STIFF RICHARDS – DIG (Legless)

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Nel punk si può ancora dire qualcosa, nonostante tutto. Anzi, urlarlo. Una volta e una volta ancora, come fanno gli Stiff Richards su DIG.

Approdata al gradino successivo a quello dell’autoproduzione, la formazione australiana tiene acceso il miglior spirito punk in sette canzoni (fra cui una cover della mitica No Fun on the Beaches dei Chosen Few) che versano sangue come fossero stimmate e un’intro strumentale che però scivola alla fine del disco, avendo trovato le rocce, fra cui le monumentali Ostentasious e DIG e la scoscesa, pericolosissima Do It Right Now, coperte di muschio.  

Attenti anche voi a dove mettere i piedi se siete poco abituati a questi pendii.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RADIO BIRDMAN – Live at Paddington Town Hall Dec 12th ’77 (Citadel)

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Il prezzo è proibitivo, ma la ristampa necessaria: Live at Paddington Town Hall Dec 12th ’77 è l’ultima diapositiva scattata a Sydney dai Radio Birdman prima di imbarcarsi nel tour britannico per promuovere il loro album.

Uno sconcertante flusso di energia quello documentato da questo doppio album “catturato” dallo stesso Charles Fisher che ha prodotto il debutto della formazione e che suona incredibilmente bene, come se i Radio Birdman fossero qui davanti a noi, a demolirci casa. Stooges e 13th Floor Elevators mancano dalla scaletta, ma sono presenti in spirito più di quanto possiate immaginare, affiorando come Nessie dalle acque del suo lago, mostrando le squame.

Una scaletta colossale con tutti i pezzi già diventati stimmate del rock and roll più viscerale, crudo, potente, depravatamente libertario dai tempi di Raw Power: Man with Golden Helmet, What Gives?, Do the Pop, New Race, More Fun, Anglo Girl Desire, More Fun, Murder City Nights, I-94, Monday Morning Gluck, Non Stop Girls e tre cover suonate anche quelle col ferro rovente sulla carne.

Venite a leccare queste pustole infette, ORA.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE SECRET BUTTONS – Some Buttons Should Never Be Pushed! (autoproduzione)

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I Secret Buttons si presentano come una versione antropomorfa dei Mudhoney, ugualmente ammalata di lebbra stoogesiana e carica di infetto puss Blue Cheer, raggiungendo apici di ascesso nelle secrezioni chitarristiche Dirt.

Ma il suono di questa fenomenale band australiana è più intriso di blues stopposo, come nella bella Life’s a Bitch e di quell’attitudine garage/rock and roll a malapena trattenuta dalla band di Seattle e poi sfociata, quando non era più possibile impedirne il flusso, nel progetto Monkeywrench (Run Man Run, la cover di Chicken Walk). I Secret Buttons partono proprio da lì. Non vanno molto oltre, a dirla tutta. Ma a me basta.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SCIENTISTS – The Human Jukebox (Karbon)

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Gli Scientists lasciano l’Inghilterra facendo un frastuono enorme.

Con una formazione ridotta a trio, Kim Salmon, Tony Thewlis e Nick Combe si danno all’efferatezza estrema con The Human Jukebox, disco-capolavoro che esaspera ulteriormente le due anime del gruppo: quella più iconoclasta e disturbante e quella che invece ama raggomitolarsi nel sudario greve del blues.

The Human Jukebox indugia in sette rappresentazioni del diavolo e del raccapriccio, dal passo strascicato di Shine a quel vilipendio ai resti di Eddie Cochran che è la title-track, dai clangori industriali di Hungry Eyes all’aritmia di Place Called Bad a quella cacofonia di stridori metallici e di carrozze ferroviarie che caratterizzano sin dal titolo Distortion, tutto qui dentro sembra lambire la demenza psichiatrica.

Gli Scientists sfasciano il loro laboratorio, come elefanti tra i cristalli.

Poi telefonano a casa per annunciare il loro rientro.

Imminente, come la morte dopo una catastrofe.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

ASTEROID B-612 – Readin’ Between the Lines (Full Toss)

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Ci sono le mani e le erezioni di Kent Steedman dei Celibate Rifles dietro il banco di regia per Readin’ Between the Lines, il disco con cui gli Asteroid B-612 salutano il nuovo secolo.

Album dalla struttura molto più elaborata rispetto ai precedenti, con qualche punto di contatto, per affinità ispirative e assonanze stilistiche, con Shakin’ Street dei Sick Rose e che punta sovente anche sui toni da ballata scura alla stregua dei Died Pretty (On Your Way Down, Still Waiting, I Won’t Be Behind You) o comunque un po’ “ammaccate” come la bella Let It Slide.

Un disco dove le fiamme sono ancora belle alte, a dispetto del fatto che sia l’ultimo regalatoci dalla band australiana che per tutti gli anni Novanta riuscì a tenere vivo l’aussie-sound ma non riuscì a sopravvivere al decennio successivo.    

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DIED PRETTY – Lost (Blue Mosque) 

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Il secondo album dei Died Pretty segna uno dei più inaspettati e clamorosi tracolli artistici di tutti gli anni Ottanta. Lost dissipa in tre quarti d’ora un’attesa lunga due anni che il bel singolo Winterland, con i suoi grumi infetti di sangue loureediano (What Goes On si muove come un’ombra spettrale dietro tutto il pezzo, NdLYS) era riuscita a caricare di aspettative, amplificando alla fine la delusione per un album in cui tutta la tensione drammatica che è stata tipica della formazione australiana fino a quel momento si stempera in uno sciatto repertorio di blande ballate inacidite più dalla svogliatezza che dal sacro veleno del rock ‘n’ roll.

Ron Peno sembra “perduto” in un romanticismo stereotipato che giunge al culmine del suo languore da patetico crooner nella conclusiva Free Dirt (un duetto che dovrebbe essere appassionato con Astrid Munday e l’elusivo accompagnamento al piano di Don Walker dei Cold Chisel) dopo averci ammorbato con canzoni dall’aplomb autunnale come Springenfall, As Must Have, Towers of Strength, in una tediosa allegoria della desolazione fertile dei Died Pretty desertici del primo album, lontani da quell’approssimazione verso il nulla che ci aveva incantato ascoltando blues capaci di coprire distanze paradossali e senza un solo ciuffo d’albero che ci riparasse dal buco del culo del sole.

Adesso i Died Pretty ci riaccompagnavano a casa in un carro coperto, passandoci qualche borraccia d’acqua. Ma facendoci rimpiangere l’arsura urticante e selvaggia del primo indimenticabile viaggio.  

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

LAUGHING CLOWNS – Mr Uddich-Schmuddich Goes to Town (Prince Melon) 

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Un breve incipit dove chitarra, basso e batteria prendono il loro posto nello spettro audio.

Poi si aprono le tende e un insolente sax prende il suo posto sul proscenio, prima ancora che il cantante si sistemi davanti al microfono.

L’inizio di In Front of Your Eyes è un messaggio chiaro: la vera voce solista è quell’ombrello di ottone che era già diventato sempre più ingombrante sui dischi dei Saints, la band che Ed Kuepper ha appena lasciato, annusando aria di tempesta e di naufragio. Da quel momento i Saints sceglieranno rotte sempre più tranquille, mentre Kuepper deciderà di gettarsi in un autentico mare in tempesta, senza salvagente: la musica dei Laughing Clowns è infatti un porto insicuro come il molo di New York dove i ratti della new-wave locale di divertivano a flirtare col jazz, dando vita alla cosiddetta no-wave o come la baia di San Francisco dove i Tuxedomoon cantavano le loro spiritate canzoni d’amore alla luna.

Solcato da un sassofono invadente, il loro disco di debutto si attorciglia attorno a quello in un ferroso groviglio di chitarrismi contorti, nervosi spasmi ritmici e un cantato impreciso e a-melodico, alternando schizzate improvvisazioni proto-jazz a sghembe canzoni il cui corpo disteso su un letto di chiodi d’un tratto sembra raddrizzarsi nella postura disciplinata di una banda di paese in solenne parata.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

HAREM SCAREM – Pilgrim’s Progress (Au-go-go.)

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Fulminati dal blues mentre cercavano ancora di far maturare appieno l’iniziale venerazione per Stooges, Velvet Underground, Saints che aveva generato i primi mostri sonori, i fratelli Chris e Charlie Marshall si videro costretti a rimodellare la loro band in funzione di quel nuovo obiettivo: cercare un’alternativa al blues psicotico che imperversava in Australia senza tuttavia cadere nella facile trappola di trasformarsi nei nuovi Canned Heat.

Ci riuscirono solo per un breve periodo: quello che vide la pubblicazione di Pilgrim’s Progress, sorta di “filiale” degli Electric Peace nella terra dei wombat.

Album dalla copertina orribile e lontanissima dall’immaginario che musicalmente intende evocare, prossimo invece a quello dei Creedence Clearwater Revival al cui stile acquitrinoso viene piegata addirittura Open Up and Bleed degli Stooges, Pilgrim’s Progress fatica, anche per questo, a catturare l’attenzione del pubblico d’oltreoceano (mentre in patria basta il marchio Au-go-go. come garanzia di qualità) nonostante l’alta caratura di molte delle sue canzoni, con la strisciante Last Stand Man, il lungo blues di Lowdown e le evocative Cold Change e Hard Rain a contendersi il titolo di migliore del lotto.

Il diavolo arriva sgommando su una due ruote, fermandosi davanti alla grotta degli Harem Scarem.  

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE TRIFFIDS – present The Black Swan (Island)

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All’apice delle loro ambizioni, i Triffids si “lanciano” nel tentativo/cedono alla tentazione di realizzare il loro White Album o il loro London Calling con il progetto insoluto di The Black Swan concepito inizialmente come un doppio album con cui la band vuole dimostrare la capacità di padroneggiare stili diversi e di riaggiornare la propria musica abbinando alla classica strumentazione acustica e a quella elettrica anche l’elettronica. Ad aiutarli nel tentativo scende in campo Stephen Street che al ruolo di produttore tenta di associare quello di programmatore. Il disco, così come nelle sue intenzioni originali, è però un disastro saggiamente ricomposto dall’etichetta epurando il più possibile le tendenze “moderne” (che permangono però evidenti nei due ignobili singoletti pop Goodbye Little Boy e Falling Over You e nella The Spinning Top Song che sembra una versione da videogame dei Simple Minds e che da sole bastano ad inquinare l’intero indotto) e riportando la scaletta ad una credibile sequenza di tredici pezzi più affini a quelli che il pubblico si aspetta dai Triffids, ricucendo alla bell’e meglio una scaletta che, fatte salve le invadenti incursioni vocali di Rita Menendez, riesce ancora a portare a valle qualche detrito di buona caratura come One Mechanic Town, New Year’s Greetings, Too Hot to Move, Too Hot to Think, Blackeyed Susan e la American Sailors breve quanto suggestiva.

Il cigno nero affoga in un lago.

I trifidi, appesantiti da tutto quello che hanno divorato, si piegano sul loro stelo.

E muoiono.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE ATLANTICS – Bombora (CBS)  

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Gli anni Sessanta australiani iniziano da qui.

Iniziano, come un po’ ovunque prima dell’avvento dei Beatles, in maniera silenziosa. Iniziano con una musica onomatopeica che cerca di riprodurre il suono di mondi lontani e di acque profonde come quelle dell’oceano.

Gli Atlantics all’oceano rubano pure il nome (in realtà adottato quasi per caso pensando più al petrolio che all’acqua, NdLYS), e lo rubano a quello più lontano dalla loro terra e aprono “le acque” a tutte le surf band australiane, prima di cimentarsi anche col garage-rock scrivendo uno dei classici del genere, ovvero quella Come On che, dopo essere stata inclusa nella seminale Ugly Things della Raven Records, verrà negli anni riproposta da band come Lords of Gravity, Nomads, Wet Taxis, Hard-ons e dagli italiani Thinglers fra gli altri. Ma nell’aprile del 1963, ispirati più dall’acqua che cade dal cielo che da quella che si infrange sugli scogli cui dedicheranno il titolo, gli Atlantics scrivono quella che a tutto diritto si può considerare la più grande hit surf australiana: Bombora. Messa in bellavista sul loro album di debutto pubblicato addirittura dalla CBS, dà l’abbrivio a tutta la teen-music degli anni Sessanta, laggiù dove il sole fa capolino fra le onde. Mentre voi dormite.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro