BILL NELSON’S RED NOISE – Sound-on-Sound (Harvest)

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Se la vostra sacra trimurti contempla, in quest’ordine, Marc Bolan, Brian Eno e David Bowie siamo amici. Ma se vede al quarto posto Freddie Mercury, le nostre strade si separano qui. Perché il mio quarto posto è occupato da Bill Nelson.

Bill era stato, per cinque anni, il “bowie” dei Be-Bop Deluxe. Poi, portandosi dietro solo il tastierista Andy Clark e il fratello Ian, avrebbe dato vita nel 1979 ai Red Noise, quelli di un album incredibile come Sound-on-Sound dove glam rock, new-wave, elettronica trovano un esemplare linguaggio che lo colloca a metà strada fra l’art rock intellettuale di Brian Eno (la sinfonia per cucù a molle e synth di Out of Touch) e il rock “proletario” della Stiff (Stay Young è un pezzo al cui confronto anche Elvis Costello e Nick Lowe scompaiono come le civette all’apparir del giorno).  

Un suono spigolosissimo e sfavillante che produce capolavori di dinamica new-wave come Don’t Touch Me (I’m Electric), Art/Empire/Industry, A Better Home in the Phantom Zone, Stop/Go/Stop, Revolt into Style dove tutto è in continuo, perenne movimento e dove la sua frequentazione col glam rock trova una funzionale via per sorprendere ancora e capovolgere le mode ibridandole una nell’altra, in una forma che solo lui è riuscito a fare. Voi, tenetevi Freddie Mercury.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PETER PERRETT – Caramelle da uno sconosciuto

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Molto prima di scrivere una delle dieci canzoni DECISIVE dell’era new-wave (Another Girl, Another Planet, qualora vi stiate chiedendo quale sia, NdLYS) Peter Perrett aveva già iniziato a praticare l’underground inglese, totalmente plagiato dall’ascolto di Transformer di Lou Reed e assuefatto al rock decadente delle icone Bowie/Pop/Bolan. Peter in seguito negherà questa influenza chiamando a sua difesa il folk urbanizzato di Dylan, ma nei 13 pezzi pubblicati postumi col titolo di Legendary Lost Album e registrati dagli England’s Glory in soli 5 giorni nel gennaio del ‘73 e tra cui figurano le primitive versioni di City of Fun e Peter and the Pets poi rielaborate dagli Only Ones si avverte la stessa grigia e annoiata indolenza che volava sul Satellite of Love di Reed per atterrare con l’Astral Plane dei Modern Lovers sulla Good Feelings delle Violent Femmes: l’urbanità marcia, torbida e deviata di quelle ballate metropolitane cariche di tubi al neon e sporcizia accumulata ai bordi delle avenues americane.

 

E dove cazzo lo infili un disco così?

Dico, se hai un negozio di dischi, dove lo metti?

Nello scaffale del punk?

In quello della new-wave?

Forse che starebbe meglio in quello dedicato al power pop? Quello che nessuno va mai a visitare?

Oppure in quello dedicato alla glam music. Che tanto qualcuno che va a rovistare tra David Bowie e Lou Reed c’è sempre, anche solo per ricordarsi di essere stato giovane pure lui.

E se avete uno di quei negozi che usano le ancor più approssimative categorie Rock e Pop?

Be’, se avete uno di quei negozi, saprei io dove infilarvelo.

Ma probabilmente avete già fatto da voi, spostandolo magari dal primo scaffale al secondo quando Another Girl, Another Planet è diventata la gonzissima colonna sonora dello spot Vodafone aiutandovi a vendere qualche copia di uno di quei dischi che da anni non avete mai saputo rifilare a nessuno perché in fondo non piaceva manco a voi.

Perché The Only Ones è un disco che parte sbagliato.

Un album che ha dentro due cose come Another Girl, Another Planet e City of Fun e decide di non esibirle subito, è un album che vuole orecchie attente.

Quelle che il punk, qualsiasi cosa voglia dire nel 1978, non può garantirgli.

I quattro ragazzi di Londra hanno azzeccato il nome però.

Perché, a parziale difesa del negoziante di dischi di cui all’inizio, gli Only Ones unici lo erano davvero.

Disperati di una disperazione dandy e romantica.

Ribelli di una ribellione elegante e raffinata.

Gente fuori posto.

Ne’ coi buoni, ne’ con i cattivi.

Dicevamo dell’ apertura “sbagliata”.

Affidata ad un pezzo notturno come The Whole of the Law. Ci si aspetta si alzi il sipario e invece Peter Perrett lo sta già chiudendo. Sassofono languido, pennellate di chitarra, batteria smooth, voce dolente. Un pezzo da struscio.

Spiazzante, in un anno in cui gli album più belli si aprono con Uncontrollable UrgeFast CarsSafe European HomeNon-Alignment PactRadios in MotionPractice Makes Perfect. Anthemiche e simboliche già dal titolo.

Dopo due minuti e mezzo però arriva Another Girl, Another Planet. E davvero si vola verso un altro pianeta.

Una canzone perfetta, se mai ne è stata scritta una.

Dall’intro di chitarra stoppata allo scivoloso fraseggio che introduce alla strofa e poi da questo al ritornello appiccicoso e ancora da qui alla seconda parte del pezzo, gli stacchi che precedono il lancio dell’assolo e poi di nuovo in orbita verso la galassia del pop perfetto.

Un’altra ragazza, un altro pianeta. E tutti speriamo siano i nostri.  

Dopo di lei si atterra su Breaking Down. Altro pezzo spiazzante, visti i tempi, dove vengono fuori gli influssi hippiedelici portati dai veterani Mike Kellie (a lungo tra le fila degli Spooky Tooth) e Alan Mair (fondatore e bassista nei Beatstalkers, il più importante gruppo beat scozzese, dal ’62 al ‘69 NdLYS). Brano carico di suggestioni sixties con un organo e un ponte quasi doorsiani e la voce di Peter che dai toni morbidi della strofa si apre a quelli nasali dell’inciso.

City of Fun, a ruota, è uno dei migliori “scarti” degli England‘s Glory.

Un boogie a rotta di collo guidato dalle chitarre sicure di Peter e John Perry attraverso i campi di pailettes dei T. Rex e degli Spiders from Mars, quelli pieni di rifiuti urbani dei Dead Boys e degli Heartbreakers o quelli di fili elettrici dei Television con i quali ultimi la band si imbarca nel suo primo tour a promozione del disco e con cui condividono l’amore per certe cavalcate chitarristiche dell’acid rock californiano degli anni Sessanta. Grateful Dead, Buffalo Springfield, Quicksilver: The Beast le sfoggia illuminate dai bagliori dei quartieri a luci rosse di Londra.

Altrettanto schizofrenica la seconda facciata del disco, divisa tra rapidi e schizoidi brani dal taglio punk come Language Problem (la cosa in assoluto più assimilabile al concetto estetico ed espressivo del punk mai inciso dal gruppo, NdLYS) e The Immortal Story e fantastiche ballate urbane come No Peace for the Wicked o It‘s the Truth.

Se non sapete in quale scaffale metterlo, mettetelo pure nel mio.

Reparto “dischi fondamentali”.

 

Gabbiani con le ali sporche di catrame, gli Only Ones regalano al 1979 il loro album-capolavoro, finito chissà in quale anfratto della memoria collettiva. Oscurato forse dalla grandezza di un singolo inarrivabile qual era stato Another Girl, Another Planet, che avrebbe oscurato chiunque, figurarsi le sorti di una band che sembrava predestinata ad una eclissi junkie inspiegabile, viste le qualità artistiche che avrebbero dovuto alzare la storia della band molte spanne sopra la media delle band new-wave cui il destino avrebbe riservato ben più fulgida e spesso duratura fortuna, e a disintegrarsi sul guard-rail senza riuscire ad oltrepassare il confine del loro romanticismo tossico borderline che si respira a pieni polmoni dentro Even Serpents Shine, perfetta caramellatura sul rock ‘n’ roll del maestro Johnny Thunders.

Un disco torbido eppure di una avvenenza narcisa e dionisiaca, il secondo Only Ones. Ravvivato da un torrente di tastiere sgorgato chissà come da qualche sorgiva sixties come quello che scorre su Flaming Torch, da qualche piccolo passo di bolero, da fortunali di chitarre che sospingono i bellissimi intrecci di voci che colorano canzoni come No Solution e Programme, punk più nei titoli che nei risultati o che scivolano languide sulla Out There in the Night dedicata da Peter Perrett al suo micio o nel “quasi” muto strumentale di coda in cui Peter ci priva del piacere della sua voce da angelo bello e dannato, ravvivando il desiderio di ricominciare da capo il naufragio dentro questo mare dove i serpenti brillano, prima di stringersi al collo.   

 

Quando nel 1981 Johnny Marr, pochi mesi prima del fatidico incontro con Morrissey che si concluderà con la nascita degli Smiths, viene arrestato per aver rubato un’opera d’arte di LS Lowry, finisce in gattabuia con tutto quello che si trova addosso. E quel che si trova addosso sono un paio di Clarks, un paio di jeans ed una T-shirt di Baby’s Got a Gun degli Only Ones. Johnny Marr segue la band dei fratelli Perrett con un fanatismo che ha quasi dell’ossessivo, non mancando mai un loro concerto nel Nord-Ovest dell’Inghilterra.  

