi le mutande.

E che avrebbero meritato una copertina all’altezza del mito, raccontato “attraverso il passato” che ormai ha sorpassato la soglia dei quarant’anni. Classici vecchi e nuovi, dunque. Ma soprattutto i primi: Halloween, John Coltrane Stereo Blues/Morning Dew, Forest for the Trees, Now I Ride Alone, Medicine Show, Still Holding on to You, That’s What You Always Say, See that My Grave Is Kept Clean: una doccia elettrica di proporzioni mastodontiche accanto alla quale non sfigura la torrenziale How Did I Find Myself Here che apre la mini-sezione dedicata ai pezzi più recenti, mentre Bullet Holes e soprattutto Glide restano annaspano un po’, ma si tratta alla fine di una decina di minuti su un totale che supera abbondantemente l’ora spesa benissimo per ripassare uno dei “cataloghi” più carismatici degli anni Ottanta americani.

Ci sbronzeremo ancora di vino, calpestando le rose avvizzite.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RAIN PARADE – Last Rays of a Dying Sun (Label 51 Recordings)

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I musicisti della nostra giovinezza invecchiano con noi e, come noi, non vogliono saperne di adottare il silenzio al posto del rumore dei “vecchi tempi”, anche quando a volte sarebbe molto meglio. Non è il caso dei Rain Parade, che con Last Rays of a Dying Sun dimostrano di poterci ancora deliziare, anche quando come nel caso della title-track le trappole diacroniche li fanno suonare come una versione neo-psichedelica degli Oasis. Nonostante la morte di David Roback e gli anni che lo separano dal nucleo storico della loro produzione, la “visione” musicale dei Rain Parade riesce a mantenersi intatta malgrado appaia, alla luce del nuovo secolo, un po’ più frangibile.

Una sensazione accresciuta dal fatto che la band sceglie quasi sempre un registro di ballate folk-rock dal passo moderato se non addirittura rallentato all’inverosimile (Forgetfulness) che non ne agevola la resa complessiva, soprattutto oltrepassata la soglia della prima parte del disco, chiusa idealmente da una magistrale Got the Fear e strutturalmente dal soffice cuscino di Share Your Love, con le due Peterson delle Bangles ai cori e i sonaglini della loro Walk Like an Egyptian riproposti in apertura.

Nonostante questo lieve calo d’intensità, Last Rays of a Dying Sun ci racconta di un tramonto che riesce ancora, se non a toglierci il fiato, a pilotare efficacemente il nostro respiro. E, con esso, il ventaglio dei nostri ricordi.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TRUE WEST – Hand of Fate (CD Presents)

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Sono Matt Piucci e Chuck Prophet i chitarristi chiamati a colmare il vuoto improvviso lasciato da Russ Tolman all’indomani di Drifting e già pronto al debutto solista mentre i suoi ex-compagni lanciano sul mercato Hand of Fate.

I riflettori della critica saranno a quel punto puntati più su quello che sui True West, dandoli prematuramente per spacciati e che invece hanno ancora qualche ottima cartuccia da sparare. Anzi, con Trim the Fat dimostrano di avere ancora in canna il colpo migliore della loro carriera. Un passo sotto (be’, dai, più di un passo) le stanno l’evocativa The Gunner, No Comebacks, Lost at Daybreak, il giro di chitarra che Piucci regala a Just One Chance e la marcia psichedelica della title-track. Il resto, compresa un’inutile cover degli Yardbirds, sa un po’ di panna montata. Ma è meno della metà. E, considerando il fatto che siamo già al crepuscolo degli Dei di quella che era stata la stagione Paisley, un po’ di edulcorante alla fine non guasta bevanda.

Non è più il vero West. Ma neppure noi siamo più uguali. Per fortuna.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE LONG RYDERS – September November (Cherry Red)

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Un violino che ricorda il Dylan di Desire si frappone fra noi e i Long Ryders in apertura di September November Sometime. E il sospetto, poi confermato dall’ascolto dell’intero album, è che i Long Ryders si siano un po’ incancreniti in un roots-rock sempre più vicino alle radici e sempre meno ai germogli di quello che fu il fenomeno che li vide protagonisti del recupero della musica tradizionale durante gli anni Ottanta. September November è infatti un disco intriso di una mestizia resa ancora più amara dal tributo più o meno dovuto alla memoria di Tom Stevens (sostituito per l’occasione da Murry Hammond degli Old 97’s) e alla dedica all’Ucraina.  

Il tono dell’intero disco, una volta spenta l’enfasi dylaniana del primo pezzo, è quello dimesso della ballata, sia ora folk, sia ora più crudamente country o bluegrass. Ma senza grossi picchi di energia. Come un condor che dopo aver attraversato distese di polveri e deserto si sia accucciato nel suo nido a pulirsi le piume.

Non che la band sia mai stata alfiere di chissà quale rivoluzione ma a questo giro sembra come se, a restauro ormai completato di quella vecchia sedia a dondolo da veranda, abbia avuto la meglio il desiderio di andarcisi a sedere per guardare il tramonto invece che quello di provare a riverniciare tutto con colori più moderni, scegliendo un approccio diametralmente divergente a quello dei vecchi compagni Dream Syndicate che invece hanno imbroccato la via capricciosa dell’accostamento bizzarro del vecchio col nuovo sottolineando i tratti trasversali e fusion dell’azzardo stilistico. Nella sfida, semmai ci fosse, i Long Ryders fanno insomma la figura dei vecchi che sbrodolano ancora ascoltando i dischi di Merle Haggard dal vecchio giradischi del nonno, un po’ infastiditi dalla luce e dai curiosi, ostinati come dei vietcong, con la scorza dura dei rednecks e la barba da taglialegna, il fazzoletto arrotolato sul collo, gli stivali imbrattati ai piedi.

Quel che ci regalano non è un brutto album ma un disco già vecchio, questo sicuramente. Spoglio di quella epica da film western che era fumetto e fantasia, il suono dei Long Ryders finisce per diventare un’ombra di quello dei padri che lo hanno ispirato, senza raggiungere la lunghezza che quell’ombra, sul far della sera, riusciva a coprire sul terreno.

Quasi un disco da Natale.

Senza il Natale.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PLIMSOULS – The Plimsouls (Planet)

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Il guanto di sfida lanciato dai Nerves al punk era stato raccolto da una notevole quantità di musicisti. Peter Case, che quel guanto lo aveva lanciato, era deciso a non demordere: naufragati i progetti dei Nerves e dei Breakaways si era rimboccato le maniche, per lasciare che il guanto si vedesse ancora meglio, e aveva messo su i Plimsouls, il più longevo dei suoi progetti e quello che gli darà le soddisfazioni migliori. Il suono non ha più quell’asciutta innocenza beat dei Nerves ma ha adesso un “corpo” più rock, più vigoroso e più accattivante, una sorta di anticipazione del retro-rock che dai Three O’Clock in avanti verrà poi definito come Paisley Underground.

Ma al di là di certe paternità più o meno calzanti e sicuramente non pianificate, il desiderio di Peter Case è quello di inseguire la stella di quel guitar-pop eternamente giovane ed eternamente gioviale che lo aveva catturato sin da quando, ancora ragazzino, si era imbattuto nei dischi di Buddy Holly. Un suono che Peter e i Plimsouls armeggiavano benissimo e che erano in grado di “vestire” in maniera più dignitosa rispetto ai “quattro stracci” dei Nerves, coprendoli addirittura con qualche pelliccia R ‘n B (Lost Time, Mini-skirt Minnie), qualche jeans sdrucito (Nickels and Dimes) o un completo anni ’50 da teddy boy come nel rockabilly di I Want You Back.

Senza mai perdere di vista l’obiettivo nonostante l’abbondante cera passata sul pavimento.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SCREAMING TREES – Oggi soffia un vento crudele

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Nel 1985, l’anno delle registrazioni di Clairvoyance, gli Screaming Trees sono una sorta di “affare di famiglia”. I fratelli Gary Lee e Van Conner sono due ragazzi (ventitreenne il primo, appena diciottenne il secondo) che suonano già da un po’ sotto il nome di Explosive Generation assieme all’amico Mark Pickerel e all’appena reclutato Mark Lanegan.

Non sanno ancora cosa diventeranno.

E a dirla tutta, non sanno ancora dove dirigere il timone.

Così, nuotano un po’ a braccio, solcando il mare con un’eco sottile, latente e trasversale di quella sorta di psichedelia metallica e acerba di band come Wipers, Miracle Workers o Plan 9 che la formazione rielaborerà con efficacia su Dust, con la voce di Mark ancora flebile ed incerta e le chitarre di Lee Conner ancora prive degli slanci visionari che prenderanno quota nei dischi seguenti. Nessun presagio di futuri capolavori come Grey Diamond Desert Nearly Lost You pure se brani come Standing on the Edge, I See Stars Orange Airplane (con il fratellino più piccolo della nidiata Conner impegnato ai cori) mostrano, pur dietro un vetro opacizzato, la via che la band di Seattle percorrerà fino al ’96 con mezzi e capacità sempre più potenti e che qui è invece ancora approcciata in maniera borderline ed artigianale.

 

Una sorta di prato di spilli.

Così era la musica degli Screaming Trees di Even If and Especially When, l’anello di congiunzione fra un garage rock tutto sdrucito e tagliato storto della metà degli anni Ottanta con quello che sarebbe fioccato da lì a poco come grunge, prodotto quasi per osmosi da quello che è a tutti gli effetti un acido lievitare oltre soglia della psichedelia (Other Days and Different Planets, In the Forest, Girl Behind the Mask, Flying, World Painted, The Pathway, You Know Where It’s At), quasi fosse un disco della Moxie lasciato troppe ore al sole, fino a deformarsi. Su Don’t Look Down il suono sembra precipitare, come trascinato giù da un campo magnetico che è lo stesso a rendere il riff di Cold Rain una sorta di orologio molle alla Dalì, con le chitarre leggermente fuori fase a rendere obliqua la distorsione chitarristica fino a determinare una sorta di ubriacatura acustica. Il disco però piace solo a quelli della SST che spingono la band ad affrontare qualche data (tre concerti in tutto) per promuovere questa miscela che fatica ad incendiare il pubblico, che si accorgerà degli Screaming Trees solo quando i riflettori si accenderanno su Seattle e non certo per merito loro. Nel 1987 la band del Northwest è ancora una formazione di outsiders, indigesta ai puristi del suono garage nonostante questo pugno di canzoni ne rappresenti una buona degenerazione e leggermente in anticipo sui tempi rispetto a quella che sarà la forma definitiva del suono del Nord-Ovest dei cinque/sei anni successivi.

Ecco, “forse, se” fosse arrivato dopo, “specialmente quando” le pattumiere grunge sarebbero state aperte per invadere il mondo del tanfo di spazzatura di Seattle, Mark Lanegan e soci avrebbero raccolto prima quello che già pendeva copioso dai loro rami urlanti.     

 

Prima che la Epic costringesse Mark Lanegan a lavorare sui toni melodrammatici della sua voce per farne il Jim Morrison del rock del northwest, gli Screaming Trees consegnano alle stampe quella meraviglia che è Invisible Lantern, rampicante velenoso che cinge i muri di Seattle disperdendo i pollini della psichedelia più acida dentro un fiume di watt che scorre lungo brani recalcitranti come la progressione stoogesiana di Ivy, gli Experience amatoriali, imprecisi, dozzinali di The Second I Awake, gli Elevators soffocati con un fardello di plastica di Shadow Song, l’acid-rock texano che cola da Direction of the Sun, l’hard-rock stopposo di Lines & Circles, Invisible Lantern, Even If, She Knows tutti aggrediti dalla tipica distorsione “dilaniante” del pedale per chitarra da cui la band ha preso il nome (anche se pare che si tratti solo di omonimia e che non ci sia stata una relazione voluta all’effettistica da studio nella scelta battesimale, NdLYS) e, appena ammansiti, sotto quel sudario di Grey Diamond Desert che anticipa già i Miracle Workers di Primary Domain. Il rock degli Screaming Trees è di quello che ama scarabocchiare ai margini dei generi, spesso bruciando i bordi come a volerne ulteriormente confondere le tracce. Come spiriti malvagi in grado di comandare sulle nuvole, soffiano sulla città quella che diventerà in pochi mesi la tempesta perfetta.  

Come per il TIR guidato dai fratelli Gary Lee e Van Connor, se sfogliate un qualsiasi catalogo illustrato della musica rock sulla carrozzeria degli Screaming Trees troverete appiccati un sacco di adesivi: psichedelia, grunge, hard-rock, punk.  

Poi magari, aperti i portelloni, dentro ci trovate solo una gran confusione.

Perché il TIR degli Screaming Trees viaggiava lungo il confine. Raccoglieva e caricava ad ogni fermata quello che voleva. E continuava la sua marcia, mostrando il dito medio ai posti di blocco.

Per Buzz Factory si erano fermati nelle officine Reciprocal, per una messa a punto del motore. Si erano affidati alle mani di Jack Endino, il meccanico che aveva sistemato il superfuzz scassato dei Mudhoney e i coglioni di Dio che gli avevano portato i Tad. Quando ripartono, il motore ruggisce. Mastro Endino ha lasciato intatte le incrostature della carrozzeria ma ha messo tra i pistoni un fluido miracoloso. Il suono crespo e grezzo delle chitarre che si agitano inquiete su Flower Web, Subtle Poison, Where the Twain Shall Meet, Revelation Revolution, Windows, Too Far Away, Wish Bringer, Black Sun Morning, Too Far Away sembra un rigurgito acido del punk dei Wipers e del desert-rock dei Thin White Rope. A volte, come abbagliate dal lampeggiare del crybaby, sembrano andare leggermente fuori tono, ovalizzarsi attorno alle note del basso e alla splendida voce di Mark Lanegan. Poi rientrano in carreggiata.

Fino alla prossima fermata.

Fino al prossimo carico.          

 

Il passaggio alla Epic e il nuovo assetto della band con Chris Cornell alla produzione e ai cori viene testato in sordina nel 1990 con l’EP Something About Today ed esplode nel 1991 con Uncle Anesthesia, l’album con cui il sound degli Screaming Trees assume la forma che li porterà al successo, con le chitarre pastose e piene di grinze e la voce di Mark Lanegan sciamanica come quella di un Jim Morrison dai capelli lunghi il doppio e sporchi il triplo. Il suono borderline del gruppo ha trovato una sua dimensione (oltre che una collocazione sonora arbitrariamente decisa dai giornali e dalla casa discografica, pur senza appartenerle in toto), una sua precisa identità, un canovaccio espressivo che è adesso aderente al gusto del pubblico ma è anche coerente con le affinate capacità di scrittura del gruppo, ormai lanciato verso un suono altamente manovrabile in ogni contesto, dalla ballata torva all’acid-rock epico, dal grungey-folk polveroso al desert-rock.

Il sound di Uncle Anesthesia sa di gomma pesante, come certi copertoni per bulldozer con il battistrada che schiaccia la polvere e la compatta, lasciandole sopra dei solchi spezzettati e regolari, tracciando il solco che dal deserto porta fin dentro le città. Bruciando i copertoni all’ingresso delle periferie, perché il fumo nero le avvolga in un abbraccio disperato.

 

L’occasione mancata della Sub Pop.

Che pure qualcosa, una piccola cosa in formato sette pollici, aveva stampato tre anni prima con gli alberi urlanti in copertina.

Alla fine, persa la battaglia con la Epic, Bruce Pavitt si limiterà ad accogliere il Mark Lanegan solista che ai tempi non convince ancora gli A&R delle major. Ma questa è un’altra storia (che però, all’epoca dell’uscita di Sweet Oblivion, ha già preso il via). Quella degli Screaming Trees è iniziata un po’ di anni prima proprio dalle parti di Seattle, quando l’attenzione della stampa e del pubblico è rivolta verso la California, Minneapolis e Athens.

Del loro rock psichedelico ed obliquo durante gli anni Ottanta non interessa quasi a nessuno. Finchè il vortice del grunge non risucchia dentro anche loro forse più per questioni geografiche che di stile. La scelta della Epic di inserire Nearly Lost You dentro la colonna sonora del filmettino Singles si rivela però un trionfo. Quando Sweet Oblivion arriva sui tavoli dei giornalisti, nel maggio del 1992, l’album non ha ancora un titolo ne’ una scaletta definitiva (verrà poi spurgata di tre brani) ma rivela da subito un carattere vincente.

Il suono è denso, vischioso, uterino. La voce di Lanegan pastosa e calda è permeata di quell’indole confidenziale che verrà poi esaltata nella sua discografia solista.

E le canzoni, tutte, sembrano davvero possedere quella dose di incanto e suggestione che era mancata al vecchio canzoniere del gruppo.

La diga sonora costruita dei fratelli Conner (che hanno elaborato, riadattandola, la formula di Crazy Horse, Creedence Clearwater Revival, MC5, Lynyrd Skynyrd) sembra contenere a fatica una creatività straripante e donare quel senso di meraviglia inquieta che trasuda da canzoni come ButterflySecret KindShadow of the SunTroubled TimesFor Celebration PastNearly Lost You, cariche di un pathos solenne e minaccioso. Salici piangenti mossi dal vento dell’Hurricane Ridge.

 

Dopo il meritato successo di Sweet Oblivion gli Screaming Trees sono costretti ad assistere impassibili ed inermi alla fine del grunge.

Le dipendenze di Mark Lanegan hanno costretto la band ad una immobilità paralizzante, tanto che quando alla fine, dopo aver cambiato produttore, decide di andare in studio a registrare quello che sarà il su canto del cigno (nero), Gary Lee Conner ha da scegliere da una cornucopia di oltre duecento canzoni.

E resta il dubbio che abbia scelto le migliori.

O, per essere più precisi, è costretto a scegliere quelle che meglio si adattano alle stanche corde vocali del cantante, quelle che lo possono fare sentire più a suo agio, che possono ridurre il suo stress.

Nel 1996, e la band lo capisce subito, il fuoco degli Screaming Trees si sta spegnendo e non può più essere riacceso, neppure chiamando in soccorso vecchi amici come Chris Goss, Mike McCready e Josh Homme, arrivati più a celebrare un funerale che a partecipare ad una festa. Il risultato è un album meno spontaneo, con un lavoro di pre-produzione e di “calibratura” che da un lato arricchisce le tessiture musicali, dall’altro non riesce a creare quella dinamica esplosiva che tutti si aspetterebbero, finendo per complicare progressivamente il suono fino a quell’orgia di psichedelia moderna che è Dime Western e a quella mini-suite irrisolta che è Gospel Plow ricca di colori orientali alla George Harrison che chiudono il cerchio aperto dal raga-rock di Halo of Ashes e, a ben vedere, l’intero moto di rivoluzione iniziato dieci anni prima con Clairvoyance.

L’appannamento di Lanegan non ha tutto sommato esiti nefasti su Dust, anche se il risultato finale sembra essere una versione di Mistery Lane, il disco registrato dai fratelli Conner, ma con un cantante vero. Fuori dal ciclone grunge che essi stessi avevano inconsapevolmente provocato e in cui rischiavano di essere intrappolati, gli Screaming Trees trovano una via di fuga psichedelica per tornare in posizione fetale. Desiderosi di riposo.

Polvere alla polvere.

Cenere fra la cenere.   

 

Ogni giorno è un buon giorno per gli Screaming Trees.

Anche se sono passati più di dieci anni dall’ultimo giorno e le camicie di flanella sono rose dai tarli dentro le panche delle cose smesse, accanto ai pantaloni in pelle che non ci entrano più e le cinture borchiate che sembrano rubate al Museo dell’Inquisizione di Siviglia.

Last Words sono le “ultime parole” pronunciate dalla band, poi rimaste taciute per un decennio vista l’impossibilità di trovare un’etichetta che, dopo il recesso del contratto da parte della Epic, investisse su una band che era stata insignita del titolo di prime-mover di un movimento che adesso non interessava più a nessuno. Realizzate con l’apporto esterno di Josh Homme e Peter Buck le dieci tracce di Last Words si muovono sullo stesso terreno di Dust, recuperando quella visione psichedelica che era stata una delle loro ispirazioni iniziali e rielaborandola stavolta secondo i dettami stilistici che avevano caratterizzato il Paisley della metà degli anni Ottanta, con un Lanegan meno opaco che sul disco precedente, tanto da innalzare con i suoi artigli Ash Gray Sunday e Anita Grey fin sulle vette ormai inviolabili dei loro pezzi migliori. Salvo poi lasciarli cadere tra la merda delle iene che hanno fatto a pezzi quel che restava di loro.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE CHEEPSKATES – Second and Last (Midnight)

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Nonostante le beghe legali seguite alle vendite del disco di debutto, i Cheepskates si ritrovano ancora una volta alla corte di J.D. Martignon per dare un seguito al loro Run Better Run. Il disco, preludio alla fine prematura della band (che poi risorgerà con una line-up stravolta), si intitola Second and Last e replica la bellezza del primo, perfezionandone le forme, tanto che molti (me compreso) lo preferiscono a quello. La formula rimane identica, ma stavolta la cura nei suoni, nell’uso delle voci e nella produzione garantisce un prodotto meno amatoriale e più professionale che permette a pezzi come Turn Around, Everything, You Don’t Belong Here, Yours and Mine, About You, Around Here, She Comes Back di sprigionare tutte le loro essenze folky, irradiando spore di leggerissima e spensierata felicità.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DROOGS – SexandDroogsandR’n’R

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Una band anomala.

E un album altrettanto inconsueto.

Nati nei primi anni Settanta, i Droogs dei fratelli tedeschi Ric Albini e Roger Clay (all’anagrafe Richard e Roger Zumwalt, NdLYS) sono gli unici a suonare garage-punk nella zona di Los Angeles. Nel 1973 escono fuori con un singolo con dentro due riletture di due piccoli inni del più sboccato beat-punk del decennio precedente: He‘s Waitin’ dei Sonics e Light Bulb Blues degli Shadows of Knight. Un primato incontestato tra le uscite neo-garage che si sommeranno alla loro con qualche anno di distacco. Perché all’epoca dell’uscita, non c’è traccia degli Unclaimed, dei DMZ, dei Fleshtones, dei Crawdaddys, degli HYPSTRZ, dei Cramps, dei Chesterfield Kings, dei Last.

I Droogs sono i soli a parlare quella lingua lì.

Talmente soli che si stancano di parlarla.

Dovranno aspettare un decennio e l’evolversi di un sacco di eventi (il movimento neo-garage, la nascita del Paisley Underground, la febbre del revival psichedelico) prima di trovare il momento buono per pubblicare l’album di debutto.

Ma a quel punto il suono dei Droogs, ovviamente, non è più quello degli esordi.

L’album sfoggia il nuovo bassista Dave Provost che in quel periodo suona pure coi Dream Syndicate e, al banco di regia, Earle Mankey degli Sparks che pochi mesi prima ha prodotto 10/5/60 dei Long Ryders, Sixteen Tambourines dei Three O’Clock.

Il suono dei Droogs è nel frattempo, diventato altro. Meno sporco, meno devoto al suono gracchiante delle vecchie garage band, adesso riesce a fare suoi anche splendidi richiami al beat inglese e al power-pop (Set My Love on You, piccolo capolavoro del loro repertorio), alla ballata inacidita e fosca alla Jake Holmes (For These Remaining Days) andando curiosamente ad impattare con certe idee che un’altra band bizzarra come gli Hoodoo Gurus sta tirando fuori dall’altra parte del mondo (Only Game in TownStone Cold World).

Tuttavia, nonostante il discreto successo di critica, Stone Cold World rimane uno degli album minori del revival neo-sixties dell’epoca, incapace di fronteggiare la statura di dischi come Medicine ShowGravity TalksNative SonsThe Las Vegas StoryReckoning su cui sono puntate le orecchie di tutti.

 

Attenzione migliore gli viene concessa dall’Europa e, in particolare dalla loro stessa madre patria grazie all’interesse della Music Maniac che con la raccolta dei loro primi singoli, impone i Droogs come band di assoluto interesse tra il pubblico che sta impazzando per il fenomeno neo-garage californiano.

Non sufficiente però, ancora una volta, per stanare Stone Cold World dal suo buco di disco di culto. Certe storie non si raccontano mai abbastanza.

Nei primi anni Ottanta Fred Patterson, conosciuto nel giro dei musicisti di Los Angeles con l’alias Phast Phreddie, organizza nel suo appartamento dei tour-de-force alcolici a base di musica chiamati Drink to the Death. Sono delle feste-tributo dedicate di volta in volta a musicisti scomparsi. Charlie Parker, Jim Morrison, Brian Jones, ecc.

Sono i famosi “Death Party” cui anche i Gun Club dedicheranno più di un titolo nella loro discografia e sono anche le occasioni in cui Peter Case e Jeffrey Lee Pierce (che nei Precisions di Phreddie hanno suonato entrambi) intrecciano una sorta di legame amichevole, un patto di fratellanza che verrà suggellato con la scrittura condivisa di Call Off Your Dogs, poi donata ad altri frequentatori delle feste di Phreddie: i Droogs. Sono loro i primi ad inciderla, battendo di un soffio gli svedesi Nomads per i quali era in origine stata pensata. È quello il pezzo forte del travagliato nuovo album del gruppo, che esce a tre anni dal primo: batteria che picchia duro, chitarre serrate e voci che chiamano a raduno il branco. Un parziale ritorno al suono degli esordi, nonostante la cometa si sia mossa dal pagliaio garage-punk degli anni Settanta per lanciarsi all’inseguimento della carovana Paisley, come dimostrano diverse tracce di Kingdom Day. Ma quando i Droogs tornano al linguaggio elementare del rock ‘n’ roll, come nel boogie alla Groovies di Jack of Trades o nel power-pop di Webster Fields, sono ancora capaci di far tremare il culo a tanti colleghi e le pareti di casa agli ascoltatori. Cosa che non riesce quando il gruppo apre i paracaduti per buttarsi nelle terre del guitar-rock di Collector’s ItemStranger in the RainCountdown to ZeroWhen Angels Fall, piene di chitarre che sbavano come il rossetto dalle labbra di Robert Smith e depredandoci del magico fuoco che i Droogs avevano custodito gelosamente per quasi tre lustri. 

 

Sei singoli incisi tra il 1972 e il 1981 che ricordano ad un’intera nazione chi siano i Sonics, gli Shadows of Knight, i Kinks e i Mickey Finn. I Droogs di Los Angeles sono probabilmente la prima band in assoluto a recepire il messaggio lanciato da Lenny Kaye con le sue Nuggets. E sono comunque i primi a metterlo in pratica, recuperando in pieno lo spirito punk degli anni Sessanta con cover che all’epoca sono ancora di prima mano e un set di originali come Ahead of My TimeSet My Love on You e Overnight Success che fanno tremare il culo e le mura di casa ancora oggi. L’Anthology pubblicata dalla Music Maniac è di quelle che ognuno dovrebbe avere in casa per ricordarsi quanto il lavoro seminale di Ric Albin, Dave Provost e Roger Clay sia stato un tassello fondamentale per la custodia dello spirito del punk dei 60’s durante il Medioevo degli anni Settanta.

 

Dopo Kingdom Day una voragine creativa sembra inghiottire Ric Albin e Roger Clay che per il successivo Mad Dog Dreams firmano solo tre pezzi (Reach the DawnEcho of an Empty HeartMad Dog Dreams) su nove, affidandosi per il resto alle penne di Karl Precoda, Brett Gurewitz, Robert Lloyd, Peter Holsapple, John Hiatt, Jack Lee. Le proporzioni non cambiano neppure quando la Skyclad pubblicherà l’anno successivo la versione per il mercato americano (Want Something) dove i due compensano l’aggiunta dell’autoctona Long Dark Night e dello strumentale County Line mettendo in scaletta Maria di Steve Wynn e Other End of Town scritta da Dean Chamberlain per un totale di 4 originali su undici pezzi.

Nonostante si assista a una sorta di estemporanea reunion dei Dream Syndicate, entrambi gli album hanno ben poco per cui essere ricordati se non per delle poltiglie abbastanza insipide, con le chitarre spesso tirate fino a somigliare a quelle di una hair band e una batteria microfonata come nelle peggiori registrazioni AOR che non salvano i pochi pezzi pregevoli della raccolta (Paper DollsZero House) decimando ulteriormente il pubblico già moribondo della band. Alla fine degli anni Ottanta i Droogs si trasformano da prime-movers in sopravvissuti.

 

Seppure non tutti i difetti del precedente disco siano stati corretti, Guerrilla Love-In suona complessivamente meglio rispetto a Mad Dog Dreams. Dentro ci finiscono i pezzi già usciti sulla versione americana di quello assieme a cinque nuovi inediti e ad una cover version di Morning Dew. Nonostante tutto però la musica del gruppo californiano sembra essersi come calcificata attorno ad un rock abbastanza banale, come dimostrano i sei minuti di Close to the Sun o una Saints of Mexico che sembra uno scarto degli Eagles, reggendo a fatica la distanza obbligata di un album e tirando fiato spesso, come in una fame d’aria che è sintomo di un collasso cardiaco cui la band sembra malvolentieri arrendersi. Noi qui aspettiamo che il corpo abbia un ultimo sussulto vitale. Che però arriva solo sottoforma di uno spasmo heavy metal che ne stravolge la faccia in una smorfia che a stento ce ne fa riconoscere i tratti.    

 

Se l’obiettivo era quello di centrare l’apertura del “garage” ad acceleratore pigiato, diciamo che i Droogs di Atomic Garage si infilano nell’autorimessa ammaccando tutto quanto c’è da ammaccare.

Diciamo dunque a scanso di equivoci, e per evitare di farvi falciare le gambe, che di “garage” music dentro quello che il nuovo Droogs pare promettere sin dal titolo, non ce n’è se non, in qualche passaggio, come la intendevano i Ramones agli sgoccioli della loro carriera (Guerrilla Love-In). Per il resto siamo di fronte ad un onesto ma un po’ arrugginito tentativo di sviluppare una scrittura personale che in realtà si rivela parecchio prolissa, con episodi inutilmente lunghi come That Dangerous YearTwo Headed SnakeLetter to the TimesTV Man cui avrebbe giovato una maggior concisione. Stranamente, gli episodi più riusciti sono invece quelli “a margine” dello stile classico della band californiana, come la bellissima ballata acustica Talk Thru the Night o la dolcissima, languida Gold Inside a Shrine. Il resto, pure senza essere del tutto disprezzabile (come TV Man e Come Heaven or Hell), appare un po’ forzato. Un po’ lontano dall’idea di bunker antiatomico dentro cui avremmo dovuto sentirci al sicuro. Un po’ lontano dai vecchi Droogs.   

 

A dieci anni da quel disco, si avvertiva il bisogno di dare un bel ripasso al libro dei drughi, siccome l’ultima raccolta, quella storica della Music Maniac, risale a 18 anni prima. Ecco dunque che questa nuova Collection, curata direttamente dal gruppo, riparte praticamente da dove quella terminava: i Droogs, smessi i panni di prime-movers della scena neo-sixties (non scordiamoci che il loro primo 7” con covers di Sonics e Shadows of Knight uscì nel ’72, con Lenny Kaye ancora intento a riporre sugli scaffali i 45 giri usati per allestire Nuggets, NdLYS) diventano una band dal suono più articolato, che lambisce i Flamin’ Groovies e gli Stooges e flirta con gente come Steve Wynn e Jeffrey Lee Pierce il quale regalerà loro Call Off Your Dogs. La gente continuerà a pulirsi il culo coi loro dischi e a negarsi il piacere di canzoni come Set My Love on YouWebster Field e Jack of Trades e loro continueranno a non salire sul palco dell’Heineken Jammin’ Festival e ad ignorare chi siano i Finley e Omar Pedrini. Stone cold world…Stone cold world!

Il ritorno in carne e ossa si fa attendere però altri dieci lunghi anni, facendo subito balenare in mente un quesito:

Chi uscirà a comprare il nuovo disco dei Droogs?

Probabilmente in pochissimi. Ancora meno di quei pochi che hanno saputo della sua pubblicazione. Perché i Droogs erano già una band di “basso profilo” quando erano in piena attività, figurarsi ora che pubblicano un disco dopo venti e passa anni dall’ultimo, anche se in formazione storica (Ric Albin, Roger Clay, Dave Provost – negli ultimi anni impegnato anche a fianco di Shelley Ganz nella nuova reincarnazione degli Unclaimed – , più il produttore/batterista Dave Klein). Cosa vengono a raccontarci dopo così tanto tempo? Ci raccontano di un rock ‘n’ roll che ama stare fuori dal recinto delle mode ovvero dal perimetro che ti garantisce successo, soldi immediati e un buon piano pensione, traguardo al quale peraltro i musicisti della band californiana credo siano ormai vicinissimi. Motivo per il quale il titolo del loro nuovo disco sembra particolarmente inappropriato. Un rock ‘n’ roll cui non interessa di invecchiare perché, diciamolo, è già nato vecchio. E quindi può sbattersene altamente le palle.

Ma al di là di questo, Young Gun è un disco che funziona. E funziona proprio perché lo sforzo di sembrare giovane rimane limitato alla scelta del titolo. Dentro invece ci sono i Droogs di sempre, quelli eternamente sospesi in una bolla temporale che ogni tanto scende a rimbalzare su qualche decennio e poi torna in alto senza lasciarsi intrappolare, canzoni fatte di quel suono robusto e sincero del quale sai che puoi fidarti, un po’ come accadeva nei dischi di Tom Petty o di Elliott Murphy.

Dischi su cui puoi poggiare la testa, oltre che la testina. Anche se siete, come me, delle teste di cazzo.

                                                                                                  Franco “Lys” Dimauro