XTC – English Settlement (Virgin)

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Un geoglifo appare sulla copertina di English Settlement.

Bianco su sfondo verdissimo, proprio come sulla collina dell’Oxfordshine che lo ospita da più di tremila anni, sta lì a significare che per gli XTC è arrivato il momento di lasciare il segno nella storia della musica inglese, proprio come avevano fatto i loro idoli Beatles, Kinks e Yes con dischi sempre più impegnativi e traboccanti. English Settlement esce infatti in doppio vinile e introduce ulteriori ritocchi scenografici alla già ricca mise en scène dell’arabesque del quartetto, con l’introduzione di una chitarra a dodici corde che dona una leggerezza tutta nuova a gran parte del menú, un minuzioso lavoro di caratura delle percussioni e le finestre aperte su influenze etniche che dalla Spagna si spostano fino in Africa senza tuttavia mai smarrire l’orizzonte inglesissimo della formazione di Swindon. Senza mai sporcarsi veramente, verrebbe da dire: la musica degli XTC preserva e anzi rivendica, man mano che si complica, questa sua aria aristocratica che mette un po’ di soggezione o che la fa sempre sentire un po’ troppo fredda, un po’ troppo calcolata, come se sul palco (per le ultime volte che ci saranno occasioni simili) ci fosse un gruppo di artisti che hanno fatto tesoro delle idee di Diderot. Ma lo spettacolo, al di là delle strategie usate per portarlo a termine, è di quello che fa tremare non solo le pareti di legno delle playhouses di elisabettiana memoria ma l’intera pop music inglese.

I capolavori, qui dentro, si sprecano. Anche negli atti meno famosi dell’opera, come in quelle Leisure e Fly on the Wall che allontanandosi dal classico stile del gruppo ma conservandone per intero l’artificio pop ne rappresentano i vertici espressivi e ne mostrano le vie evolutive tanto quanto un pezzo come It’s Nearly Africa sembra incrociare le ricerche etno-antropologiche avviate dai Talking Heads e la cattiva No Thugs in Our House evoca innaturali quanto riuscite intersezioni tra gli spigoli dell’art-rock e gli spigoli dei Jam, come in una delle illusioni ottiche di Edward Adelson. Che rappresentano appena un terzo di un’opera pop maestosa, con cui l’insediamento inglese degli XTC lascia il suo segno nella storia, proprio come il cavallo bianco di Uffington.     

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

RANK AND FILE – Sundown (Slash)

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Il recupero della musica dei cowboys dovette sembrare davvero una cosa divertentissima ai reduci del punk americano, se è vero che gran parte di loro scelsero di convertirsi a quello che venne definito essenzialmente come cow-punk ma che prevedeva scorribande dentro tutto il perímetro della old-music, dal rockabilly al country & western all’hoedown. Successe anche ai fratelli Kinman dei Dils e ad Alejandro Escovedo dei Nuns, che all’inizio degli anni Ottanta mísero su l’allegra combriccola dei Rank and File, finendo in quella sacca di roots music moderna che era la Slash Records di Bob Biggs per la quale pubblicano quella piccola meraviglia che è Sundown. Totalmente figlio di questa tendenza diffusa a fare della musica da bovari la cosa più figa del mondo.

In realtà dentro la musica dei Rank and File emerge prepotente anche l’implume beat dei primi Beatles (che è anzi la prima cosa ad affiorare dai solchi, una volta poggiata la puntina su Amanda Ruth) e degli Everly Brothers, come in quell’ode alla fortuna che è Lucky Day, e poi una propensione per quei giri elastici alla Peter Gunn che echeggiano un po’ dappertutto e per quei ritmi che ricordano un Tex Willer al galoppo come quello che fa mostra di sè sulla title-track e non solo lì. E che magari fa un po’ sorridere per la sua sagoma fumettistica. Ma è meglio risparmiarsi il sorriso per la successiva, buffa I Went Walking in cui sembra di assistere ad un musical country interpretato dagli Abba. E qui il sorriso, cartonato anch’esso, ci scappa davvero.

A dimostrazione che non tutto quello che luccica nella prateria è necessariamente oro, come del resto anche sulle strade asfaltate.