In quel 1981 e proprio con quel terzo album però gli Only Ones sono arrivati al capolinea. Con ancora un sacco di belle parole sulle labbra di Peter Perrett, incrocio perfetto fra Barrett e Thunders e una manciata di canzoni torbide ed eleganti come il piscio di un dandy. In questo caso, per la prima volta, abbinate ad un pezzo altrui (Fools di Johnny Duncan cantata assieme a Pauline Murray dei Penetration che avrebbe potuto diventare una canzonetta di successo, ma non lo ha fatto). Canzoni che in qualche occasione (la bella Re-Union è una di queste) ricordano molto da vicino le sghembe impronte lasciate fresche sul suolo inglese dai Soft Boys.

Trouble in the WorldThe Big SleepWhy Don’t You Kill YourselfBaby’s Got a GunMy Way Out of Here e la malatissima Your Chosen Life (finita a fare da scialle alla versione 7” di Trouble in the World e poi aggiunta alla ristampa su CD) sono le ultime stelle cadenti che solcano il cielo sopra Londra in quell’inverno del 1980.

Poi il cielo collassa sopra gli Only Ones.

 

Quando nel 2004 i Libertines lo citano tra i loro eroi, molti pivellini passati da qualche mese a sfogliare il NME o Rumore si guardano attorno smarriti ed increduli. Who the f**k is Peter Perrett???? All’epoca Peter era uno che aveva già scritto una delle più belle canzoni di sempre, che aveva già sciolto due bands, che era riemerso dal nulla dopo 13 anni di silenzio per ripiombare nell’oscurità per altri dieci, prima che uno spot della Vodafone gli mettesse finalmente in tasca qualche meritato spicciolo per l’uso massivo di Another Girl, Another Planet. Woke Up Sticky era il disco che aveva spaccato il silenzio, nel ’96: un disco in cui l’amore per Barrett e Lou Reed si manifesta in 11 pezzi che lo avvicinano all’estro onirico di Robyn Hitchcock e Paul Roland e arricchiscono il suo breviario di rock decadente con due pezzi come Falling (con un attacco forgiato sul prototipo di Ag/Ap) e Land of the Free. Ecco chi ca**o era Peter Perrett.

 

Vieni qui Peter, fatti abbracciare.

Dove sei stato? Perché sei andato via senza dire un cazzo di niente a nessuno?

E questi sono i tuoi figli, Peter? Che ragazzoni che si sono fatti!

Ti trovo bene, anzi benissimo.

Sai che mentre non c’eri è passata una tua canzone in tv? Così tante volte che qualcuno ha finalmente comprato quel disco. E lo so che avrebbe dovuto farlo molto tempo prima, ma lo sai com’è fatta la gente, no?

Sai che invece adesso la tua nuova etichetta ha mandato assieme al disco una bella cartella stampa per spiegare ai giornalisti chi sei, cos’hai fatto, quello che hai scritto? Sai che l’hanno usata per scrivere del tuo nuovo disco un po’ dappertutto? Sai che continuano a paragonarti a Lou Reed, nonostante tutto?

E tu, invece?

Hai ripreso la chitarra?

Hai risolto quei problemi alla voce?

E quegli altri di cui si diceva in giro?

Non importa. Siediti e fammi sentire le tue nuove canzoni.

Sai che mi piacciono? Le trovo eleganti, le trovo confidenziali.  

E sai che sono felice di non averle dovute consumare in fretta, come tutti, di non averle dovute umiliare con una sveltina, solo per scriverne nei tempi previsti, nei modi previsti, in maniera prevedibile?  

Mi hanno fatto compagnia per mesi, i tuoi brandelli di cuore messi ad asciugare sul filo da bucato di How the West Was Won. Hanno rispettato i miei tempi e io ho rispettato il tempo che loro meritano. Hanno assecondato i miei sbalzi di umore e io ho trovato rifugio nei tuoi, come si dovrebbe da buoni amici.

Sai che sono canzoni che sembrano essere state lì da sempre, che aspettavano solo tu le raccogliessi da qualche cassetto, da qualche pattumiera, da qualche piega di quel letto dove forse sei stato per anni bruciando in polvere quegli spiccioli di diritti d’autore che meritavi?

Sai che sembrano davvero piovute da un altro pianeta?

Quindi ci sei andato alla fine?

Non importa. Vieni qui, fatti abbracciare.

 

Dopo aver abdicato dal mercato musicale per decenni, Peter Perrett sembra aver ritrovato la voglia di creare e di condividere.

Lui ringrazia il cielo per essere sopravvissuto. Malconcio, ammaccato ma vivo.

Noi ringraziamo il cielo per essere sopravvissuti con lui, di potergli attaccare addosso un numero sufficiente di cerotti e di bende che possano nascondere le ferite più evidenti e di poterlo infine riabbracciare.

Con Johnny Thunders non ne avemmo il tempo.

Con Lou Reed non ne avemmo il modo.

Sciocco sarebbe dunque, lui che a buon ragione può rappresentare l’anello placcato in oro che lega tutti e due, lasciarsi scappare questa occasione. Tanto più che Humanworld lo ritrae in una dimensione meno intimista rispetto al disco di due anni prima (però che cosa non è Heavenly Day se non uno strascico glam di un Lou Reed che ha appena lasciato il palco con la consapevolezza dolceamara che alla fatta dei conti a lui è andata meglio di tanti suoi compagni dei tempi in cui il mondo sembrava ancora tutto da conquistare e che adesso è invece un sepolcreto di croci?, NdLYS) e più desiderosa di confrontarsi con un sound da rock-band, finendo per mostrare in almeno un paio d’occasioni i denti, seppur cariati, degli Only Ones e di toccare, in questo suo nuotare nelle vasche del rock inglese, il bordo piscina affollato di synth degli Psychedelic Furs e, dall’altra parte, quello ingombro di chitarre dei primi Verve. Noi dalla tribuna continuiamo ad applaudire, anche quando qualche bracciata sembra più impacciata del solito. Perché Peter è un fuoriclasse, uno che ha una voce capace di placarti l’anima pur raccontandoti storie di tormento e di sogni che fanno il rumore di vetri infranti.

O quel rumore era quello di un cuore?

Probabilmente il suo.

Forse, il mio.     

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

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ALICE COOPER – Killer (Warner Bros.)

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Halo of Flies è una di quelle cose che ti appende per le palle e ti lascia dondolare al soffitto fino a che non ti si strozza la prostata. Ma, nonostante l’eccesso di megalomania in cui Vincent Furnier sta sprofondando, Killer è una degna replica di Love It to Death, il disco di appena otto mesi più vecchio e che ha permesso ad Alice Cooper di salire nella Top 40 e di poter pisciare da lassù.

Certo, visto che non abbiamo ancora finito di battere le mani ala prima dello spettacolo shock-rock della strega del rock, gli applausi che sottolineano canzoni come Be My Lover, You Drive Me Nervous, Yeah, Yeah, Yeah o Under My Wheels sembrano più uno strascico spontaneo di quelli tributati a Is It My Body, I’m Eighteen e Caught in a Dream e i passaggi macabri del disco (Dead Babies, Killer) stavolta non provocano nessun brivido, solo un copioso, raccapricciante granduignolesco rovescio color sangue. Un sequel un po’ masticato. Come quelli de Lo Squalo e de La Casa.         

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

KILLER KIN – Killer Kin (Dead Beat)

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Sudore vero da carne vera, quello che cola dal disco di debutto dei Killer Kin, ultimi arrivati in quella lunga striscia di depravazione rock ‘n’ roll che dal tappeto unto di vomito e piscio degli Stooges è giunta fin dentro i camerini dei Turbonegro passando per quelli non meno fetidi di New York Dolls, Dead Boys, Nashville Pussy, Dodge Main, MC5, Destroy All Monsters, KIϟϟ, Brother Brick, Dark Carnival. I nomi che immaginate, insomma, quando si parla di r ‘n’ r sbavato e bavoso.

Riff incrostatissimi e un approccio selvaggio alla materia prima, che rimane grezza quanto basta per suscitare i facili entusiasmi che, giustamente, la band ha acceso placando quella fame di letame rock che sempre più raramente riusciamo a saziare se non mettendoci in casa, per l’ennesima volta, raccolte ristampe e riedizioni dei testi sacri che il gruppo del Connecticut dimostra di aver sfogliato almeno quanto noi. La propensione per la velocità, mutuata soprattutto dal rock scandinavo, è sempre efficace per coprire qualche approssimazione e colmare quelle voragini che invece gli Stooges, e qui stava la loro grandezza, riuscivano a saturare di esalazioni al veleno. Ma quando riusciranno a far confluire anche le acque stagnanti nel loro acquedotto maleodorante, i Killer Kin avranno raggiunto l’eccellenza.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ALICE COOPER – School’s Out (Warner Bros.)

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Un cazzo di album, il quinto della strega Cooper. Così pieno di glam-rock eversivo e teatrale che ci sta dentro tutto il The Rocky Horror Picture Show che debutterà solo l’anno successivo. Così ironicamente malvagio ed attraente.

Introdotto da uno dei più bei riff attaccati al culo degli anni Settanta School’s Out è un bidone così pieno di roba che dentro ci puoi trovare avanzi di ogni sorta, ancora commestibili nonostante i primi segni di decomposizione, finanche qualche preservativo usato da qualche suonatore di smooth jazz dopo l’ennesima serata a sputare standard blues per un pubblico che si struscia con abiti di lamé alla prima di un musical. E ancora le ultime lattine scolate da Doors e Beatles, e tante, tantissime gomme da masticare. Di quelle con i tattoo removibili dei mostri. E poi i titoli di coda, condotti da Elmer Bernstein in persona, lo spadaccino delle colonne sonore di Hollywood.

Un album con mille facce e una sola anima: quella di Alice Cooper, la strega di Salem pronta per il più grande e spettacolare incendio del rock and roll aizzando i suoi alunni ad organizzare il più grande rogo di libri del 1972.

No more pencils, no more books, no more teachers’ dirty looks.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

KIϟϟ – KIϟϟ (Casablanca)

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Il 28 settembre del 1972 il pianeta di Ziggy Stardust passa sopra New York. Fra i tanti terrestri con il naso all’insù ci sono Gene Klein e Stanley Eisen, all’epoca impegnati in una band di pallido rock and roll e folk elettrico chiamata Wicked Lester. Per i due musicisti è un autentico battesimo di fuoco. I KIϟϟ nascono praticamente quella sera, anche se il nuovo nome viene presentato al pubblico solo quattro mesi dopo, dopo aver convocato Ace Frehley e Peter Criss e aver proposto loro la loro idea di rock ‘n’ roll e aver studiato fin nei minimi dettagli l’immagine neo-glam derivata tanto da quella di Ziggy quanto da quella di Alice Cooper che li porterà a costruire i loro alter-ego: The Demon, The Starchild, The Catman, The Spaceman.

Sono le famose “maschere” dei KIϟϟ diventate sin da subito icone del rock scenografico americano e capaci di superare intatte interi decenni e decretare parte del successo della band newyorkese.  

KIϟϟ è il primo di una lunga serie di album via via sempre meno dignitosi ma qui la sfera di hard, glam-rock e bubblegum è ancora rotonda e perfetta. E arriva in porta più di una volta, già ad inizio partita con la bella Strutter e qualche minuto dopo col calcio asciutto e deciso di Cold Gin, per poi regalare nel secondo tempo un calcio di rigore spettacolare come quello di Deuce impossibile da parare e proprio al novantesimo una Black Diamond dove ogni lustrino cade dalle loro tute e la band sembra trasformarsi in una versione alla liquirizia dei Traffic.

Millenovecentoquarantaquattro anni dopo Giuda i KIϟϟ mandano il secondo bacio più famoso e sporco della storia.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GENERATION X – Valley of the Dolls (Chrysalis)

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Fra l’omonimo debutto e Valley of the Dolls passano solo pochi mesi ma i Generation X sembrano invecchiati di anni.

Senza più la bussola del punk a far loro da guida, la band cerca di reinventarsi e, per farlo, guarda più al passato che al futuro, in particolare al suono “gommoso” di certo glam-rock (e del resto del loro amore per Gary Glitter la band aveva già dato dimostrazione con la cover di No No No usata come retro per quell’omaggio al power-pop che era stata Ready Steady Go, NdLYS) ma anche ad altro “vecchiume” come il rockabilly e la ballata (scrivendo cose orribili come The Prime of Kenny Silvers e Paradise West), anticipando di fatto non tanto il Billy Idol solista ma gli Alarm e il loro campionario di luoghi comuni.

Pur con qualche piccola perla nascosta, come il bubblegum di Gimme Some Truth e il riff affilato di Love Like Fire, il secondo album dei Generation X spiazza il pubblico, lo costringe a riaggiornare in fretta il suo giudizio e ad infilare le mani nella melma pur di trovare qualcosa che possa fare al caso suo e assecondare il suo palato. Che è alla fine, un atto punk.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PEARL JAM – L’ultimo volo da Nord-Ovest

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Come un rigurgito sleaze salito dalla California di Guns N’ Roses e Jane’s Addiction su su per il grasso ventre dell’America, fino a trasformarsi in conato di vomito glam-metal nel nord-ovest degli Stati Uniti, lì dove sta succedendo quella cosa chiamata grunge. Che è partita proprio da loro, quando ancora “lavoravano” nelle officine dei Green River, degli Skin Yard e dei Malfunkshun.

Dunque, prima di essere un gruppo super i Mother Love Bone sono già un super-gruppo. E Andrew Wood ne è consapevole, tanto da pretendere ed ottenere il primo ingaggio major della scena di Seattle. Per la Stardog, etichetta creata apposta per loro dalla Mercury, incidono prima l’E.P. Shine e quindi Apple, che Andrew non stringerà mai fra le mani: poche settimane prima della sua uscita quel cognome che si è portato dietro dall’Ohio si sarà materializzato in legno vero e il suo sogno di rockstar sarebbe sfilato per la città in orizzontale anziché lanciarsi a razzo verso le stelle.

Quella mela avvelenata non l’addenterà nessuno dei commensali: quando viene servita a tavola nel luglio del 1990 i Mother Love Bone si sono già trasformati in un estemporaneo progetto che vuole accomiatarsi salutando per l’ultima volta il vecchio amico registrando un disco a nome Temple of the Dog.

Ad accogliere Apple resta un pubblico numeroso ed attonito, che ben presto si abituerà a seguire i feretri dei suoi eroi.

Un disco in cui più che le potenti e funkeggianti rock songs portate in dono da Jeff Ament e Stone Gossard (gli assalti di Holy Roller, le chitarre che sfrecciano come aerei a bassa quota su Heartshine, il groove nodoso di Captain Hi Top e l’incenso allo zolfo che si sprigiona su Bone China su tutte) sono proprio le apoteosi di tormento asciutto e romantico delle ballate scritte da Wood a colpire nel segno: Stargazer, Man of Golden Words, Gentle Groove e Crown of Thorns sono un disco nel disco, un’autopsia post-mortem sul petto di Andrew Wood che mette a nudo il suo cuore glam ribelle e solitario, il torsolo di questa mela avvelenata coperta di zucchero caramellato.    

 

All’indomani della morte di Andrew Wood quel che resta dei Mother Love Bone viene convocato da Chris Cornell ovvero colui che col biondo cantante della band condivide, oltre che sogni di gloria, cucina e bagno in un mini-appartamento in città per un tributo alla memoria: è il battesimo di fuoco dei Mookie Blaylock che da lì ad un paio di mesi diventeranno Pearl Jam e che stanno all’epoca ancora rodando questo nuovo cantante di San Diego chiamato Eddie Vedder, apparso fra i tanti candidati l’unico in grado di cucire addosso alla musica di Stone Gossard e Jeff Ament dei vestiti credibili che non siano solo una sgualcita copia delle buffe e colorate divise di Andrew Wood. Il suono d(e)i Temple of the Dog è già quello che farà di Ten un disco milionario: Rick Parashar produce entrambi i lavori dando a quell’impasto sonoro il medesimo taglio, forzando l’imprinting epico/decadente che era già latente nei vecchi Mother Love Bone e che la voce di Cornell carica di drammaticità zeppeliniana e cercando una via alternativa non tanto al grunge della città quanto allo sleaze rock che ancora dilaga in California, alla ricerca di una nuova “classicità” rock che è quella che molti detrattori non perdoneranno mai ai Pearl Jam.

Hunger Strike, Call Me a Dog, Your Savior, Pushin’ Forward Back, All Night Long, Say Hello 2 Heaven fondano il canone dell’hard-rock di Seattle, quello che i Pearl Jam perlustreranno in lungo e in largo per oltre trent’anni e che lo stesso Cornell recupererà nella sua carriera post-Soundgarden e che rappresenterà l’alternativa locale prima e mondiale poi alla strapotenza del grunge.   

 

Ten, il debutto definitivo dei Pearl Jam, è un esordio che mette paura.

Una soggezione reverenziale, come quando ti trovi davanti alla Pietà del Michelangelo o al David di Donatello.

Il primo capitolo dei Pearl Jam è l’ultimo atto del classic rock.

Qui muore quel concetto di rock che trascende i generi e le sottoculture.

Perché dopo di esso tutti avranno paura del confronto, i Pearl Jam per primi, cercando di affrancarsi da un precedente così ingombrante da far sembrare patetici tutti gli epigoni che salteranno fuori da lì a breve.

Faceva bene Eddie Vedder a prendere già allora le distanze dal grunge. La loro musica non aveva nulla da spartire con nessuna scena. Era autosufficiente, autonoma, fiera, indipendente. Ten (dieci, come il numero sulla maglia di quel Mookie Blaylock che era il campione il cui nome era stata la prima scelta quando si era trattato di scegliere un nome per la prima avventura post-Mother Love Bone, NdLYS) è un disco che chiede di fermarti. Reclama concentrazione, totalmente padrone del suo tempo, della sua logica artistica, del suo raziocinio dialettico.

Non lascia scampo e ti fa prigioniero. È una dolorosa lacerazione sulla carne che non smette di bruciare, di localizzare la tua attenzione. Devi fasciarla stretta per farla ammutolire, per concederti un respiro, una tregua, un armistizio con il dolore che ti sale dalle viscere. C’era, nella musica di Ten, questo taglio epico ed eucaristico pieno di nuvole, di masse di vapore scuro, pesante. Era, ed è ancora, come correre lungo una highway americana, ma verso il temporale.

Ha questa maestosità ombrosa, introversa, schiava e vittima delle intemperie.

Schiacciata a terra da una perturbazione meteorologica che è pioggia dell’anima.

È un sapore di fuga che resta irrisolta, incompiuta. L’amarezza inquieta di chi sa che potrà fuggire da tutto ma non dal proprio passato. Che per Eddie è quello di una famiglia a pezzi, di un padre bastardo, di una infanzia negata. È quella del ragazzo disadattato di Once, delle confessioni familiari di Alive e dell’adolescente killer Jeremy Wade Delle.

I Pearl Jam raccontano l’altra faccia dell’America. Un’America che esce a pezzi dal reaganesimo e dall’edonismo degli anni Ottanta, cresciuta a popcorn e videogiochi,  che si muove all’ombra dei grandi boulevard, che si raccoglie quando le insegne sono spente e le strade di sgombrano di gente alla ricerca di un benessere posticcio, da grande magazzino. È l’America dei figli della workin’ class affranta e disillusa che abita le canzoni di Springsteen di cui i Pearl Jam sembrano essere diventati negli anni i naturali eredi morali.

Salvo poi, in un imbarazzante gioco delle parti, ad essere il Boss a “rubare” loro produttore (Brendan O’Brien per The Rising e Magic) e riff (Radio Nowhere sempre su Magic, 2007).

La raccontano con una intensità che ha del prodigioso, vista la giovane età. E così mentre quasi tutta la loro citta sguazza nel fango i Pearl Jam mettono le ali proprio come se fosse l’ennesimo, forse l’ultimo Boeing creato nelle officine aeronautiche di Seattle.

 

Dopo Ten a fare Eleven, ovvero una copia carbone di quel disco, ci avevano pensato gli Stone Temple Pilots di Core.

Ai Pearl Jam restava il compito più difficile: confermare il successo planetario del debutto senza andare in giro con una targa con scritto “svendita” appiccicata al culo.

Provare a fare meglio e di più.

Mettersi alla prova come artisti e come uomini.

Il risultato di questa sfida arriva nei negozi il 19 settembre del 1993.

Annunciato col titolo di Five Against One, poi ufficializzato con la contrazione Vs. nonostante in alcune versioni il disco esca con un semplice sticker col nome della band e nessun’altra indicazione commerciale il secondo album dei Pearl Jam centra l’obiettivo con sorprendente efficacia ergendosi a capolavoro dell’intera discografia della band di Seattle riuscendo a miscelare tutte le caratteristiche mostrate sul debutto e che già dal disco successivo cominceranno a puzzare di stantio, soprattutto a causa dell’abbondare di catene di fast-food musicali (Brothercane, Staind, Nickelback e voi sapete quali altre nefandezze, NdLYS) che infesteranno il mondo seguendo pari-pari quel ricettario fino a rendercelo indigesto.

Ma Vs. è un disco che sfoggia una mascolinità feconda e abbagliante, una raccolta di canzoni da urlare mentre stai per essere sopraffatto dal dolore che la vita ti concede gratuitamente.

E il dolore arriva, bambini.

Travestito o nudo, a seconda dei casi.

Sfoggerete il vostro sorriso migliore per illudervi di averlo gabbato.

Ma lui avrà già spento la fiamma e lasciato la cera.

Avrà disossato la carne.

Avrà svuotato i piatti.

Ora non resta che prendere in mano il detersivo e mostrarli agli amici più brillanti e puliti di prima.

Pronti per un’altra cena che ci tenga lontani dagli specchi.

Raccoglieremo il nostro sorriso di scorta e ne faremo uno zerbino di benvenuto.

Vs. è l’angolo dove decidiamo di lasciarci tormentare dalla vita e dalla morte, senza bisogno di rispondere ad un sorriso idiota con una smorfia di allegria posticcia.

Di quale dolore moriremo domani?

Che differenza fa?

 

V per Vendetta.

V per Vitalogy.

V per Vedder.

Il terzo album dei Pearl Jam è il trionfo di Eddie Vedder. È lui il primo attore di questo disco umorale e in qualche modo straordinario. Eddie è la mente lucida e dispotica in un momento in cui gli equilibri all’interno del gruppo sembrano incrinarsi. È il momento del risveglio etico e politico di Vedder, della sua ferma posizione avversa nei confronti di Ticketmaster che porterà all’allontanamento di Abruzzese, l’attimo infinitamente lungo e pesante in cui una band partita dal nulla si ritrova a dominare il mondo e si chiede quale debba essere il messaggio da lanciare, quale debba essere il suo ruolo, il suo compito, il suo obbligo morale nei confronti di un pubblico diventato numericamente abnorme.

L’attimo in cui i Pearl Jam si trasformano negli U2 e Vedder in Bono Vox.

Un momento di confusione e di ridefinizione dei ruoli che ben si avverte nella scaletta di Vitalogy, ricco di tracce sperimentali, di incompiute e di frammenti incomprensibili. Non solo al pubblico, ma pure agli stessi musicisti i cui sfoggi solistici sono ridotti al minimo rispetto alla prosopopea solenne e monumentale di Ten. Musicalmente è un’opera slegata ed emotivamente scostante con un attacco frontale degno dei Damned migliori come Spin the Black Circle e dall’altra una ballatona pop come Better Man destinatata in un primo momento a Greenpeace e poi inserita su insistenza di Brendan O’Brien sull’album.

Tra queste due anime, Vedder si muove inquieto e smanioso indagando sulla  propria identità di artista e di band violate da un’attenzione dei media e del pubblico esorbitante (le poche parole di Pry, to e Bugs sono al limite della mania di persecuzione), interrogandosi su come colmare l’enorme paradosso che obbliga la sua band a trovare un canale di comunicazione con i propri fan senza aver risolto l’incomunicabilità che invece regna in studio e dietro il palco.

Eddie ha paura di cadere dal piedistallo dove qualcuno lo ha messo. E ha il terrore di precipitare nella stessa buca del suo amico Kurt Cobain. Vitalogy è il disco che fotografa la band sul ciglio dello strapiombo.

Adesso, per salvarsi, occorre sterzare a destra.

 

Tra Vitalogy No Code, i Pearl Jam mettono mano a due collaborazioni artistiche importanti con Neil Young e Nusrat Fateh Ali Khan. Due progetti apparentemente collaterali, quelli di Mirror Ball e della colonna sonora di Dead Man Walking, e che incideranno invece in maniera sostanziale per la realizzazione del quarto album. Due esperienze che si riveleranno necessarie ora che i Pearl Jam decidono di mettere in piedi una nuova strategia che li allontani definitivamente dal cliché dei primi tre album e di costruire una nuova identità, più contorta e accigliata.

No Code è piegato da questa necessità. Elaborato con il preciso intento di deludere le aspettative dei vecchi fan, chiedendo loro lo sforzo necessario per buttare giù la statua dei vecchi Pearl Jam.

Uno sforzo reso manifesto già dal singolo che si fa carico di presentare l’album, nel Luglio del 1996, un brano che unisce le arie bucoliche dei Led Zeppelin del terzo album al misticismo qawwali appreso da Fateh Ali Khan e che rifiuta la logica commerciale della sequenza strofa-ritornello ed evita il facile trucco del gancio melodico vincente e dell’impatto sonoro devastante.

È questa la logica che sta dietro a tutto No Code.

La necessità di smorzare i toni, di rendere i Pearl Jam una band dal volto umano, lontana anni luce da quella immagine di muscolosi supereroi che sembrava saltare fuori prepotente dalla copertina e dalla musica di Ten.

La voce di Vedder si ridimensiona.

Cede all’emozione invece di cavalcarla, fino a farsi spezzare come succede quando su Sometimes intona sfilacciandosi come un collant “devote myse-e-e-lf” oppure  scegliendo volutamente il sussurro  confidenziale all’enfasi carismatica  di cui tutto il mondo lo sa capace.

O addirittura facendosi da parte, come succede su Mankind.

La musica si fa inafferrabile e sfuggente. I Pearl Jam ci lasciano stavolta senza ritornelli da cantare e 156 Polaroid e 13 canzoni tutte da decifrare, strappandoci di mano anche l’invisibile air-guitar che per qualche anno ci aveva fatto sentire degli eroi inutili.

 

Yield è il primo disco dei Pearl Jam a non riuscire a percorrere tutta la distanza che si è data. Paradossalmente, a giudicare dalla copertina, è quello con cui la band americana ha deciso di andare più lontano.

E invece è proprio da qui che la corsa della band si trasforma in una corsa ad ostacoli seppur ben confortata da spalti sempre più pieni.

La partenza è affidata a due belle stilettate come Brain of J. e Faithful con le chitarre che ruggiscono e Vedder acceso dal demone del rock. Poi, lentamente ma inesorabilmente, la band si impantana in un rock di maniera, piccoli intermezzi sperimentali figli in egual misura di Vitalogy, di Mellow Gold e di Monster e un fascio di canzoni attente a non fare del male a nessuno, un mazzo di carte magiche con cui provano a tenersi buoni i vecchi fan e a fare qualche cenno di intesa ai potenziali prossimi compagni di tavolo. L’occhiolino soprattutto.

Il mito dei Pearl Jam supereroi nasce praticamente qui. Soprattutto in quei sette minuti che vanno dall’arpeggio di Given to Fly alle sfumate richieste di Wishlist.

Il mondo decide che dei Pearl Jam, a differenza di tutte le altre band di Seattle, ci si può fidare. E dà loro fiducia. Stringendoli di un abbraccio che fino a quel momento, in quelle dosi di venerazione ed amore, era ad unico appannaggio di Springsteen e U2. Proprio nel momento in cui il loro canzoniere si spopola di canzoni perfette, i Pearl Jam raggiungono la perfezione che il pubblico aspettava.

 

Binaural è il prodotto griffato che arriva in vetrina per la collezione primavera/estate 2000. Chissà come, avverti in qualche modo che non è necessario. È una suppellettile prestigiosa. Ma è una suppellettile. Non ha più in se il prodigio dell’irriverenza e ha una copertina che non gli appartiene, come non appartiene a te.

In quella nebulosa dal nome Clessidra ti sembra davvero di poter vedere le stelle scendere come granelli di sabbia, senza possibilità di poter essere capovolta.

E ha un po’ il gusto della disfatta del tempo che avanza, su te e sugli altri. E di questa percezione comune, ne avverti il passo greve.    

Binaural è il momento in cui capisci che i Pearl Jam non ti stupiranno più. Che in qualche luogo si sta macchinando un’imperfetta messa in scena con i figuranti messi lì a fingere che tutto vada bene, a battere su una macchina da scrivere che martella su un rullo senza fogli. Tic tic tic tic tic.

È una liturgia senza più ostie da consacrare, un incontro in abiti apprettati per stringere altre mani.

Ritrovarsi lì, seduti-in piedi-inginocchiati sulle panche.

Che son suonate le campane, e forse è un dì festivo.

O forse no.

 

Riot Act è un disco sull’agonia di una nazione e sul crollo dei pilastri virtuosi su cui non solo la loro nazione ma l’intero pianeta dovrebbe reggersi. Ed è un disco che rivela, senza volerlo, l’agonia di una band la cui ispirazione sta affondando nelle sabbie mobili da lei stesso create. La band si muove come impacciata fra i propri fantasmi, tardivi quanto inutili rimorsi per la tragedia di Roskilde, confusi rancori politici, goffi gospel da requiem e citazioni beatlesiane sull’amore che tutti sazia, lasciandoci invece tutti affamati. Un lavoro greve sin dalla copertina, infarcito di morte e debilitato dalla spossatezza e dall’uggia.

Si, siamo dopo l’11 settembre.

Però come atto di sommossa mi pare un po’ inadeguato.      

 

Sulla copertina dell’album omonimo del 2006 troneggia un avocado.

Ovvero, per dirla con gli aztechi, un testicolo.

Ognuno ci veda insomma il simbolo che vuole.

Quello che però salta agli occhi è il cromatismo vivido, la nitidezza di immagine che splende con una precisione ancora più esaltante dopo due copertine buie e tenebrose come quelle di Binaural Riot Act.

Poi ovviamente ci sono altri segnali importanti, come la scelta di battezzare la nuova creatura col proprio nome, che è un atto enfatico di orgoglio e rispetto simile a quando si decide di dare al figlio il nome del proprio padre, credendo di poterne allungare le radici fino allo stesso albero che ci ha generati. Oppure quello che per la prima volta i Pearl Jam pubblicano su un’etichetta non convenzionale e (quasi) anonima. L’ottavo album dei superstiti del ciclone grunge di quindici anni prima è dunque all’insegna di un ottimismo che sembrava essersi adombrato nei primi anni del nuovo decennio.

Dentro i Pearl Jam ci mettono quanto più Pearl Jam possono metterci.

Quelli delle ballate da groppo alla gola e delle chitarre che ti afferrano alla carotide, quelli languidi e scivolosi e quelli che salgono in verticale come facevano gli Dei del rock negli anni Settanta.

Quelli inutili, pure. Come quelli messi alle corde nella seconda parte del disco che molto presumibilmente nessuno ascolterà mai più di un paio di volte.

Quelli figli di un dolorproprio e di un dolore più grande ed universale.

I Pearl Jam un po’ prevedibili. Che se ci sono è bello averli ma se non ci fossero più, sarebbe bello ricordarli con i loro dischi migliori. E questo non è fra quelli.

      

Backspacer è il trionfo dei Pearl Jam eroi dell’arena-rock.  

L’ottimismo che sembra invadere la band si traduce in un disco che decide di mostrare solo la faccia luminosa della luna. Un’opera “maneggevole” già dalla durata, di un quarto d’ora sotto gli standard della band. Copertina invece nel solito standard bassissimo che le è proprio.

Canzoni, undici, che si prefiggono lo scopo di invadere l’etere. Che passino in radio o che vengano propagate da un adeguato service audio da un palco, poco importa. E lo scopo viene raggiunto, aggredendo da subito le classifiche. Certo, la sensazione è che dei Pearl Jam dei primi anni sia rimasto solo un guscio vuoto ma d’altro canto l’appeal di canzoni come The Fixer e Got Some o di ballate come Just Breathe o Speed of Sound pensate apposta per illuminare di accendini e smartphone le platee è tale che è facile cedere all’inganno, pur avendo la lucidità per smascherarne il trucco.

Un po’ come quando criticate platealmente quelle col seno rifatto e poi ne cercate le foto per scaricarvele sul pc per guardarvele quando vi abbisognano.   

Il trionfo dell’erotismo di plastica, ecco.

Che val sempre una sega. Ma non molto di più.

 

Lightning Bolt, decimo album di una sequenza iniziata ventidue anni prima ci porta, ancor prima di metterlo nel nostro lettore, la consapevolezza che, nonostante la vecchia scena grunge si sia bruciata nel giro di cinque anni, invecchieremo coi Pearl Jam. Anzi, che lo stiamo già facendo.

Pubblicato nel 2013, Lightning Bolt porta con se un’altra consapevolezza, ovvero che le barriere fra corporate rock e rock alternativo sono in realtà un muretto di pietra a secco facilmente scavalcabile con una zampata. E ciò non tanto per i contenuti e le forme ma in quanto gli scenari e gli equilibri fra artisti, pubblico, case discografiche, distributori e piattaforme internet hanno completamente resettato il mercato. È una nota a margine doverosa per un disco pubblicato da un’etichetta indipendente per quella che, assieme agli U2, è la formazione destinata agli stessi bagni di folla che in passato furono di band come Rolling Stones, Led Zeppelin o Who e “spinto” sui social e sul proprio sito internet più che attraverso le radio e le tv. Un disco in cui l’impronta dei loro autori resta fortissima, pur senza lesinare soluzioni meno scontate che tuttavia, visto il carisma raggiunto da Vedder e dai suoi musicisti, finiscono lo stesso per essere perfettamente riconoscibili come “chiaramente” Pearl Jam. Ci si trova dunque al cospetto dei soliti, sinceri tributi omaggi al punk (la bella Mind Your Manners), alle abituali ballate senza le quali probabilmente i Pearl Jam non varcherebbero mai uno studio di registrazione (Sirens, piena di tutti gli stereotipi del caso), a numerosi ma ancora apprezzabili brani di classico, enfatico epic-rock in cui la band è maestra con pochissimi rivali e a qualche tentativo di approcciarsi alla materia con modi meno abituali (le chitarre sdrucciolevoli di My Father’s Son, il groove blues-rock di Let the Records Play o le diradate sincopi di Pendulum) che forse siamo diventati troppo vecchi per poter apprezzare, preferendo noi prima di loro di rifugiarci nei rassicuranti abbracci di Sleeping by Myself o Swallowed Whole, felici di poterci trovare oltre ai Pearl Jam anche i Counting Crows o i R.E.M.). 

Perché invecchiando, capisci che non c’è niente di più bello che l’abbraccio della nonna.

Posticipa oggi, rinvia domani, i Pearl Jam hanno mancato il bersaglio e sbagliato il momento, “bruciando” un concept sull’ambientalismo nel momento in cui il mondo è ben distratto da altro e dei ghiacciai che si sciolgono non interessa a nessuno.

Annunciato da una copertina orribile e con quasi un’ora di musica, il nuovo Gigaton non lascia presagire nulla di buono.

E invece.

Invece il “gigante” si muove dentro e fuori la comfort-zone dei Pearl Jam incurante di quanti li criticheranno per non essere più gli stessi e di quanti li criticheranno per il motivo esattamente opposto. Non ci sono le grandi novità preannunciate dal singolo Dance of the Clairvoyants, che resta un episodio isolato (fatta salva la preghiera springsteeniana di River Cross che lo chiude come una persiana che si abbassa sul mondo, lasciandoci prigionieri della nostra stessa effimera libertà)  all’interno di una scaletta che è fortemente impregnata del suono che ben conosciamo e che è tornato ad una brillantezza che sarà difficile accettare ai detrattori per professione, pronti ad indossare il monocolo e ad analizzare la purezza di ogni singola pietruzza, cacando più merda di quella che respirano e sentendosi legittimati a sparare a zero, avendo cartucce e fiato da sprecare.

Gigaton suona invece, oltre che enorme, consolatorio.

