La produzione di album in studio di Giorgio Gaber è numericamente davvero risibile, a dimostrazione di come quella canzonettistica sia diventata, dopo gli anni Sessanta, un’attività del tutto marginale negli interessi e nei mezzi espressivi dell’artista lombardo. Il formato canzone si adatta in effetti malamente ad una forza comunicativa in cui pause, cambi di tono, mimica, silenzi, invettive, esplosioni di rabbia, urla, gestualità hanno un’importanza espressiva basilare. Quella di “recitar cantando” era diventata insomma per Gaber la formula vincente e anche a livello strettamente musicale, il suo amore per la fusion, per il funk, per la musica etnica e per i dischi percussivi non avrebbe mai veramente attecchito in maniera decisiva, cedendo il passo a musiche non proprio meravigliose e pesantemente retrò, alla stregua degli chansonnier francesi da lui sempre amati e celebrati, come in questo caso. In studio insomma Gaber sembra quasi sempre parecchio svogliato e pare non riservare al suo “repertorio” la stessa cura che dedica ai suoi monologhi.
Ma non è così, ovviamente. Perché per I borghesi Gaber utilizza un piccolo accorgimento stilistico bivalente: la scelta di “tagliare” dal testo le parole che per ovvia assonanza di rime dovrebbero “chiudere” il verso da un lato sembra disinnescare il potere evocativo di quelle stesse parole ma in realtà ne acuiscono il valore e, sottraendolo all’autore, lo donano totalmente all’ascoltatore. È un trucco che viene subito sfruttato nel famoso ritornello del pezzo che intitola l’album (la “parola mancante” ma la cui presenza è tuttavia vibrante, è “coglioni”) così come nella successiva Ora che non sono più innamorato, dove la parola amore si inabissa assieme alla passione dei due protagonisti ma ancora più avanti, su Evasione, Gaber si prende la libertà di definire un amore paragonandolo a qualcosa che non si prende la briga di definire lasciando questa facoltà all’ascoltatore. Che è anche un atto democratico. Forse il supremo atto democratico di un autore di testi. Che strappa applausi a scena aperta anche da quella fetta di pubblico del quale si diverte ad evidenziare tic e magagne, malcostume e ipocrisie. Senza deriderla. Limitandosi a descriverla nelle sue peculiarità, come in quel gioiello che è Che bella gente o, un po’ più in là, su L’uomo sfera “ubbidiente riflessivo indifeso inoffensivo debole meschino vigliacco inchinato prostrato sudato consenziente affaticato”, l’uomo “inserito” e prostrato davanti al Dio Sistema, imborghesito e imbavagliato, ormai buono per scalciare sotto le coperte di casa per ventinove giorni al mese, abbandonandosi ogni 27 alle gioie della paga e del sesso domestico. Rigorosamente in posizione da cattolico osservante.
Franco “Lys” Dimauro