Ma non tutto quel che è marrone è necessariamente merda.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

MINK DeVILLE – Cabretta (Capitol)

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Uno dei capolavori indiscussi del rock ‘n’ roll. Indiscussi soprattutto nella maniera in cui si è, semplicemente, deciso di non discuterne, cancellandolo dalla storia. Ignorato anche da coloro che ancora applaudivano per ogni peto dei Rolling Stones e che pochi anni prima, proprio a New York, avevano tributato onore e gloria ai loro epigoni di era pre-punk che rispondevano al nome di New York Dolls. O a quanti da ormai dieci anni tolgono il cappello quando passa Van Morrison (che sembra un modello distante, ma invece non lo è affatto: ascoltate Mixed Up, Shook Up Girl e poi ripassate da qui, NdLYS).

Vai tu a vedere come cazzo si combinano le pieghe della storia, che lasciano chiappe e piedi scoperti a qualcuno e invece avvolgono come petali di cotone altri seduti al nostro fianco.

E invece i Mink DeVille vengono per stropicciarle, quelle lenzuola. O per mettersele addosso giocando a fare i fantasmi degli Stones come in Gunslinger, finendo per risultare più carnali di quelli veri, che nel frattempo sono diventati evanescenti come dei fantasmi veri. Oppure per raccontare, con lo stesso vezzo da pappone innamorato del sassofono, l’unica strada della Grande Mela ignorata da Lou Reed (che però la racconterà qualche anno dopo su Dirty Blvd.) in quella formidabile ballata metropolitana che è Venus of Avenue D.

Gli altri classici di culto sono ovviamente il boogie tutto pieno di graffi di Cadillac Walk e il Lou Reed (ancora lui) perso nei vicoli spagnoli di Spanish Stroll ma tutto Cabretta rivendica il ruolo che non gli è stato dato di albero secolare cresciuto nella giungla newyorkese. Se preferite gli orti botanici, son fatti vostri.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TWINK – Think Pink (Polydor)

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Nel luglio del 1999 attendemmo un segno dall’alto, come annunciato da Twink nel verso introduttivo del suo Think Pink. Aspettammo fino al 31 del mese, quando l’unico segnale che arrivò fu lo schianto della navicella Lunar Prospector sulla superficie della luna. Purnondimeno continuammo ad aspettare, come Vladimir ed Estragon. E come loro, non si sa bene cosa.

Insomma, Twink col futuro non c’aveva preso.

Un po’ meglio era andata col passato, siccome il suo primo disco arriva a chiudere la cerniera sulla stagione della psichedelia che aveva caratterizzato la musica inglese dell’ultimo spicchio degli anni Sessanta e in qualche modo lo trova in veste di pontefice fra il tramonto di quella e l’alba dell’era prog. Perchè al di là dell’evanescenza della prima sembra condensarsi, nella foresta rosa di Twink, una nebbia sinistra che è già foriera di presagi inquietanti, come se i fantasmi di Barrett si fossero alla fine materializzati in mostri metà diavolo e metà fauni, come in realtà sarà. Dentro un pezzo come Mexican Grass War ad esempio c’è tutta una ritualità tribale che è in parte The Brig del Living Theatre e in parte giungla cosmica come quella dei matrix teutonici dei primi anni Settanta. Fantasmi che tuttavia ritornano sottoforma di ectoplasmi di cristallo nascosti dentro il cavallo a dondolo per bambini down di Three Little Piggies e di passeri vestiti con la tunica di Cristo su The Sparrow Is a Sign. Ma su tutto svetta la cattedrale a guglie psichedeliche di Ten Thousand Words in a Cardboard Box che è l’elettricità di Hendrix che si infiltra dentro il muro invaso dalle edere dei Tyrannosaurus Rex. E da lì i passeri, e i corvi, guardano il nostro mondo che ai loro occhi deve sembrare davvero mísero e lontano.       

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TH’ LOSIN STREAKS – Sounds of Violence (Slovenly)

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Puro suono delinquenziale nella tradizione tracciata dai Morlocks e dai Makers per questa band californiana al debutto e che squarcia il ventre alle vecchie carcasse di Leavin’ Here, di Hate degli Stoics, di It’s My Pride dei Guess Who? e Blue Girl dei Bad Roads appendendone fuori le viscere per lasciarle seccare al sole accanto ai loro stracci che sono un maglioncino a collo alto alla Birds come Tried to Tell, un jeans strappato come John Brown, un pantalone di velluto a sigaretta come Your Love, Now, un gilet di pelle come Beg, Steal or Borrow, una pelliccia di mammuth come Maybe I Will.

Tutti stesi lì, accanto ai vostri intestini. In attesa voi stendiate la bandiera bianca.  

                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

CAMPER VAN BEETHOVEN – Our Beloved Revolutionary Sweetheart (Virgin)  

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Il logo con le due “vergini” era stato disegnato da Roger Dean per la linea progressive della Virgin (Mike Oldfield, Gong, Steve Hillage, Tangerine Dream, Faust, Kevin Coyne, ecc.) e poi abbandonata al giro di boa degli anni Settanta. Ma David Lowery, al momento di firmare il nuovo contratto con la Virgin, era stato chiaro: voleva a tutti i costi quel logo sul primo disco major della sua band.

E così le due vergini siamesi circondate dai rettili erano riapparse per la prima volta dopo più di dieci anni fuori e dentro Our Beloved Revolutionary Sweetheart, l’album con i Camper Van Beethoven meno bizzarri del solito ma incredibilmente efficaci con quell’antipasto delle progressioni melodiche che avrebbero reso famosi da lì a breve i Pixies esibite su Devil Song, la bella marcia funebre di O Death ripresa dal libro dei requiem dei Kaleidoscope, lo ska bubblegum di One of These Days e il reggae di Life Is Grand risolto alla maniera dei Blur che ancora non esistono. Ma, nonostante questi e altri (la seconda parte di Eye of Fatima o la She Divines Water entrambe figlie del suono country dei monti Appalachi) grandi pregi il disco non tiene per tutta la sua durata, disfacendosi man mano che passano i minuti fino a decomporsi del tutto e lasciandoci in mano un po’ di polvere. Miracolosa. Ma destinata ad essere dispersa dal vento.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STEVE WYNN – Melting in the Dark (Offworld)

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L’unico disco memorabile dello Steve Wynn solista esce esattamente a metà anni Novanta. E a renderlo tale contribuiscono due fattori: le canzoni di Steve e il vestito che i Come riescono a cucirgli addosso prima che l’autore decida di darle tutti in saldo (come era già successo con la bellissima Smooth, svenduta un paio d’anni prima agli svedesi Nomads, NdLYS).

Il carattere indomabile del disco viene rivelato subito dall’imbizzarrita Why, con le chitarre che esplodono come barili di polvere da sparo e i tamburi che sembrano una batteria di mortaretti. Ma è solo una delle tante anime di un disco che si fregia di esibire una The Angels figlia illegittima del Lou Reed di New York, un power-pop imparentato con gli Hoodoo Gurus come quello di Shelley’s Blues Pt. 2, una Melting in the Dark dove i sibili delle chitarre sembrano fischi di pistola, una Smooth che riapre le ferite sui lividi ancora freschi della versione dei Nomads, una delizia come Epilogue che degrada nel Pacifico dopo essersi crogiolata nella sabbia del deserto californiano o una What We Call Love che invece avanza rotolando in un mare crespo di chitarre. E anche quando in Drizzle Silence Is Your Only Friend sembra di intravedere, alla luce fioca delle candele, un barlume di disincantato blasé, lo spirito ne esce rinvigorito, come dopo un abbraccio.        

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro  

THE LONG RYDERS – Selvaggio West

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Negli Stati Uniti avere i beatle boots ai piedi al posto dei camperos non ti salva dal pestare lo sterco di vacca, neanche se vivi a Los Angeles e non nella grande provincia agricola americana.

Accade così che Sid Griffin, mentre percorre col suo amico/nemico Shelley Ganz il Sunset Strip, mette il piede nella merda. Sid abbassa gli occhi, poi li alza al cielo imprecando. Si piega per pulire ed è in quel preciso momento che decifra il segnale.

Saluta in fretta Shelley con cui sta avendo un diverbio sulla direzione musicale da dare alla loro band e corre a casa. Si sfila gli stivaletti ancora sporchi di concime già secco come biada, mette sul piatto Sweetheart of the Rodeo e telefona agli altri suoi amici degli Unclaimed, Steve McCarthy e Greg Sowders e li convoca a casa sua. Ha avuto una folgorazione. Ora sa cosa vuole: abbandonare Ganz ai suoi deliri psichedelici e dedicare la sua vita alla musica rurale americana, secondo i vangeli di Gram Parsons, Gene Clark, Stephen Stills. Nascono così i Long Ryders, la più tradizionalista tra le band restauratrici che stanno risanando il rock americano e riappiccicando una ad una tutte le stelle sulla Old Glory statunitense.

Fu così, molto prima che l’“Americana” finisse per ingolfare gli scaffali dei negozi specializzati, una accozzaglia di cowpunks tentò il recupero delle radici della musica statunitense con un pugno di dischi zuppi di country-rock, folk elettrico, swamp blues, hoedown, honky tonk, bluegrass. Erano i cosiddetti “restauratori” votati al culto di Messia dell’elettricità rurale come Neil Young o Gram Parsons.

Pubblicano dapprima un EP (10-5-60) e poi un intero album (Native Sons), agganciano prima Steve Wynn e quindi Gene Clark in persona, che regala la sua voce su Ivory Tower. Poi sganciano entrambi, mentre il loro nome si impone all’ attenzione del grande pubblico. Questa gustosa riedizione della Prima Records riapre una breccia sui primi anni di carriera dei Ryders, quelli in cui Griffin sta tracciando, proprio come i vecchi pionieri americani, il solco della propria identità artistica. Orgogliosamente patriottica, volutamente e fortemente avvinghiata alle radici della musica americana. Ed infatti è così che verrà ribattezzata, esattamente dieci anni dopo: Americana. All’epoca del debutto dei Ryders invece viene coniato il termine cow-punk come a voler sottolineare la natura contadina, sanguigna, passionale di questi giovani eroi del rock in fuga dalle metropoli che del punk conservano l’irruenza ma non i tratti urbani. Che probabilmente sarebbero cacciati da un raduno country come era successo vent’anni prima al Dylan elettrico durante il Folk Festival ma che invece vengono accolti con entusiasmo nel circolo del  dopolavoro per i restauratori statunitensi del Paisley Underground grazie al tiro di pezzi come Join My Gang, 10-5-60, Final Wild Son, Wreck of the 809, Still Get By, Run Dusty Run, Ivory Tower piene di arpeggi byrdsiani, lampi power-pop scaricati dalla nube Flamin’ Groovies, veloci assoli di mandolino e banjo nella più classica tradizione bluegrass, truci hoedown da epopea western che inscenano un rodeo polveroso e avvincente che fa dei Long Ryders i migliori mandriani della stagione.

A conferma che pestare merda porta fortuna.

Sulla scorta di queste piccole zolle di terra americana, nel 1985 i Long Ryders sono fra le prime band dell’underground statunitense a finire sotto contratto con una major. Prima ancora di Hüsker Dü, Sonic Youth, R.E.M.. A portarli alla corte di Dave Robinson (finito alla Island dopo l’acquisizione da parte di quest’ultima della sua Stiff Records) ci pensa Nick Stewart, il cui amore per la roots music statunitense gli varrà il titolo di Mr. Capitan America e lo porterà a fondare un’etichetta dedicata all’“Americana” chiamata Gravity.

Il risultato si intitola State of Our Union.

Registrato nei Chipping Norton Recording Studios con il produttore di area Stiff Will Burch, si apre con quello che, attraverso i richiami al mito della frontiera americana e un riff incalzante, diventa il pezzo-simbolo della band californiana: Looking for Lewis & Clark trascina i cowboys al caldo della Top75 britannica per un mesetto facendoli rientrare in patria trionfanti e carichi di energia per poter affrontare la recensione al veleno che Bart Bull riserva loro sulle colonne di Spin rimproverandoli di essere dei figuranti buoni per fare i sosia dei Buffalo Springfield. E in effetti il secondo album dei Long Ryders abbonda di retorica. Funzionale però alla missione di restauro che loro, e non solo loro (basti pensare a Del Fuegos, Beat Farmers, Blasters o Jason and The Scorchers), intendono divulgare, amanuensi della tradizione country/rock a stelle e strisce. La rivoluzione di cui Bull li rimprovera di sventolare soltanto la bandiera se c’è stata è già stata fatta molti anni prima da gente come Byrds e Flying Burrito Bros. I Long Ryders ne perpetuano la memoria, senza sconsacrarne il sepolcro.

Ancora più bello del primo è però il pezzo successivo, una scintillante ballata power-pop figlia diretta dei Flamin’ Groovies scritta da Stephen McCarthy che più tardi verrà riportata in Inghilterra dai Dr. Feelgood. Sull’album sono messe in sequenza, a dare un senso a tutto il percorso di un disco che, nonostante qualche momento di stanca (WDIAHere Comes That Train AgainTwo Kinds of Love), oscilla abilmente fra le polverose piste dei pionieri e certo pub-rock che i Ryders tornano a respirare durante il soggiorno inglese (Dave Edmunds e Nick Lowe in primis).

 

Il cambio ai vertici della sezione inglese della Island impone ai Long Ryders di chiedere asilo artistico presso la sua filiale americana per la quale pubblicano, concedendosi una bella vacanza a Nassau, un disco fantastico come Two Fisted Tales che era però il triste preludio alla fine del gruppo, silurato dal nocciolo duro dei fans più intransigenti con l’accusa di essersi “venduto” ai grandi industriali della Miller Beer, in una sorte condivisa con i “fratelli” Del Fuegos, dB’s e Cruzados e che non è mai stata digerita e compresa ne’ dalla band, ne’ da me. Ma il fanatismo segue spesso strade imprevedibili. Sotto ogni vessillo. Anche sotto quello apparentemente libertario del rock ‘n’ roll.

Credendo dunque di essere lì lì per imprimere la propria orma nella Walk of Fame hollywoodiana, mentre camminano col naso che guarda al grande cielo californiano, i Long Ryders pestano la più grande girella di merda che abbiano mai potuto calpestare.

L’album che chiude per un lunghissimo periodo la storia del gruppo vive invece, nonostante gli stessi puristi balordi di cui sopra o i loro parenti stretti ci possano trovare sicuramente qualche indizio di compromesso, in perfetto equilibrio fra quelle che sin dagli esordi sono le due anime della band: quella sanguigna e impetuosa di Sid Griffin e quella più docile, introversa, tranquilla di Stephen McCarthy mentre la ricerca delle radici si risolve adesso in un suono forse meno grezzo che Ed Stasium contribuisce a rendere più energico, vivo, tagliente. Con meno sabbia, meno odore di terra e fieno e più polveri metalliche. I due estratti sono proposti nella sequenza iniziale: Gunslinger Man apre l’album come una delle classiche porte basculanti da saloon. A fare irruzione è il tipico pistolero da pellicola western armato di Smith & Wesson. Dopo di lui, a coprirgli le spalle, entrano gli NRBQ: I Want You è il brano che i Long Ryders scelgono, con la complicità delle Bangles, per assecondare l’imposizione della Island di realizzare una cover version da dare in pasto al nostalgico pubblico americano che compra i dischi della band. Tom Stevens contribuisce con una A Stitch in Time che ha lo stesso profilo di The One I Love dei R.E.M. seppur con un’aria più contadina. Tutto il resto è farina pregevole del sacco di Griffin (l’urlo elettrico di Prairie Fire, l’omaggio alla Guerra Civile di Harriet Tubman’s Gonna Carry Me Home) e McCarthy (la ballata popolare di The Lights in the Way sottolineata dalla fisarmonica di David Hidalgo dei Los Lobos, il mulinello byrdsiano di Man of Misery). A poche settimane dalla stampa, Stevens sarà il primo ad abbandonare il ranch, seguito a ruota da McCarthy, decretando nei fatti la fine dell’avventura dei Long Ryders. Che torneranno di tanto in tanto a proiettare le loro ombre, sempre meno asciutte, lungo le strade ormai asfaltate della lunga pianura americana.

Sorta di testamento apocrifo regalato ai fans attraverso il fan club della band all’indomani del suo (primo) scioglimento, Metallic B.O. è il disco che in qualche maniera è chiamato a rappresentare i Long Ryders che non ti aspetti. I Long Ryders alle prese con un repertorio insolito e a tratti disarmante che se da un lato si trascina dietro i vecchi trascorsi di Griffin tra le fila degli Unclaimed con una bella versione della You’re Gonna Miss Me degli Elevators e di una lunga tirata sulla Blues Theme di Davie Allan e dall’altro paga un incomprensibile tributo a John Lydon che passa attraverso Anarchy in the UK e Public Image, vede fioccare l’amore per il folk-rock di Dylan e la musica tradizionale americana in mezzo a stranianti cover versions di pezzi dei Pogues e di Michael Jackson.

Il taglio dell’insieme è comunque semi-amatoriale e, tranne poche eccezioni, del tutto trascurabile. Ma la nostalgia rimane.

La reunion dei Ryders del 2004, a diciassette anni dalla separazione alla vigilia del Joshua Tree tour degli U2 che li vedeva come opening-act viene documentata da un disco e da un DVD registrati dal vivo e intitolati entrambi State of our ReUnion. Fatto salvo che le reunion non impressionano più nessuno e anzi spesso fanno più danno che altro, rivedere i Ryders nella line-up originale rimettere mano al loro repertorio classico (ma nella scaletta del tour c’era la consueta “riserva” di covers, dagli Elevators agli Undertones, NdLYS) dà ancora qualche brivido, soprattutto quando le dita scivolano su pezzi inviolabili come la perfetta Ivory Tower scritta dal primissimo bassista Barry Shank o la cavalcata C&W di Final Wild Son. Fuori tempo massimo per raccogliere quanto i Ryders avrebbero meritato quando erano in salute ma ritemprante per quanti hanno respirato la polvere dei loro cavalli.

Com’era già successo in quella “ReUnion” che però non aveva dato alcun frutto dal punto di vista creativo, i Long Ryders ricompattano le fila ancora una volta dieci anni dopo. La nuova rimpatriata, a coda dell’operazione di recupero avviata dalla Cherry Red, ha invece tutta l’aria di un rientro “operativo” a tutti gli effetti. Psychedelic Country Soul arriva ad aggiornare un repertorio fermo musicalmente al 1987, saltando a piè pari un’intera generazione cui il nome dei Long Ryders dirà dunque poco o nulla. 

Dunque si riparte da qui, da questo Psychedelic Country Soul sulla cui copertina le quattro sagome truci di State of Our Union non fanno più paura e cui affideresti volentieri la cura della tua mandria invece di nasconderla come succedeva all’epoca in cui arrivarono in città attraversando al galoppo le praterie degli anni Ottanta.    

Finito da anni il tempo di fare razzie nelle fattorie è dunque il tempo di ricordare i tempi andati. Di quella volta lungo la strada ferrata. E poi di quell’altra dentro il saloon di MacBride. E di quella in cui attraversarono la frontiera senza documenti, nascosti in un carro di sterco e fieno. E quella volta che la fecero franca sfuggendo allo sceriffo e alla legge. Lo fanno talvolta con la giusta carica emotiva (Molly Somebody, The Sound, Greenville, What the Eagle Sees), tanto che l’aria sembra ancora vibrare di quel ricordo. E nella traccia conclusiva lo fanno in maniera davvero persuasiva e avvincente, deformando il loro country-rock in visioni psichedeliche che sono l’omaggio tardivo al Paisley Underground che mancò nei loro giorni gloriosi.  

Altre volte le loro memorie si confondono con quelle di altri. Mancano i particolari che in qualche modo ne certifichino la storia e la rendano unica ed autentica. Ma è solo un “difetto” marginale in un’opera che è un ottimo compendio adulto alla storia dei “giovani” Long Ryders e che può dignitosamente affiancare la discografia ormai storica della band californiana.

Un violino che ricorda il Dylan di Desire si frappone fra noi e i Long Ryders in apertura di September November Sometime. E il sospetto, poi confermato dall’ascolto dell’intero album, è che i Long Ryders si siano un po’ incancreniti in un roots-rock sempre più vicino alle radici e sempre meno ai germogli di quello che fu il fenomeno che li vide protagonisti del recupero della musica tradizionale durante gli anni Ottanta. September November è infatti un disco intriso di una mestizia resa ancora più amara dal tributo più o meno dovuto alla memoria di Tom Stevens (sostituito per l’occasione da Murry Hammond degli Old 97’s) e alla dedica all’Ucraina. 

Il tono dell’intero disco, una volta spenta l’enfasi dylaniana del primo pezzo, è quello dimesso della ballata, sia ora folk, sia ora più crudamente country o bluegrass. Ma senza grossi picchi di energia. Come un condor che dopo aver attraversato distese di polveri e deserto si sia accucciato nel suo nido a pulirsi le piume.

Non che la band sia mai stata alfiere di chissà quale rivoluzione ma a questo giro sembra come se, a restauro ormai completato di quella vecchia sedia a dondolo da veranda, abbia avuto la meglio il desiderio di andarcisi a sedere per guardare il tramonto invece che quello di provare a riverniciare tutto con colori più moderni, scegliendo un approccio diametralmente divergente a quello dei vecchi compagni Dream Syndicate che invece hanno imbroccato la via capricciosa dell’accostamento bizzarro del vecchio col nuovo sottolineando i tratti trasversali e fusion dell’azzardo stilistico. Nella sfida, semmai ci fosse, i Long Ryders fanno insomma la figura dei vecchi che sbrodolano ancora ascoltando i dischi di Merle Haggard dal vecchio giradischi del nonno, un po’ infastiditi dalla luce e dai curiosi, ostinati come dei vietcong, con la scorza dura dei rednecks e la barba da taglialegna, il fazzoletto arrotolato sul collo, gli stivali imbrattati ai piedi.

Quel che ci regalano non è un brutto album ma un disco già vecchio, questo sicuramente. Spoglio di quella epica da film western che era fumetto e fantasia, il suono dei Long Ryders finisce per diventare un’ombra di quello dei padri che lo hanno ispirato, senza raggiungere la lunghezza che quell’ombra, sul far della sera, riusciva a coprire sul terreno.

Quasi un disco da Natale.

Senza il Natale.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

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COMPULSIVE GAMBLERS – Crystal Gazing Luck Amazing (Sympathy for the Record Industry)

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Una sorta di go-kart che va a cozzare contro le macchinine del garage-rock, accartocciandole.

Differentemente dai dischi precedenti Crystal Gazing Luck Amazing non presta il fianco alle eclissi meditabonde e carezzevoli da torch song ma preme sandali e pedali su un energico bailamme rock and roll che, quando gli girano i coglioni e vuol fare colpo sulle ragazze del team delle cheerleaders che si accalcano sotto il palco, strizza gli occhi ai sorrisini da beat-band e alla bubblegum, stemperando così i toni ma senza smorzare di fatto l’energia frenetica del loro nuovo lavoro, stavolta davvero svitato e fragoroso quanto quello dei primi Oblivians. Canzonacce come I’m That Guy, Negative Jerk, The Way I Feel About You sono pezze per pulirsi il culo lungo la strada che da Memphis porta al resto dell’America cattiva.    

                                                                                      Franco “Lys” Dimauro

MADRUGADA – Grit (Virgin)

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Il taglio col passato, e se di vera recisione si tratterà ce lo rivelerà il futuro, è abbastanza netto: il singolo Ready è un attacco che suona come un innesto fra i Libertines, gli Afghan Whigs e l’Iggy Pop di Naughty Little Doggie. E del resto la copertina del disco ha già un deliberato richiamo ad una sessualità più spregiudicata rispetto al romanticismo decadente e demodè di The Nightly Disease, sulle cui ombre i Madrugada aprono tuttavia le loro porte almeno un paio di volte, per vedere se gli spiriti della notte sono ancora vivi e trovandoli agonizzanti nella bellissima Majesty.  

Ma a colpire dentro Grit è soprattutto la ferocia delle chitarre. Non solo quelle di Ready, ma anche quelle stoogesiane di Come Back Billy Pilgrim e quelle garage-rock di Try e di 7 Seconds e che, seppure non rappresentino che un terzo della capacità volumetrica del disco, ne rappresentano la chiave di lettura di bilanciamento umorale fra i torbidi e barocchi serbatoi di fiele dei primi dischi e quel che dei Madrugada sarà, se mai sarà. I graffi che i Madrugada ci lasciano sulla schiena, insomma. Come ricordo di quest’altra notte insonne. L’ennesima.  

 

                                                                       Franco “Lys” Dimauro