È come se per un attimo, in questi giorni di reclusione, aprissimo la porta per fare entrare qualcuno di cui conosciamo pregi e difetti. E in questa accettazione degli uni e degli altri ritrovassimo la nostra capacità di assorbire affetti che ci possono essere strappati e la volontà di riprendere dal cestino della nostra vita i fogli accartocciati per ridare vita nuova a loro e a noi. Ecco allora che Who Ever Said, Never Destination, Superblood Wolfmoon, Take the Long Way, Alright, Comes then Goes arrivano per carezzarci o schiaffeggiarci la faccia.

Per dirci che possiamo provare gli effetti benefici della pet-therapy anche coccolando la coda di Godzilla.

E che nessuna corazza ci renderà immuni dal disastro, ma ci imprigionerà dentro le nostre paure e le nostre ansie fino a che il guscio sarà vuoto.       

 

Discutibile, come sempre, già dalla copertina, Dark Matter ribadisce una sola, grande verità: i Pearl Jam hanno fatto solo tre album veramente belli, tutti nella prima metà degli anni Novanta. Tutto il resto, da trent’anni a questa parte, è un tentativo disperato di sopravvivere a sé stessi. Infilando di tanto in tanto un pezzo giusto ma mai un album “a tenuta stagna” come erano stati Ten, Vs. e Vitalogy.

Il risultato più clamoroso ed imprevedibile è stato però che, alla luce dei dischi successivi, in molti si sono sentiti di abbracciare la fertile fede del revisionismo (la stessa che ha avvelenato le sorti di band come Smashing Pumpkins, R.E.M., U2 e, se Cobain non si fosse sparato in bocca, avrebbe contagiato pure i Nirvana, potete starne certi, NdLYS) e rivalutare in negativo anche quelli, che invece erano e rimangono dei dischi di grande valore e con molte cose da dire. Da No Code in poi invece è come se le luci si fossero spente, proprio mentre si accendevano i riflettori delle grandi arene.

Dei Pearl Jam è rimasto poco più che un guscio vuoto, un barattolo che ogni tanto risuona come quello del brano di Gianni Meccia.

Sono, in fin dei conti, la cover band dei Pearl Jam.

Canzoni che sono rimasticature infinite di quanto già scritto, fatto, detto e suonato da decenni.

Roba da campionario.

Loro, dei piazzisti.                                           

Franco “Lys” Dimauro  

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THE CHESTERFIELD KINGS – Pacco duro, grazie.  

4

La sfavillante epopea del revivalismo beat dei mid-eighties è stata una fase importante della mia vita, una di quelle passioni urticanti che ti passano da parte a parte stravolgendoti i sensi. Qualcosa che ti chiedeva una dedizione totale, un bagno purificatore dentro l’etica/estetica di un decennio troppe volte favoleggiato come beato ma ancora, si intuiva, tutto da scoprire, un crogiolarsi talvolta anche sterile nel disperato tentativo di perpetrare storicamente non solo l’anima di un suono ma di un intero universo arrivando addirittura a forme estreme di escapismo temporale esasperato (Shelley Ganz che si chiude in casa in un isolazionismo disperato, Mike Stax che data ’66 le sue lettere scritte quasi vent’anni dopo…NdLYS).

 

Qualcosa di totalizzante, acritico, estremo, puerile.

Giovanile fino a rasentare il paradosso: la quintessenza del rock ‘n roll. Here Are The Chesterfield Kings rappresentò per me e migliaia di altri coetanei una sorta di fonte battesimale.

Non un disco ma un autentico scrigno.

Un forziere pieno di quelle monete d’oro che i bucanieri deponevano sugli occhi dei defunti prima di spedire le loro anime all’Inferno.

Quattordici denari per ingraziarsi i servigi di Caronte e traghettare gli spiriti delle garage bands dei sixties nel girone dannato in cui i Chesterfields erano costretti a scontare le loro pene.

Era il rifiuto ostinato a diventare adulti.

Here Are è un disco che la storia non l’ha solo fatta, ma se ne è preso cura facendole da custode e loopandola ad uso delle generazioni che ne sconoscevano il sapore, fiutandone appena l’aroma tra i ricordi nebbiosi di un vecchio papà beat.

Un disco di sole covers, peraltro eseguite con l’unico intento di preservare lo spirito che alitava su ognuna di esse senza alterarne il sapore.

Una macchina del tempo a forma di catapulta.

L’esordio dei Chesterfield Kings non si fermava alla riscoperta dell’essenzialità beat già operata dal punk o alla rivalutazione della crudezza espressiva tipica di ogni musica teen che in molti avevano o stavano recuperando. No, Here Are era un disco che andava oltre: i cinque Re di Rochester affondavano gli incisivi in un baule pieno di pepite e le porgevano a noi con lo stesso identico, prezioso luccichio con cui erano state seppellite 15 anni prima.

 

Esasperando il concetto di rigore filologico, Greg Prevost e compagni arrivarono addirittura al punto estremo di risuonare, quando fu possibile, quelle 14 canzoni con gli stessi strumenti con cui erano state incise dagli autori originali.

Una austerità che ha del maniacale.

Feticismo e devozione assoluta verso un suono che da lì a poco avrebbe infettato le menti e i garages di quattro continenti e che avrebbe fertilizzato il terreno per la rivalutazione “creativa” dell’estetica sixties degli anni a venire. Un disco che, in pieno delirio new wave, metteva indietro i propulsori del tempo e rivolgeva non solo gli occhi ma tutti i sensi al passato spingendo alla ricerca un’intera generazione che stava folleggiando alla cieca su quella spontaneità di cui il punk si era fatto portavoce e che tornava ad affievolirsi sotto montagne di synths e a rabbuiarsi dietro l’intellettualismo esistenzialista dei profeti del dark sound.

Sonics, Rogues, Sounds Like Us, Painted Ship, Zakary Thaks, Chocolate Watch Band, Exotics, Shades of Night, Choir, Mourning Reign, Moving Sidewalks, Harbinger Complex e Nightshadows venivano tirati fuori dalla cantine e tornavano a brillare di luce vividissima. Da quel momento, lo si voglia ammettere o meno, qualcosa avrebbe cominciato a prendere un’altra strada.

Quando nel 2007 Greg Prevost mi confessò di odiare Stop! per me fu come trovarmi sotto le travi di casa mentre i sismografi registrano scosse telluriche proprio sotto il mio culo.

Perché lo avevo sempre considerato, e lo considero tuttora, un disco di una bellezza inarrivabile. Un classico dei classici, una macchina in grado di fermare il tempo. Dentro, dopo l’abbuffata di Here Are e dei primi singoli, ci sono le prime canzoni firmate dal gruppo.

Sembrano vecchi master di qualche oscura band del ’66 finiti dentro qualche bidone degli studi della 4th Avenue o della RCA.

I Chesterfield Kings sono cinque bavose appiccicate ai muscoli della musica sixties.

Passano lasciando una schiuma lattiginosa.

E diventano quello che mangiano.

Sono gli Standells, poi i Monkees, quindi i Turtles, i Sonics, i Royal Guardsmen, i Byrds, gli Stones, i Count V, i Moving Sidewalks, i Gonn, i New Colony Six, i Knickerbockers, i Dave Clark Five, infine la Chocolate Watch Band.

Non si limitano a depredare le loro canzoni, come fanno tutti.

I Chesterfield Kings di Stop! SONO quelle band.

Hanno realizzato il sogno di ogni gruppo neo-garage: suonare come si fosse sul palco di una battle of the bands del 1966. Caschetti e zazzeroni spioventi su una folla di teenagers infoiati dal rock ‘n roll. Un sabato sera qualunque della provincia Americana, dopo una puntata dei Three Stooges e un giro di contrabbando con la macchina di papà.

I Kings suonano così, esibendo con orgoglio un’adesione ai canoni stilistici ed estetici che ha del pauroso, reincarnazione legittima dei Rolling Stones sboccati dei mid-sixties, mettendo su un repertorio che è un distillato degli ascolti voraci di Greg Prevost e Andy Babiuk.

Un pezzo come She‘s Got Time ad esempio è un precipitato del suono texano degli Exotics mentre I Cannot Find Her è un matrimonio perfetto tra le chitarre folk dei Grassroots con le armonie vocali dei Monkees, She‘s Alright un tuffo nel suono di Larry and The Blue Notes, il dolce ciondolare di Cry Your Eyes Out nasconde un ponte che porta al castello dei 13th Floor Elevators mentre la veemenza di Say You‘re Mine non può non far pensare ai Beat Merchants, a Cuby + Blizzards o agli Stones teppisti di Get Off of My Cloud.

Le cover, come è tradizione per i cinque di Rochester, sono suonate con una competenza ben oltre la soglia dell’esasperazione fanatica. Stop!, Fight Fire, My Canary Is Yellow e Bad Woman sono sputate alle originali di Burgundi Runn, Golliwogs, Namelosers e Fallen Angels.

Stop! è una folgorante istantanea sul rock ‘n’ roll che fagocita se stesso per rendersi eternamente giovane, il privilegio e il regalo concessoci da cinque ragazzini americani che permisero anche a noi di vivere il sogno degli anni Sessanta, venti anni dopo.

Le beghe legali con la Mirror (probabile motivo del risentimento di Greg nei confronti di Stop! NdLYS) non ne permetteranno un duplicato digitale, rendendolo per sempre prigioniero del suo tempo.

La copertina del disco successivo era però un presagio di sventura.

Se sul disco di debutto, quello che aveva gettato l’ancora nella baia nascosta del punk delle garage band dei sixties, sembrava di vedere la reincarnazione dei Blues Magoos e sul capolavoro successivo uno scatto degli Stones dell’era Brian Jones, sulla copertina di Don’t Open Til Doomsday i Kings sembravano un’anonima band proto-hard degli anni Ottanta, con tanto di fumo dietro le spalle e t-shirt di dubbio gusto. Girata la copertina, ecco spuntare anche il nome di Dee Dee Ramone. Per i puristi della scena garage, uno sputo in faccia.

I Chesterfield Kings non sono gli unici ad avvertire la stretta di una scena che continua a celebrare se stessa fino a diventare grottesca. Miracle Workers, Sick Rose, Fuzztones, Morlocks, Creeps, Untold Fables, Fourgiven stanno analogamente allontanandosi dal concetto teocratico che vuole la musica garage punk completamente impermeabile a quanto musicalmente sperimentato dal 1967 in poi.

Hanno scavato dentro il cimitero beat e ora che iniziano ad avvertire i primi segni di stanchezza, hanno tentato a fatica di alzare la schiena e hanno visto che c’è tanta altra roba da scavare, da tirare fuori. Ci sono i Ramones, c’é il folk rock, ci sono gli MC5, c’è Johnny Thunders. E presto ci saranno anche i New York Dolls, gli Aerosmith, il blues del Delta, Jan & Dean e i Beach Boys. Lo sapevano già.

Solo, presi da quel lavoro di scavafosse, se ne erano dimenticati.

A ricordarglielo sono le centinaia di concerti che diventano sempre più una gara improponibile (ed impari, perché i Re suonano come nessun altro, all’epoca, NdLYS) a chi suonasse le cover più sconosciute o a chi rifacesse meglio The Witch dei Sonics. Ma Greg e Andy non si divertono più, in quell’acqua park dove le vasche non vengono più disinfettate e l’acqua è diventata stagnante.

Ecco che pensano a un disco come questo. Dove l’urgenza del garage punk più immorale e di cui Social End Product dei Blue Stars può essere eletta ad archetipo si accende in spiritate e crepitanti canzoni figlie del suono malato degli Spiders (Someday Girl) o si stempera in un power-rock con chitarre scintillanti (Everywhere), morbide ballate folky (You‘re Gone) e addirittura un angolo acustico come I’ll Be Back Someday. Eppure, malgrado non ci sia adesione agli schemi del suono d’epoca (nessun accenno di maracas o di tastiere vintage, per dirne una), non c’è neppure un totale scollamento dai canoni estetici del sixties sound. Ci sono splendide armonie vocali studiate sui dischi di Mamas and Papas e Monkees ad esempio, due delle fissazioni di Greg di quel periodo e che dal vivo fanno si che California Dreamin’ e Sunny Girlfriend finiscano a un passo da Ramblin’ Rose o Chinese Rocks per una delle scalette più belle del periodo.

Il suono dei Kings si è semplicemente innestato dentro un cubo di Rubik dalle molteplici sequenze. Qualcuno avvertirà questo come un tradimento (salvo poi tornare ad ascoltare i suoi merdosi dischi dei Journey, come dirà in seguito lo stesso Greg Prevost, NdLYS), qualcun altro come un’accozzaglia di canzoni prive di idee brillanti (lo Scaruffi che borbotta dalle sue enciclopedie), qualcuno ne avvertirà invece la vera portata. L’urgenza di una fuga, l’accensione di una nuova miccia, di un nuovo entusiasmo.

Non è forse questa la legge segreta del rock ‘n’ roll? O credete davvero sia vedere i Deep Purple che rifanno Smoke on the Water con la pingue che gli ricopre, molle, mezza cassa della chitarra?

Pubblicato simbolicamente a suggello della prima fase artistica, Night of the Living Eyes raccoglie quelli che furono i primi passi, completamente autoprodotti, del quintetto americano. Sono i primi tre singoli pubblicati per la loro etichetta privata, il secondo dei quali viene ritirato dal mercato dopo una prima tiratura di appena cinquanta copie a causa del suono della dodici corde sulla cover di I Won’t Be There dei Grodes che non convince l’esigentissimo Greg Prevost.

Sono, per molti versi, i Chesterfield Kings migliori. Quelli che affrontano impavidamente la missione per cui sono nati: infilare le mani nel beat-punk degli anni Sessanta e soffiare la polvere da quelle pepite per restituircele intatte nel loro splendore primordiale. I pezzi registrati dal vivo al Peppermint Lounge di New York nel febbraio dell’83 che occupano l’intera seconda facciata non tradiscono quella che è la missione per cui i Kings si sono immolati ad inizio decennio: tutte cover, come era nella primissima tradizione della band di Rochester. Larry and The Blue Notes, Cavaliers, Elite, Chocolate Watch Band, Bad Seeds, Barons, i Golliwogs dei fratelli Fogerty, Merseybeats, passati attraverso il setaccio del più fenomenale juke-box garage punk degli anni Ottanta.

Un carburatore intasato di benzina sixties che spruzza petrolio come fosse una trivella nel deserto sahariano.

I Re. E i loro fossili.

Il parziale allontanamento dal garage sound più canonico annunciato da Don‘t Open Til Doomsday diventa compiuto con la pubblicazione di The Berlin Wall of Sound del 1989, sfacciato tributo allo sleaze rock che grazie al successo planetario dei Guns n’ Roses è tornato in quegli anni prepotentemente alla ribalta.

Greg Prevost e Andy Babiuk assieme ai nuovi Paul Rocco e Brett Reynolds si trovano così a vestire i panni di nuovi New York Dolls e ad affidare il proprio nome a uno stupido stendardo con tanto di sciabole incrociate, scudo araldico e aquila imperiale nella più banale delle iconografie metallare.

Il disco mantiene le promesse della copertina. Rock ‘n roll maschio e stradaiolo prodotto da Richie Scarlet che proprio in quel periodo suona fianco a fianco con Ace Frehley dei KIϟϟ per il suo debutto solista Trouble Walkin’ e che è uno che le chitarre sa come farle colare fuori dalle casse.

Dee Dee Ramone regala anche stavolta un brano ma Come Back Angeline non ha lo stesso tiro di Baby Doll, quanto piuttosto quello della celebre Walkin’ the Dog di Rufus Thomas ma ben si adatta al clima da rodeo metallico di tutto il disco che però, nonostante la pioggia di fuoco di chitarre e la batteria che pesta come non mai e malgrado non sia avaro di belle canzoni (Richard Speck, Who‘s to Blame e Love, Hate, Revenge su tutte), non riesce a reggere il confronto con i tre dischi precedenti. L’omaggio al suono dei New York Dolls (nella versione CD è aggiunta la cover di Pills resa pari pari a quella delle Dolls medesime) e agli Heartbreakers è sincero e, come nella tradizione della band, competente, ma si allinea su uno stereotipo un po’ troppo abusato finendo per rimanere schiacciato dal suo stesso peso.

Che poi io preferisca questo disco a quelli dei vari Dogs D’amour, L. A. Guns, Little Caesar e agli stessi Hanoi Rocks è faccenda del tutto personale.

Ognuno è libero di di scegliersi i propri eroi.

E di liberare Barabba piuttosto che Gesù Cristo.

Nel 1990 i Chesterfield Kings, in piena crisi di identità, si abbeverano alla stessa fontana di “acqua sporca” cui si abbeverarono gli Stones degli esordi.

Come dei buskers metropolitani armati di strumenti acustici, eccoli otto anni dopo Here Are con un nuovo disco di cover versions.

Stavolta si tratta però di sfregare la lampada del blues del delta anticipando di un paio d’anni l’analogo esperimento di Jeffrey Lee Pierce.

Sono le ossa di Robert Johnson, Muddy Waters e Willie Dixon a venire alla luce, nella nuova opera di scavo dei cavalieri di Rochester.

Bruciati un po’ alla volta i ponti col proprio passato i Chesterfield Kings si concedono dunque la libertà di prendere in giro se stessi e i propri fan reinventandosi bluesmen e costruendo un disco anomalo che può suscitare fastidio a chi li vuole ancora immaginare capaci o semplicemente vogliosi di perpetuare all’infinito lo spirito delle teen band perdute degli anni Sessanta oppure esasperare all’inverosimile l’anima glam che è emersa negli ultimi anni.

Drunk on Muddy Water col suo carico di blues sporco coglie dunque tutti di sorpresa, alimentando le antipatie da parte dello zoccolo duro dei vecchi fan ancora refrattari al cambiamento che in questo periodo circondano la band.

Qualcuno beve, qualcuno piscia.

Si chiama il ciclo dell’acqua, anche se nei vostri libri di scuola ve l’hanno disegnato con il mare azzurro e le nuvolette bianche come gli agnellini di Heidi.

Forse il disco preferito da Greg Prevost fra tutti quelli incisi dai Chesterfield Kings è però quello più esplicitamente dedicato agli Stones, omaggiati sin dalla copertina (elaborata su quella originale di Aftermath) e dal titolo (Let’s Go Get Stoned), rivisitati con la solita carta carbone che i Re di Rochester riescono a maneggiare facendo dei ricalchi fedelissimi e citati qui e là anche nei pezzi firmati dalla band (clamorosa la versione tarocca di Simpathy for the Devil nascosta sotto Long a Go, Far Away) o nel trattamento stonesiano (siamo dalle parti di Dead Flowers) riservato al country di Merle Haggard Sing Me Back Home, invitati addirittura a suonarci dentro (ottenendo il cameo di Mick Taylor sulla cover di I’m Not Talkin’ e anche su una versione ad oggi inedita di Can’t Believe It).

Il suono degli Stones post-beat calza a pennello per i Chesterfield Kings infatuati dal glam e dallo street rock’n roll e Greg ed Andy, in questa sorta di parodia, hanno modo di sperimentare strumenti nuovi come il dulcimer, il sitar, il mellotron e nastri a rovescio usati però con grandissima parsimonia e relegati in fondo ad un disco che è invece pieno di striscianti chitarre blues e accordature aperte nella miglior tradizione di Mr. Keef e di boccacce simili a quelle del Jagger arrapato dei primi anni Settanta. Che è sempre un bel sentire. Anche se accentua la sensazione che i Chesterfield Kings, non essendo diventati i Chocolate Watch Band degli anni Ottanta si stiano accontentando di diventare i Rutles degli anni Novanta.

 

La sorpresa più grande per il pubblico dei Chesterfield Kings arriva però tre anni dopo, presentata con un titolo che non lascia adito ad alcun dubbio su dove sia andata a finire la serie di giochi di ruolo cui la band pare prestarsi da un po’: Surfin’ Rampage.

Non il solito tributo “muto” alla musica surf ma un autentico esercizio di stile vocale, strumentale, scenografico alla musica californiana di Beach Boys, Four Freshmen, Jan & Dean. Come è ormai tradizione della band di Rochester, un cortocircuito temporale praticamente perfetto già dalla grafica e dalle foto di copertina, con la band agghindata a dovere dal taglio di capelli fino al tacco degli stivaletti e la tavola da surf sottobraccio come i fratelli Wilson nel ’64, quando il mondo sembrava bello così com’era e non si volevano fare rivoluzioni.

Surfin’ Rampage è dunque un disco-cartolina che, beffando il tempo, potrebbe essere stato spedito più di trent’anni prima da Santa Cruz, Princeton-by-the-sea, Cayucos o Pismo Beach. Nessuna nota fuori posto, nessuna sbavatura, nessuna armonia vocale meno che perfetta. Il gruppo sembra intrappolato nella sua stessa perfezione maniacale, appagato della sua identità di gruppo-replica seriale in grado di poter riprodurre qualsiasi cosa (il garage-punk, lo sleaze rock, i New York Dolls, gli Heartbreakers, gli Stones, il blues, la surf music) con una efficacia ed una dignità pari a quella originale. Manca però il “carattere”, quello che era emerso su dischi come Stop! e Don’t Open Til Tuesday e che è andato via via disperdendosi in operazioni nostalgia di gran prestigio ma su cui è ormai impossibile fantasticare.

Il rientro nel vecchio recinto del Sixties-punk porta in bella vista il titolo dello storico programma televisivo della ABC dove erano di casa i Raiders di Mark Lindsay che scrive assieme ai Re di Chesterfield uno dei tre brani omografi che compongono la scaletta di Where the Action Is! ovvero, Here Are The Chesterfield Kings…again.

A venti anni esatti dalla loro prima entrata in scena dunque i signori di Rochester tornano ad infilare le mani nelle Nuggets dell’epoca d’oro del beat-punk, con classe inalterata ma con risultati comunque meno esplosivi rispetto al debutto. Di certo meno ricchi di fascino.

L’omaggio oleografico dell’esordio si è adesso un po’ ingrigito e Where the Action Is! suona più come un disco di nostalgici che come un rabbioso tributo alla furia delle prime punk songs della storia. E, nonostante la buona scelta della scaletta e l’interpretazione sempre molto fedele alle coordinate originarie, questo nuovo disco dei Chesterfield Kings risulta alla fatta dei conti un po’ ovvio se non per un veloce e banale ripasso di canzoni che, nel frattempo, abbiamo già ascoltato in cento altre versioni fino ad averne a noia (I‘m Not Like Everybody Else, 1-2-5, Little Girl, Sometimes Good Guys Don‘t Wear White, Five Years Ahead of My Time, Ain‘t It Hard, Happening Ten Years Time Ago, ecc).

Poco più che un disco di routine, insomma.

Un album che vende per oro ciò che d’oro è solo placcato.

Nel 2002 Little Steven apre il suo Underground Garage trasformandosi, inaspettatamente, nel nuovo guru del sixties-punk creando nuovo interesse attorno al fenomeno. Quali che siano state le dinamiche non saprei ma Little Steven si ritrova in qualche modo a “battezzare” il disco della rinascita dei Chesterfield Kings. È lui a firmare le visionarie note di copertina e a collaborare fattivamente in almeno un pezzo. E, successivamente, a ristampare il disco per la sua etichetta personale.

L’altro nome prestigioso a partecipare al disco è Jorma Kaukonen, che presta la sua chitarra per un paio di pezzi.

Ma The Mindbending Sounds of The Chesterfield Kings è soprattutto il disco con cui Andy Babiuk e Greg Prevost si riappropriano in toto del loro stile, dopo aver disperso il seme su dischi blues e surf e dopo un modesto album di cover come Where the Action Is!. Non mancano le scopiazzature ma stavolta l’album, interamente firmato dalla band, è un ottimo e ricco vassoio di muffin drogati cucinati negli stessi forni delle pasticcerie di Electric Prunes, We the People, Chocolate Watch Band, Rolling Stones (periodo Between the Buttons), Master’s Apprentices e Seeds.

Tra queste le scariche fluorescenti di Endless CirclesNon-Entity con la sua armonica arrapata, Stems & Flowers scritta con Sky Saxon e arrangiata in perfetto Seeds-sound, Transparent Life (a perfetta metà strada tra gli Electric Prunes e gli Stones di Paint It Black), il beat di impronta Easybeats di I Don’t Understand e Memos from Purgatory figlia del Sebastian F. Sorrow nato trentacinque anni prima sono quelli che fanno la parte del leone in questo disco pieno di chincaglieria d’epoca e di suggestioni psichedeliche. Bentornati a casa.

 

Dopo averci messo le mani e la faccia per The Mindbending Sounds of… ed essere riuscito con un po’ di astuzia ad infilarli nella colonna sonora di una classica commedia natalizia hollywoodiana come Fuga dal Natale, per il nuovo Psychedelic Sunrise Little Steven ci mette stavolta anche i soldi. Quello che sarà destinato ad essere l’ultimo atto dei Chesterfield Kings esce infatti sotto la sua produzione esecutiva e per la sua label. Nonostante il disco mostri una continuità concettuale ed una sorta di affiatamento artistico (la formazione resta invariata rispetto a quella del disco precedente) con Mindbending, il risultato è però una bolla di sapone.

Eccentrica, colorata, iridescente.

Ma pur sempre una bolla.

Tradito da un’ambizione forse un po’ eccessiva (i violini di Inside Looking Out, i forzati inserti pinkfloydiani di Elevation Ride, tanto per dirne di due) e da richiami fin troppo ovvi con il freakbeat che fu. Sparandone uno, sfacciato, proprio in apertura di disco. Proprio per questo forse il disco funziona meglio ascoltato ribaltando la scaletta, visto che come nei piatti malconditi il meglio rimane sul fondo: il garage punk arruffato di Dawn che svisa dalle parti di Fluctuaction, l’Alice Cooper impasticcato di Yesterday’s Sorrows, la ballatona roots Gone che invece tracima dalle parti di I’ll Be Back Someday, rendendo vana la speranza di un ritorno e mantenendo la promessa.

La presentazione del disco, l’11 settembre del 2007, si tinge di veglia funebre per la morte di Doug Meech, il ragazzo biondo dietro le pelli dei Chesterfield Kings Re del garage-punk portato via troppo presto dell’eroina. Live on Stage…If You Want It interamente registrato e filmato nella loro amata Rochester, viene pubblicato per spezzare il silenzio che è sceso sulla band, dichiarata morta un po’ di tempo dopo dallo stesso Greg Prevost e seppellita lì dov’era nata trenta anni prima.

Il trono è vacante

                                 Franco “Lys” Dimauro

 

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BARMUDAS – Every Day Is Saturday Night (Area Pirata)

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Glam rock che fila come una chewing-gum quella dei toscani Barmudas. Musica per assaltare i bar della città facendo saltare la decapottabile lungo il tragitto. Robaccia per alzare al cielo le pinte di birra e imbrattarsi di schiuma. Elementari nelle strutture quanto efficaci dal punto di vista melodico, le canzoni di Every Day Is Saturday Night ravvivano il sogno del rock ‘n’ roll fatto solo per divertirsi, per allentare la morsa di una settimana di lavoro o di fancazzismo assoluto e farci sentire eroi per una notte. Che sia quella del sabato o un’altra, poco importa. Che tanto ogni giorno è un sabato notte. Canzoni perfette per chi preferisce i Dictators ai Ramones e gli Sweet ai T. Rex. Canzoni che ci illudono che andrà tutto bene, anche se stavolta, almeno per mezz’ora, la previsione è azzeccata.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro