ZZ TOP – ZZ Top’s First Album (London)

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Seppure un po’ “trattenuto” rispetto allo sfoggio barbarico di saranno capaci nei dischi successivi e che ne legittimeranno lo stile, il primo album dei texani ZZ Top è un ottimo lavoro di blues-rock. Siamo nel perimetro “triangolare” caro ai Cream ma con un boogie più marcato, cosa che sarà il loro stile peculiare ma che qui si avverte solo a tratti (Neighbor, Neighbor e Shaking Your Tree in particolare ma anche Goin’ Down to Mexico o Backdoor Love Affair).

Un suono asciutto come di legno seccato al sole, quello del terzetto di Houston, che sa di asfalto rovente, fornelli da campeggio e cibo in scatola. Un riadattamento plastico del vigoroso blues già formulato da Billy Gibbons con i Moving Sidewalks ora pronto a diventare la musica per i rednecks e i camionisti che dal Texas passano la frontiera messicana attraverso quella cerniera di ruggine e sangue che è Ciudad Juárez.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ALICE COOPER – Killer (Warner Bros.)

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Halo of Flies è una di quelle cose che ti appende per le palle e ti lascia dondolare al soffitto fino a che non ti si strozza la prostata. Ma, nonostante l’eccesso di megalomania in cui Vincent Furnier sta sprofondando, Killer è una degna replica di Love It to Death, il disco di appena otto mesi più vecchio e che ha permesso ad Alice Cooper di salire nella Top 40 e di poter pisciare da lassù.

Certo, visto che non abbiamo ancora finito di battere le mani ala prima dello spettacolo shock-rock della strega del rock, gli applausi che sottolineano canzoni come Be My Lover, You Drive Me Nervous, Yeah, Yeah, Yeah o Under My Wheels sembrano più uno strascico spontaneo di quelli tributati a Is It My Body, I’m Eighteen e Caught in a Dream e i passaggi macabri del disco (Dead Babies, Killer) stavolta non provocano nessun brivido, solo un copioso, raccapricciante granduignolesco rovescio color sangue. Un sequel un po’ masticato. Come quelli de Lo Squalo e de La Casa.         

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

CAN – Tago-Mago (United Artists)

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Tago-Mago.

L’abominevole mondo dei Can.

Il posto dove la psichedelia diventa canone esoterico. Dove Ailester Crowley parla con lo yeti. E lo yeti gli risponde.

Dove l’Halleluhwah e l’Augmn trovano pari dignità.

Dove gli alieni cagano sul continente nero e gli africani gli rispondono battendo sui tamburi. E non si capisce se è un ritmo di benvenuto o una chiamata alle armi. Dove la world music diventa musica delle galassie e dei corpi celesti. Dove il ponte bicolore di Glenicke si tramuta in arcobaleno e gnomi e bambini si tuffano nelle acque dell’Havel e ne escono asciutti.

Le musiche dei Can sono in fondo una via parallela allo space-jazz di Sun Ra: strade che collegano la Terra al Cielo.

Persi nell’atollo di Tagomago i signori del kraut-rock alzano la loro colonna di incenso e di zolfo fino a toccare i piedi di Dio, per vederlo sorridere.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE KINKS – Muswell Hillbillies (RCA)

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Nel 1972, ospiti negli studi del Beat-Club, i Kinks improvvisano una jam country in Re mentre Ray Davies, chitarra a tracolla, presenta la band e annuncia la sua “reincarnazione” in Johnny Cash. Ma con il papillon.

Quella conversione era stata rivelata discograficamente l’anno precedente con Muswell Hillbillies, il disco “americano” dei Kinks (tanto da uscire in anticipo rispetto al Regno Unito), un po’ come avevano fatto con meno clamore i Downliners Sect sei anni prima di loro.

Il “gusto” british di Ray Davies non è però andato del tutto perduto: Alcohol è ad esempio una fanfara kinksiana al 100% come del resto lo è lo sketch da brass-band di Acute Schizophrenia Paranoia Blues e un po’ dappertutto, da Complicated Life a 20th Century Man, dal boogie randagio di Skin and Bone a quello al petricore di Here Come the People in Grey si avverte un’aria familiare, affine a quella che si respira nei dischi dei T. Rex.

E poi, beh…quale gruppo americano potrebbe scrivere un inno al tè come Have a Cuppa Tea e giocare con le parole e la geografia tanto da trasformare Muswell Hill in una location per l’hillbilly e farsi fotografare in un pub pensando di stare in un saloon? Perché in fondo l’America che vogliamo è sempre sotto casa più che al di là dell’oceano. Basta saperla cercare.    

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BLACK SABBATH – Master of Reality (Vertigo)  

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Non solo la tosse di Iommi che introduce il disco, ma tutto Master of Reality è un incredibile rigurgito. Rispetto al suono asciutto dei due album dell’anno precedente, il nuovo disco dei Black Sabbath ha un’enfasi ritmica più marcata, più guerriera. Canzoni come Children of the Grave e After Forever sembrano una parata che annuncia l’arrivo delle legioni metallare che in realtà arriveranno davvero rivendicando proprio i Sabbath come padri e modelli.

E in effetti da ogni singolo giro che i riff di After Forever, Into the Void, Lord of This World, Sweet Leaf e Children of the Grave hanno fatto su un giradischi, è nata una band. Ed è un assioma che non ha bisogno di dimostrazioni.   

Nel complesso Master of Reality, eccezion fatta per le frustate di Sweet Leaf in tutto e per tutto simili a quelle dei classici scritti fino a quel momento, si rivela lavoro meno spettrale rispetto ai dischi che l’hanno preceduto anche se quando parte la chitarra ferale di Tony Iommi e il canto agghiacciante di Ozzy Osbourne un brivido corre sempre lungo la schiena, come se i due adagiassero una coperta ipotermica sul corpo gelato del rock.

Sempre illuminata da un sole gelido la musica del quartetto di Birmingham si conferma uguale a nient’altro che a sé stessa, sfidando i grandi del rock armati solo di pietre.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LUCIO DALLA – Storie di casa mia (RCA)  

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Dopo quello con il paroliere Sergio Bardotti è quello con la storica ed illustratrice Paola Pallottino l’incontro artistico cronologicamente più importante per Lucio Dalla. È lei a scrivere le liriche per 4/3/1943 che consentiranno al musicista bolognese di conquistare il podio di Sanremo. Ed è ancora lei ad intervenire fattivamente alla gestazione di Storie di casa mia, dopo aver già esordito al fianco di Dalla sull’album precedente. Un terzo delle canzoni del terzo album di Lucio porta la sua firma. E sono le migliori, separatamente. Anche se il disco è un tentativo di opera concettuale, una bozza della trilogia che troverà forma compiuta nella collaborazione con Roberto Roversi.

Il tema del disco, condotto tuttavia con vaghezza, è quello dello smarrimento.

Ce lo ricorda Itaca e ce lo ribadisce Lucio dove vai?. Errabonde tracce di apertura e di chiusura di un disco dove vengono toccati in profondità temi scottanti come quelli della pedofilia, della carcerazione e dell’alienazione metropolitana, seppur mascherati dietro una dialettica fiabesca fatta di metafore e allegorie.

Dentro questo viaggio alla ricerca di sé stesso, Dalla sé stesso lo ritrova veramente. Aiutato dagli altri.

E mostra i suoi documenti in Un uomo come me e soprattutto nella biografia nuda di 4/3/1943. Che sono i documenti che in molti gli chiederanno di esibire, da lì in avanti. Anche in età adulta, quando avrà da esibire oltre che i documenti anche una sfilza di assi tirati via dalla manica.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GIORGIO GABER – I borghesi (Carosello)  

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La produzione di album in studio di Giorgio Gaber è numericamente davvero risibile, a dimostrazione di come quella canzonettistica sia diventata, dopo gli anni Sessanta, un’attività del tutto marginale negli interessi e nei mezzi espressivi dell’artista lombardo. Il formato canzone si adatta in effetti malamente ad una forza comunicativa in cui pause, cambi di tono, mimica, silenzi, invettive, esplosioni di rabbia, urla, gestualità hanno un’importanza espressiva basilare. Quella di “recitar cantando” era diventata insomma per Gaber la formula vincente e anche a livello strettamente musicale, il suo amore per la fusion, per il funk, per la musica etnica e per i dischi percussivi non avrebbe mai veramente attecchito in maniera decisiva, cedendo il passo a musiche non proprio meravigliose e pesantemente retrò, alla stregua degli chansonnier francesi da lui sempre amati e celebrati, come in questo caso. In studio insomma Gaber sembra quasi sempre parecchio svogliato e pare non riservare al suo “repertorio” la stessa cura che dedica ai suoi monologhi.

Ma non è così, ovviamente. Perché per I borghesi Gaber utilizza un piccolo accorgimento stilistico bivalente: la scelta di “tagliare” dal testo le parole che per ovvia assonanza di rime dovrebbero “chiudere” il verso da un lato sembra disinnescare il potere evocativo di quelle stesse parole ma in realtà ne acuiscono il valore e, sottraendolo all’autore, lo donano totalmente all’ascoltatore. È un trucco che viene subito sfruttato nel famoso ritornello del pezzo che intitola l’album (la “parola mancante” ma la cui presenza è tuttavia vibrante, è “coglioni”) così come nella successiva Ora che non sono più innamorato, dove la parola amore si inabissa assieme alla passione dei due protagonisti ma ancora più avanti, su Evasione, Gaber si prende la libertà di definire un amore paragonandolo a qualcosa che non si prende la briga di definire lasciando questa facoltà all’ascoltatore. Che è anche un atto democratico. Forse il supremo atto democratico di un autore di testi. Che strappa applausi a scena aperta anche da quella fetta di pubblico del quale si diverte ad evidenziare tic e magagne, malcostume e ipocrisie. Senza deriderla. Limitandosi a descriverla nelle sue peculiarità, come in quel gioiello che è Che bella gente o, un po’ più in là, su L’uomo sferaubbidiente riflessivo indifeso inoffensivo debole meschino vigliacco inchinato prostrato sudato consenziente affaticato”, l’uomo “inserito” e prostrato davanti al Dio Sistema, imborghesito e imbavagliato, ormai buono per scalciare sotto le coperte di casa per ventinove giorni al mese, abbandonandosi ogni 27 alle gioie della paga e del sesso domestico. Rigorosamente in posizione da cattolico osservante.      

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

I MARC 4 – 1 (Seven7Men)  

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M(arco Majorana), A(ntonello Vannucchi), R(oberto Podio), C(arlo Pes) sono 4 musicisti dell’Orchestra della Rai che nell’Orchestra della Rai suonano quello che l’Orchestra della Rai impone loro di suonare. Ma la sera, all’ora del cocktail, vogliono suonare quel che piace a loro. Beat, jazz, bossanova, swing. Roba leggera come piume dove tutto sembra suonare in perfetta sintonia con il tintinnio dei bicchieri da aperitivo. Musica da salotto, buona per accompagnare i movimenti verticali di olive intinte nel Martini e quelli elegantemente oscillanti di coppe e tumbler che si spostano alternativamente dai tavolini dei locali chic alle labbra delle belle donne delle città italiane, andata e ritorno.

Non sono gli unici a farlo in quegli anni ma, in un settore che è a quasi totale appannaggio di solisti di gran prestigio (Morricone, Nicolai, Rota, Ortolani, Piccioni, Pregadio, Cipriani, Trovajoli), sono quelli che lo fanno come collettivo, riuscendo ad infilare con una naturalezza assurda ben sedici album in meno di cinque anni, senza sbagliare una sola nota.  

Roba da stakanovisti del pentagramma.

E da fanatici dell’aperitivo di classe.      

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE BYRDS – Farther Along (Columbia)  

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È l’estate del 1971 e a pochissimi giorni dalla pubblicazione di Byrdmaniax i Byrds si chiudono in studio per realizzare un nuovo disco completamente autoprodotto. Il risultato arriva nei negozi prima che l’anno si concluda e mostra una band ormai navigata nell’eseguire un country rock da sempre affascinato del gospel e dai canti pastorali e che con l’ingresso di Kim Fowley al tavolo degli autori strizza l’occhio  sempre con più smanceria alla musica novelty. Commercialmente, il blend dei Byrds fatica però negli Stati Uniti a tenere testa al successo delle band “satellite” nate dalle loro scissioni. Curiosamente, è l’Europa a mostrarsi più ricettiva verso queste musiche old-fashion, regalando addirittura un primo posto in classifica ad America’s Great National Pastime, una sorniona presa in giro sulle abitudini del popolo americano. L’attacco di Tiffany Queen, sorta di incrocio tra Chuck Berry e l’onnipresente Bob Dylan, lascia presagire una svolta verso un suono più duro ma già dalla Get Down Your Line di Gene Parsons il volo dei Byrds viene dirottato a rotta di collo sulle sue più consuete rotte country-folk, fino al tripudio di banjo di Bristol Steam Convention Blues.

Sono rotte ormai ben conosciute. Qualunque cacciatore potrebbe alzare in alto le sue canne e mandare giù una buona parte dello stormo. Ma, a sorpresa, lo stormo si schianta da sé, il 24 febbraio del 1973, mentre solca i cieli del New Jersey. Ad ucciderlo è lo stesso Roger McGuinn, allettato dall’offerta della Asylum di riunire la vecchia formazione per un ultimo spettacolare passaggio sopra i cieli d’America.   

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

MOUNTAIN – Climbing! / Nantucket Sleighride (Raven)

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Il suono dei Mountain è emblematico di un certo modo di intendere il rock tipico degli anni ‘70: ridondante, pingue, eccessivo nella forma e nei decibel (Felix Pappalardi sarà costretto ad “abdicare” per la sordità conquistata sul palco, NdLYS), tronfio e onanistico. Alla ricerca di una perfezione che si traduceva in estenuanti sedute in studio e che avviliva e scoraggiava ogni tentativo di emulazione. Tecnica e volumi altissimi scaraventati addosso all’audience, in un trionfo di riff hard (Mississippi Queen, Silver Paper e You Can‘t Get Away i più celebri tra quelli di questi primi due LPs) e ballate acustiche che oggi farebbero la felicità dei fans dei Wolfmother. Tutto vissuto sul filo del rasoio, droghe comprese. Finchè improvvisamente il 17/4/83 Gail Collins si rompe le balle di un marito sfatto che ciondola per casa spaccando i soprammobili e gli brucia la nuca a colpi di pistola.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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