DINOSAUR JR. – Farm (Jagjaguwar)

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Sotto il letto, là dove voi tenete il vaso da notte, J Mascis tiene un pedale distorsore.

Non appena sveglio, si stropiccia un po’ gli occhi e lo pigia.

Pochi minuti e la colazione è pronta. Squisita come sempre. Sciroppo d’acero, cannella, uva sultanina e miele distribuiti su undici pancakes lasciate un po’ crude per poterci affondare anche le gengive se nel frattempo, da quando i Dinosaur Jr. sono arrivati come un uragano ad oggi, avete perso tutti i denti o buona parte di essi. Odore di cose buone, di cose familiari soprattutto, nella fattoria Mascis.

Farm arriva a ben venticinque anni dalla comparsa sulla Terra di quell’animale preistorico che cambiò le sorti di buona parte dell’alternative rock americano e ad una dozzina da quell’apparente estinzione che in realtà si rivelò essere solo un lungo letargo da cui la band si è riavuta con un ruggito da leoni come Beyond. Il nuovo album non tradisce le aspettative scatenate proprio da quella reunion e rincara la dose, con pezzi come I Want You to Know, Plans, There’s No Here, Pieces, Over It, l’assolo infinito di I Don’t Wanna Go There già pronti ad affiancare i grandi classici del gruppo, con il loro suono epico e grondante di sottile malumore, di annoiata beatitudine. Un assordante scudo contro le inimicizie e le delusioni.

Golia va incontro al pastorello Davide.

Si china.

Lo prende tra le mani.

E gli mostra lo sterminato campo del suo dolore.            

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NEW YORK DOLLS – ‘Cause I Sez So (ATCO) 

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A un certo punto delle loro vite, artisticamente in picchiata, David Johansen e Sylvain Sylvain hanno sentito il bisogno (economico?, il dubbio è lecito, NdLYS) di andare a riprendere la loro vecchia bambola in soffitta e dargli una spolveratina.

Succede all’incirca a metà del decennio I del XXI secolo.

Non sappiamo cosa ne pensino i vecchi compagni defunti, ma ormai la frittata e fatta e dunque tanto val la pena rigirarla. Cauze I Sez So è dunque il secondo capitolo della nuova stagione della saga, tanto per pareggiare i conti con la prima serie. Nel 2009 dunque ci tocca sentire la parodia delle New York Dolls interpretata da essi medesimi, con un disco che ha pochissime calorie.

Sfatto, anzi sfattissimo. Ma non nel senso decadente e perverso di trentacinque anni prima, quanto nell’accezione di un disco che ha pochissimi motivi per esistere, per abitare la nostra casa, per impegnare i diodi del nostro impianto stereo. Roba(ccia) come il western di Temptation to Exist, l’orrida ballata Lonely So Long, la nuova versione reggae di Trash, il Johnny Cash bagnato come un pulcino di Making Rain sono disarmanti tentativi di tenere in piedi una baracca che forse meriterebbe di crollare. My World, unico pilastro del disco, non ne può reggere il peso, seppure si mostri armato a dovere, nonostante l’esile apparenza di una torva ballata.

Avvisate i filistei, prima che sia troppo tardi.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

BETTY DAVIS – Is It Love or Desire (Light in the Attic)

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Finito nel pozzo nero assieme alla sua autrice, Is It Love or Desire viene alla luce dopo essere stato divorato dalle muffe per oltre trent’anni. Quello che, già nei progetti di Betty Davis doveva essere il suo commiato definitivo dalle scene, diventa addirittura un disco fantasma su cui le leggende, come ogni fantasma che si rispetti, si sono sprecate.

La carica esplosivamente erotica di Nasty Gal è parzialmente attutita, meno frontale e sfacciata, ma l’attitudine funky non si è affatto compromessa, rifiutando di accodarsi al mercato della nuova musica nera.

Il suono della sua Funkhouse Band è una macchina da guerra (anche quando praticamente non suona, come nella filigrana di When Romance Says Goodbye) funkedelica quanto la crew di George Clinton, con i suoni grassi di tastiere e basso che si fondono con il suono cattivo delle chitarre e gli ammiccanti inserti di fiati, come una chiamata all’adunata per tutte le tribù funky di cui Stars Starve, You Know rappresenta la babelica vetta. Completamente travolta dalla sua piressia Betty Davis continua a masticare merda funky come un ruminante al pascolo, risputandoci un bolo appiccicaticcio e colloso.

Is It Love or Desire, pur con i suoi trentatré anni sulle spalle, declassa i Red Hot Chili Peppers al ruolo di semplici lustrascarpe della Regina.

Noi, a pigmei.      

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

BOB DYLAN – Christmas in the Heart (Columbia)  

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La sorte del nuovo disco di Dylan dipende da quanto siete disposti a perdonare a Dylan medesimo. Dylan il colosso affida dunque a voi, a noi piccoli Davide il destino di un suo disco. Un album di canzoni di Natale, con tutti i campanellini lucidati per l’occasione, i coretti dei cherubini ma anche le languide chitarre finto-messicane e finto-hawaiane che hanno già fatto la loro comparsata sui dischi più recenti di Dylan.

Il disco più antirivoluzionario di Bob Dylan. Perché cosa c’è di più antirivoluzionario del Natale?

Il miglior (o il peggiore) modo di ammazzare se stesso. Non l’unico, ché Dylan ne ha provato e ne proverà ancora degli altri. Ma questo di Christmas in the Heart è il suicidio perfetto. Sarete dunque voi a decidere se perdonare un suicida o meno.

Ecco dunque un Dylan dalla voce sempre più pericolosamente vicina al timbro ubriaco di Tom Waits alle prese con Adeste Fideles, Have Yourself a Merry Little Christmas, Silver Bells, The First Noel, The Christmas Song, I’ll Be Home for Christmas. Eccolo vestito da Babbo Natale anzi da cosacco infilare le mani nella saccoccia e portare un po’ di soldi ai bambini bisognosi. Come aveva fatto per il Band Aid, come ha fatto negli anni senza clamori anche quando cantava versi incancreniti nell’odio, come fa adesso a bordo di una slitta che corre all’indietro, prima ancora che il rock ‘n’ roll e il folk aprissero le loro cataratte.

Riuscite a perdonarlo, dunque?

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

B-BACK – Experiment in Colour (Area Pirata)

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Giusto qualche mese di rodaggio per la nuova bassista Zara Thustra ed ecco i B-Back “tornare” per la terza volta col loro esplosivo garage rock ispirato alle gesta “famose” di Chesterfield Kings (Magneto Touch, alla maniera della loro Baby Doll) e Miracle Workers (il fulminante giro di accordi di When I Love You) alla cui tradizione aggiungono almeno altri due capolavori come la bellissima Misunderstood fluttuante di chitarre grungey-folk e la conclusiva The Guitar That I Love, giostra di coriandoli da capogiro con i suoi vibrati chitarristici e il fischiettante Farfisa che duetta con la voce per quattro minuti. Almost Gone e Midnight Bus invece aggiungono quel tanto di spezie soul da opacizzarne la pelle fino a trasformarle in due potenti numeri mod-oriented che non dispiacerebbero a tante formazioni d’oltremanica, come del resto cariche di buonumore da Swingin’ London è la Senior T.T. piazzata al centro del disco. Ancora una volta, dopo due album, ci troviamo al cospetto di una band minuscola ma dal carattere immenso e dalla creatività straripante e multi-focale. Peccato sia pure l’ultima.   

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

MADNESS – The Liberty of Norton Folgate (Lucky Seven)

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Tre anni di preparativi per allestire quello che è il primo “concept” album dei Madness. The Liberty of Norton Folgate è il disco più pretenzioso mai realizzato dalla band: ben 22 brani aperti da tanto di Overture e separati dalla lunghissima title-track che sviluppa il tema del disco senza guardare l’orologio e un gran spolvero di coristi, voci femminili (a Rhoda Dakar viene affidato il compito di voce-guida su On the Town), ottoni, orchestra, percussionisti e strumentisti esotici all’opera per realizzare un grande affresco su Londra. Tutto in pompa magna, come davanti al giubileo della Regina.

Detto questo, The Liberty of Norton Folgate fa volentieri a meno di tormentoni e pezzi da mandare a memoria (tranne, forse, Sugar and Spice), obbligando ad un ascolto completo, ad una immersione spirituale prima che musicale nel labirinto multirazziale che è diventata Londra e nella storia musicale della band, srotolando il gomitolo dei Madness che furono lungo il percorso e chiedendo al pubblico di cedere alla fascinazione per una certa aria da music-hall e un’ombra di decadenza waitsiana e brechtiana che fanno capolino in qualche passaggio.

Si china il capo davanti a tanta magniloquenza. Dapprima in segno di ammirazione per l’ostentata prestanza e cura dei dettagli messa in campo ma successivamente anche per la stanchezza che l’attenzione richiesta porta come conseguenza, come quando ci si stanca di vedere troppo a lungo uno di quei film tracotanti di personaggi vestiti di pregiata sartoria inglese.

The Liberty of Norton Folgate è in fin dei conti Il Gattopardo dei Madness.

Saloni addobbati e stanze degli specchi. Mentre fuori la nazione appena unita è già dilaniata da branchi di sciacalli e di pecore che si credono il sale della terra.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

ROWLAND S. HOWARD – Pop Crimes (Liberation)  

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Quando Rowland S. Howard si mette al lavoro per il suo secondo disco solista ha il fegato in pappa e la faccia verde come una vecchia, stropicciata banconota da due dollari fuori corso, tanto da dover camuffare lo scatto di copertina con un colore innaturale e “pop”.

Si è ammalato dello stesso male della sua musica e non sa se il tempo che gli rimane gli consentirà di subire il trapianto per cui è in lista di attesa. Ma vuole fare di tutto perché gli consenta almeno di completare un nuovo disco. La sua seconda volontà verrà soddisfatta consentendogli di stringere in mano il suo secondo album solista per due mesi, prima che la morte lo trascini via il 30 dicembre dello stesso anno. Come per quello di dieci anni prima, ci sono Mick Harvey e Brian Hooper alle macchine, più il rumorista John Brooks dei Blackeyed Susans e la cantante degli HTRK Jonnine Standish impegnata nel duetto di apertura, quello che per la seconda volta, dopo i Waterboys, ci parla di una ragazza di nome Johnny.  

Rowland ci lascia addobbando un albero di Natale senza luci festose mentre suona un disco dei Talk Talk che penetra nel suo cervello come un mantra proprio quando Mark Hollis canta “la vita è quel che ne fai, non puoi sfuggire. La vita è quel che ne fai, non guardare indietro”. E Rowland sa che alla fine quel veleno di cui ha cantato si è liberato nel suo corpo fino ad inquinarne la linfa rendendola simile al fiele.

E se si pizzica la carne, di quel veleno ne stilla ancora qualche goccia mista a sangue, che è il calamaio in cui intinge il plettro di quel quadro decadente di Pop Crimes.

Scuro e denso, con le lampade fioche ad illuminare una veglia natalizia che quest’anno è un’attesa di morte anziché una profezia di nascita.

L’asino zoppica come un’anima storpia mentre si inerpica per i sentieri polverosi del Golgota. 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CONDO FUCKS – Fuckbook (Matador)

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Ricordate Fakebook, il bel disco di cover realizzato dagli Yo La Tengo nel lontanissimo 1990?

Bene, esce ora la versione maleducata di quel disco lì, di quel gruppo lì.

Un disco allestito trafugando tra i rottami di KInks, Electric Eels, Small Faces, Young Rascals, Voidoids, Flamin’ Groovies, Zantees, Beach Boys, Troggs, Slade.

Pattume, direte voi.

Vasellame prezioso dico io.  Ammaccato, scheggiato ma prezioso.  

Gli Yo La Tengo abbassano l’asticina e scendono al compromesso artistico di piegare il loro stile sempre più rifinito (pensate al coevo e sofisticato Popular Songs) a quello di una garage band amatoriale.

Fuckbook suona come se fosse registrato in una cantina adibita a sala prove, col batterista impegnato a dare il tempo ad ogni canzone e la band che “si suona addosso”, uno strumento sull’altro. Possibilmente scambiandosi occhiate d’assenso che qui non possiamo ma ci par di vedere.

Canzoni stropicciate che i Condo Fucks si prendono la briga di appendere al sole e di rimettere nei cassetti più stropicciate di prima.

Senza dover dare spiegazioni ai vicini.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

THE BLACK CROWES – Before the Frost…Until the Freeze (Silver Arrow)  

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Per l’atto conclusivo della propria storia i Black Crowes radunano attraverso il loro sito una folla di pochi intimi ai Levon Helm’s Studios di New York, accendono microfoni e videocamere e registrano tutto.

Se non è buona la prima, non ci sarà una seconda.

Ma non serve ci sia.

Le venti canzoni che annunciano l’imminente glaciazione dei Black Crowes finiscono tutte su disco, a fare di Before the Frost…Until the Freeze l’ultimo orgoglioso viaggio dentro un suono dinamico come noi mai, a volte quasi  funkeggiante, ormai in grado di parlare con grandissima maestria e stile ogni dialetto della musica tradizionale americana. Forse, se un difetto lo si deve trovare in questo commiato dei corvacci neri, è proprio questo eccesso di padronanza dei propri mezzi espressivi (ascoltare la perfezione “formale” di pezzi come I Ain’t Hiding o What Is Home? su cui altri, ben più blasonati, avrebbero speso decine e decine di ore di registrazione) che va a discapito dell’anima sanguigna che ha sempre contraddistinto la band.

L’ultimo volo dei Black Crowes ha l’eleganza rapace e la possente maestosità di un volo d’aquile.

Come nella fiaba di Andersen, gli uccellacci abbandonano il nido lasciando un tappeto di piume nere.   

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

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IMPEDIMENTS – Impediments (HappyParts)  

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Semplici canzoni punk.

Però no, se pensate che anche voi possiate scriverne di così, mi sa che vi sbagliate.

Perché magari avete il look giusto, tanto più che ora le magliettine dei Ramones le vendono anche nei centri commerciali, in stampa cinese originale.
Però non avete l’attitudine, che è quella che invece non difetta a questi qui.

Gli Impediments suonano come se avessero ingurgitato gli spaghetti del celebre “incidente” dei Guns N’ Roses e adesso ve li stessero risputando sul piatto, se non direttamente addosso. Un ulteriore passo nelle latrine punk per Nick Allen e Ray Seraphine, che ne avevano fatto già uno con il debutto dei loro Apache.

Pezzi come Pig Out, LeAnn, 2012, Stoned to Bed, (Don’t) Mess Me Around suonano come avrebbero potuto suonare i New Bomb Turks se non avessero smesso di divertirsi troppo presto.  

E voi invece? Voi con le magliettine dei Ramones, con cosa vi divertite adesso?

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro