BLACK COUNTRY, NEW ROAD – For the First Time (Ninja Tune)

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Sei brani per quaranta minuti di durata, come nei peggiori incubi prog. Dopo un singolo di debutto che di minuti ne conta dieci, tanto da doverli dividere in una Sunglasses e in una Sunglasses (cont.) per farli entrare sulle due facciate del sette pollici che due anni prima ha alimentato il culto per i Black Country, New Road, ensemble londinese che rappresenta oggi quello che il post-rock rappresentò dopo il primo funerale del rock degli anni Novanta ovvero il tentativo di costruire un ponte sul baratro espressivo in cui di tanto in tanto il rock va a finire. Una “nuova strada” che ci porti da qualche altra parte insomma, un imbuto sperimentale che alla fatta dei conti col classico rock ha pochissimo a che spartire e che ha più a che fare con l’astrazione di contaminazione fra generi, come nelle opere concettuali della Penguin Cafe Orchestra.

Sono musiche che amano la complessità delle forme, i crescendo e le improvvise dilatazioni. Sono nuvole che passano e che passando mutano di sagoma e di profilo, ombreggiano le porzioni di terra su cui sorvolano, scatenano piogge improvvise e poi di colpo schiariscono, si allontanano oltre la linea dell’orizzonte, si sfaldano così come erano apparse e ci lasciano col naso all’insù a bestemmiare come un Mark E. Smith o un Lou Reed qualsiasi.

Disco meteoropatico ed espressionista For the First Time prende le distanze apertamente dall’immaginario rock ‘n’ roll sfatto alla Richard Hell e celebra le minuterie degli Slint come attrezzistica di base per il moderno e parsimonioso artigiano del rock.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SEVEN STOREY – Dividing by Zero (Deep Elm)  

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Ecco il disco che può tentare di risollevare le quotazioni della Deep Elm, ultimamente in calo a causa di un eccesso di autoindulgenza che si respira in molte produzioni col suo marchio rotondo.

I Seven Storey hanno carattere e stile propri e poco a che spartire con tanta paccottiglia emo: diverso il loro background e diversi i risultati, Dio li abbia in gloria. Sono forti ad esempio i legami con certa new-wave (a me è parso di sentire affiorare in più di un caso il ghigno di Andy Partridge e dei suoi XTC…) ma quello che colpisce è la fantasia ritmico-melodica in cui i tre ragazzi americani incuneano queste loro ascendenze, degna di gruppi come Fugazi e All e cresciuta in maniera esponenziale dai tempi di Leper Ethics, il tutto “trattenuto” dai timbri evocativi della voce di Lance Lemmers, a tratti vicino allo spleen epico dei vocalists di Alice in Chains o Days of the New (ascoltate pezzi come Paper and Quill oppure Enough Already per sincerarvene, NdLYS). Notevoli, sul vero senso della parola.

                                                                                Franco “Lys” Dimauro

 

 

 

RITES OF SPRING – End on End (Dischord)

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A convincere Ian MacKaye ad aprire le porte della “sua” Dischord ai compaesani Rites of Spring era stata una demotape di sei brani (pubblicata moltissimi anni dopo in CD per la medesima etichetta) in cui un ragazzo che sfoggiava una curiosa sinonimia lessicale in vece del suo nome sputava sangue dentro un cartoccio di punk violentissimo.

Erano stati fra i primi a far propria quella “rivoluzione davanti lo specchio del bagno” iniziata con Zen Arcade e che avrebbe davvero rivoltato il punk americano come un calzino offrendogli una possibilità di fuga guidandolo verso l’introspezione. Quando va a vederli suonare al 9:30 Club resta folgorato dai loro spettacoli che puntualmente finiscono nel caos più totale.

Che era una costante di tutti i concerti hardcore, certo. Ma per i RoS, quei finali dove tutti gli strumenti venivano spaccati e durante i quali Picciotto si arrampica sugli amplificatori o sull’impianto luci per poi lanciarsi giù, si spoglia di ogni  denuncia sociale e politica e diventa un altro modo per mettersi a nudo, proprio come il petto di Guy, implume e svestito.

Nel 1985, con la pubblicazione dell’omonimo disco di debutto, si inaugura dunque ufficialmente la “stagione” dell’emo-core, del punk che diventa un flusso catartico di emozioni, una cassetta di primo soccorso per le piccole noie della vita.

Lo si scoprirà solo dopo, quando i Fugazi che saranno il frutto di quella ammirazione di MacKaye per Picciotto ne potranno diffondere il verbo su scala nazionale prima e mondiale subito dopo. I Rites of Spring invece, erano stati solo un affare cittadino, una primavera metropolitana che necessitava dunque di essere nuovamente rivissuta con questa bella collezione che raccoglie tutto quello che ebbero la possibilità di dire, in quei sedici mesi di vita, comprese le piccole mutazioni dell’EP postumo che in qualche modo tracciavano il ponte con il suono fugaziano che verrà.

Benvenuta (di nuovo), primavera.    

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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AA. VV. – The Emo Diaries · Chapter Five: I Guess This Is Goodbye (Deep Elm)

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ATTENTI!
Ve lo stanno vendendo come la nuova grande cosa: è l’indie-rock della tribù nerd.
Sono “i figli di una timidezza criminalmente volgare” di cui cianciava Morrissey 15 anni fa. Nei negozi lo trovate alla voce “emocore”. È una belva imbalsamata.
La puoi avvicinare nella tranquillità del salone di casa tua e pensare a quanto possa essere stata selvaggia, se qualcuno non le avesse tolto gli artigli. Un po’ triste.
E di tristezza ci si nutre, il più delle volte. Scambiando l’emozione con il dolore.
La Deep Elm ha votato alla religione emo la sua esistenza, ha messo in saccoccia un bel po’ di nomi (Imbroco, Brandtson, Starmarket, Camber. ecc.) e periodicamente documentato quanto si muove “sotto” nei suoi “diari emo” di cui questo rappresenta il quinto traguardo.
Un riflettore puntato sulle nuove comparse di quella che sarà la prossima scena da dimenticare.
Ne va da se che non sempre i gruppi proposti sono all’altezza del grande salto.
Ottimi i White Octave per esempio, già al debutto per la Deep Elm, con il cantato di Stephen Pedersen vicino al Robert Smith più spigliato (un timbro, quello di Smith, a cui dovremo nuovamente fare l’abitudine nei prossimi anni, statene più che certi, NdLYS). Anche gli schizofrenici Cast Aside potrebbero riservarci grandi sorprese se sapranno smussare l’arroganza delle esplosioni simil-grind e rendere meno paralizzante il loro lato più intimista lavorando più sull’impasto piuttosto che sulla semplice somma algebrica dei due elementi che ne informano lo stile.
Altrove, spesso, son dolori. Come nel cantato tritacoglioni alla Billy Corgan dei Keith Ravine, nel pop incolore dei Reubens Accoplice, nel piagnucolio della Accentuate dei Billy e in altre sfocate, piatte, inutili manifestazioni di orgoglio nerd che affollano questo disco e zavorrano già l’intera scena.

                  Franco “Lys” Dimauro

 

BURNING AIRLINES – Identikit (DeSoto)

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Sono certo molti di voi (figurati…) ricorderanno i Jawbox, una delle più grandi indie bands dello scorso decennio, abili gestori della dissonanza chitarristica tipica di quegli anni che, quasi al culmine della loro carriera, presero Cornflake Girl di Tori Amos e ne fecero un piccolo hit per le college-radio americane. Bene, J Robbins era la mente di quel progetto e i Burning Airlines, dalla fine di quello, il nuovo lavoro in cui si è imbarcato.

Diciamo subito che il carisma dei Jaw era di tutt’altra pasta. La sapiente miscela di rumore e melodia abilmente messa in gioco dai primi viene qui diluita e ridotta ad una forma ammansita, edulcorata, innocua. Outside the Aviary apre questo loro secondo disco e sembra di ascoltare gli All meno pirotecnici, altrove sembra di incrociare i Foo Fighters o qualche gruppo storico della Revelation, finchè non ci si inoltra addirittura in brani dal vago sapore english-pop (i primi XTC evocati in A Lexicon, il Morrissey che fa capolino su The Surgeon’s House, NdLYS), pratica molto diffusa negli ambienti emo dove peraltro il disco verrà di certo apprezzato.

A me ridatemi Grippe e Novelty per favore. Che dei dischi Deep Elm o Jade Tree ne ho già piene le palle.

Franco “Lys” Dimauro

 

FUGAZI – 13 Songs / MINOR THREAT – Complete Discography / SHUDDER TO THINK – Get Your Goat / JAWBOX – Novelty / LUNGFISH – Talking Songs for Walking (Dischord)

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La recente opera di recupero e rimasterizzazione del catalogo Dischord ci da l’opportunità di rificcare il naso dentro suoni e dischi che hanno marchiato indelebilmente i primi anni novanta. La Dischord è stata e continua ad essere una fucina, un esempio di reale indipendenza mentale e gestionale. Un cazzo in culo a tanti lecchini che girano (e governano) il music-business.
Cosa siano stati capaci di costruire i Fugazi sin dal primo EP del 1988 è dominio pubblico per i nostri lettori, quindi saprete certo che 13 Songs raccoglieva in un unico supporto i primi due mini (Fugazi + Margin Walker). Dentro c’era già gran parte (ma non tutto) di quello che il gruppo di Washington userà come clichè per il proprio marchio di fabbrica. I Fugazi sono stati i Clash della generazione emocore, una autentica macchina da guerra che metabolizzava roba diversissima come l’hardcore, il noise, il raga-rock, la psichedelia (che emergerà in dischi tardi come Red Medicine o End Hits), il reggae (avete mai ascoltato attentamente le linee di basso di Joe Lally?, NdLYS), il dub, finanche la musica da camera e da sonorizzazione e ne faceva un’altra cosa, una creatura epilettica e mutante. La nevrosi urbana dei Fugazi è il singhiozzo della nostra civiltà, insieme rabbiosa e meditabonda, furiosa con gli altri e melodrammatica con se stessa e The Waiting Room rimane tra le dieci punk songs più belle di sempre.

Chi li ha seguiti conoscerà, di striscio o profondamente, i Minor Threat. Una vita brevissima come i loro pezzi ma che segnerà le coordinate, stilistiche e soprattutto concettuali, per tutto il movimento straight edge. Una furia esaltante contro i lifestyles autolesionisti e distruttivi. Lucidità mentale e fisica anteposte ad ogni altro valore. Essere punk per Ian e soci voleva dire esserci davvero, nel pieno delle proprie facoltà mentali. Complete Discography, facile capirlo, ne raccoglie tutta la carriera. Forse l’opera omnia più veloce e breve in cui vi possa capitare di imbattervi. Ma fatela vostra.


Sicuramente meno diretti gli Shudder to Think, mai amatissimi dai seguaci del nocciolo duro del punk rock. Il loro powerpop, a tratti molto vicino a quello di una band come Urge Overkill, anche se immerso sovente in un soffice feedback memore dei Dinosaur Jr, risulta spesso troppo lambiccato, costruito, arty. Get Your Goat, pur non avendone lo “spessore” storico, è un po’ il Pet Sounds del punk di Washington e dell’american rock tutto. La fantasia al potere è lo slogan, e questo molto prima che il Bollettino Soffice del Flaming Lips divenisse il disco più sopravvalutato degli anni novanta tutti.


Altri intellettuali dell’hardcore furono i Jawbox di Jay Robbins, nati dalle ceneri dei Government Issue. Potrei azzardare che Novelty sia l’album più accessibile dell’intera discografia Dischord e non credo di discostarmi molto dalla verità. E se l’Atlantic, fiutandone le capacità commerciali, avrebbe loro offerto da lì a breve un buon contratto, forse non sono l’unico a pensarlo. Ma erano gli anni dell’azzardo post-nirvaniano, e tutto andrebbe ridimensionato all’equazione allora vigente tra le majors indie rock=dollari. Putroppo per loro avrebbero fallito il colpo, con esiti disastrosi. Ad ogni modo, il loro epitaffio per Dischord fa peso su un punk da college-radio che sarebbe stato copiato da una marea di indie bands. Provate a fare un salto a casa Crank! o Deep Elm per sincerarvene.


Più crudo il secondo album della lunga carriera dei Lungfish, prodotto tra l’altro proprio da MacKaye: convulso, malsano, contorto, rumorosamente impervio, sofferto. Rispetto alle prove di Jawbox e Shudder to Think sopra citate, Talking Songs for Walking è un disco che ha retto meglio l’urto del tempo, forse proprio per una questione meramente anatomica: il sound dei Lungfish era fisicamente robusto, guadagnando in capacità di penetrazione ciò che perdeva in eleganza rispetto a tanti compagni di etichetta. C’è la serpe nera del blues che striscia dentro questo disco, ecco cosa. La vedi passare mentre Friend to Friend in Endtime o Parthogenesis ti si muovono dentro. E il Diavolo, nonostante tutto, non può mai sbagliare.

Franco “Lys” Dimauro

APPLESEED CAST – Low Level Owl: volumes I-II (Deep Elm)    

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Diciamo subito che certe “opere” mi mettono già in una cattiva disposizione d’animo: 108 minuti di musica. Siamo dalle parti di Sandinista! o quasi. Dunque, o sei un genio e allora io mi inginocchio e tu mi sodomizzi oppure credi di esserlo e allora io ti prendo a calci nel culetto e ti mando a spalare ossa e ti tolgo la cittadinanza, qualunque tu abbia. Detto questo, gli Appleseed Cast, nonostante una discreta fama in ambito emocore, non sono né i Clash né i Pink Floyd, non hanno né la bulimia multirazziale dei primi né la visionarietà dei secondi.

Continuando per analogie diciamo che questi due volumi di Low Level Owl sono per la scena emo ciò che Mellon Collie degli Smashing fu già per il grunge: la scossa progressiva è talmente intensa da rappresentare, più che una evoluzione logica, un appesantimento gravoso e plumbeo che, lungi dal far decollare un intero fenomeno, lo zavorra a terra. E come quello sancisce inequivocabilmente come certe posizioni della critica nei confronti della musica progressive dei 70’s siano tutte da rivedere.

Se si rabbrividisce ancora oggi al “passaggio” di Van Der Graaf Generator, King Crimson, Pavlov’s Dog o Soft Machine, non si capisce perché poi si celebrino certi recenti mausolei musicali come capolavori assoluti. Analogamente si dovrebbe riflettere come l’alito prog di quegli anni sia diventato di recente, l’anello di raccordo di tutte le musiche di derivazione rock: Smashing Pumpkins, Radiohead, GYBE, Tortoise, A Silver Mt Zion, Jackie-O Motherfucker, Appleseed Cast sono qui a dimostrarlo. Io onestamente mi diverto pochissimo, ma varrebbe la pena approfondire la questione.

Musicalmente, per chi non avesse familiarità con il vocabolario dei Semi di Mela, diciamo che siamo dalle parti dei Mogwai, arpeggi dilatati e tastiere quasi liturgiche. Se non avete un debole per queste storie qui evitate di avvicinarvi a questi due dischi, correreste il rischio di addormentarvi a metà del primo e quindi non riuscireste mai ad infilare il secondo nel lettore. Se invece vi piace farvi trasportare da queste pesantezze, rischiate pure.

Io vado a riascoltarmi Faster Pussycat!Kill!Kill!

                                                                                      Franco “Lys” Dimauro

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FUGAZI – Instrument Soundtrack (Dischord)

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Alla fine del decennio la band si zittisce e fa parlare le immagini. Sono quelle che scorrono lungo Instrument, il film diretto da Jem Cohen che esce in VHS nel marzo del 1999 e che ripercorre per due ore, dall’esplosione del punk fino alle ultime sedute in studio che hanno prodotto End Hits, tutta la storia della band. Ad accompagnarlo, in formato audio, lo sperimentale Instrument Soundtrack: diciotto tra demo, outtakes e inediti che mostrano come, se avessero voluto, i Fugazi avrebbero potuto essere “altro”. Un po’ come riuscirono a dimostrare i Clash.

Valgano come esempio la I‘m So Tired suonata al piano da Ian MacKaye dove c’è già tutto l’Ed Harcourt che verrà dieci anni più tardi, oppure l’irriconoscibile, soffocata versione demo di Rend It (da In on the Killtaker). O ancora la dolcezza slintiana di Trio‘s, il mini dub improvvisato sul giro di Shakin’ All Over, la Afterthought che pare essere stata cacciata in esilio dalle maestà sataniche degli Stones o la Turkish Disco desaparecido da Sandinista!

Un disco progettualmente transitorio e satellitare rispetto alle grandi cose della band ma che riesce a dare risalto alla smania sperimentale che ha sempre contraddistinto il gruppo di Washington D.C.

Consigliato solo ai fanatici.

E chi non è fanatico dei Fugazi nel 1999, viene da un altro pianeta.

                                                                                                Franco “Lys” Dimauro

KARATE – The Bed Is in the Ocean (Southern)

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Sapete chi sono i “sordi” più famosi del rock?

Pete Townshend. Certo.

E Lemmy. Ovvio. Aveva pure scritto una canzone intitolata Deaf Forever….

E, credeteci o meno, Geoff Farina. Ahahah. Ma come avrà fatto?

Cioè, diventare sordi con la musica dei Karate è un po’ come diventare ciechi leggendo le insegne dell’Autogrill.

Per carità, non c’è nulla da ridere.

Però è difficile pensare ai Karate come a una delle band più rumorose del mondo, perché in effetti non lo sono stati. Anzi, piuttosto una silenziosa via al rock degli anni Novanta. Quello di fine decennio, quando tutti cominciarono a spegnere gli amplificatori, a rimodulare i gain, a ridisegnare il rock partendo dalla strada opposta a quella del grunge e del rumorosissimo crossover del primo giro di boa. 

Finiranno a flirtare con il jazz da camera, giocando con le ombre.

Ma i Karate di The Bed Is in the Ocean sono ancora una band che vale la pena buttarsi addosso, lasciare dilagare nei silenzi della nostra camera. Silenzi talmente assordanti che, come dicono loro “possiamo sentire che il frigo è acceso”.

In assoluto, assieme ai “cimiteri di appendini” di Capossela la definitiva dichiarazione di una solitudine estrema, asfissiante.

Il rumore delle cose quotidiane che fanno eco al battito solitario del nostro cuore: esiste un dolore più devastante? The Bed Is in the Ocean è uno dei dischi-chiave della breve stagione emo-core, quella in cui il suono di derivazione punk e indie-rock si infilava nelle viscere dell’ accidia indolente e pigra del proprio dolore, senza cercare una via di fuga ma trovandone una compiacenza complice e ignava.

Una apatia che si srotola lenta dalla stanza di Geoff Farina e tracima avvolgendo anche noi. I movimenti sono lenti, annoiati, appesantiti da un tedio che non è più personale ma generazionale, universale. Sembra di poterci sprofondare.

Ed è questo che lo rende indisponente, ben oltre la soglia di tolleranza.

Da questo momento in poi la musica dei Karate comincia a perdersi in cerebrali, smisurate cadute di gusto che ne appesantiscono la forma e la rendono sempre più simile a quel cliché che degenererà presto sui dischi successivi.

Succede già qui dentro, a partire da The Same Stars con quell’interminabile serpente di assoli che Geoff vorrebbe funzionali alla rassegnazione inerte tratteggiata dalle liriche e che invece diventano fastidiosi come cappelli di feltro sotto il sole di agosto. Più avanti è Up Nights a farci temere che i Karate si stiano trasformando nella band di Eric Clapton, e le paure non si dimostreranno infondate.

Poi però succede pure che un pezzo come Diazapam ha quegli scatti nervosi e quell’impeto da piccola città in fiamme che torna a farceli amare davvero, per essere riusciti a far suonare i Police come fossero i Fugazi o viceversa, oppure che gli elastici lenti di Bass Sounds siano esattamente familiari come quelli del nostro pigiamone preferito e che sia confortevole lasciarseli scivolare addosso.

Succede che The Bed Is in the Ocean, pur nella sua palese caduta di stile, rimane una piccola ancora arrugginita nei fondali marini dell’indie-rock degli anni ’90.

 

                                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

 

FUGAZI – Red Medicine (Dischord)

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Nel 1995 Red Medicine arriva a riempire con la calce l’unica crepa presente nel muro di suono dei Fugazi: l’eccessiva seriosità.  La “medicina” che si aggiunge così alla complessa miscela di suoni e concetti fugaziani è dunque il senso dell’humour. Red Medicine è un disco che, senza perdere la voglia di sperimentare tipica del quartetto di Washington, risulta melodicamente meno sfuggente pur sconfinando per la prima volta in qualche angolo di noia (i tre minuti di Version, quasi un Tuxedomoon fuori confine, l’inconcludente Combination Lock, il seppur pregevole caos fine a se stesso di By You, la Fell, Destroyed pavementiana sin dal titolo, NdLYS). 

La sassaiola dei Fugazi diventa dunque terreno edificabile.

L’apertura è affidata a una doppietta di impronta quasi garage (per semplicità d’azione e immediatezza melodica) mitigata appena dalla terza Latest Disgrace che si chiude poi verso il ghigno cattivo di Birthday Pony per poi scivolare nella melodica ed intorpidita Forensic Scene che segna l’ingresso dei Fugazi nell’indie-rock americano, tra Ween e Tripping Daisy.

Passata questa secca, si torna alla furia hardcore e al mai sopito amore per la sinuosa movenza del reggae giamaicano con il trittico finale: la Back to Base che tanto deve a quegli altri profeti del punk emotivo degli Hüsker Dü, la stoogesiana Downed City e l’evocativa Long Distance Runner guidata da un basso caduto da Forces of Victory di Linton Kwesi Johnson.

Un disco di transizione tra un capolavoro e l’altro.

Solo per abbassare la media.

Per non finire tra i secchioni, rimanendo comunque i primi della classe. 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro