DOWNLINERS SECT – The Sect (Columbia)

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Dal 3 gennaio al 31 dicembre del 1964 i Downliners Sect suonano ininterrottamente per i club di Londra e del Middlesex. Allo Studio 51, il blues club dove hanno fatto residenza e dove predicano il loro R ‘n B da età della pietra, registrano anche i quattro brani di At Nite in Gt. Newport Street, l’acetato che il loro agente porta in giro per le case discografiche a caccia di un contratto. Quando quel contratto arriva, nientemeno che per la Columbia, la band non si ferma se non quel che serve per registrare qualche session in studio producendo quattro singoli e un album fenomenali. Sempre in corsa, mentre si esibiscono nel club londinese, ingaggiano Ray Sone, un giovane armonicista che riesce ad improvvisare su ogni standard bianco o nero che i quattro portano sul palco, ottenendo le riverenze di gente come Rod Stewart, Van Morrison, Steve Marriott e John Paul Jones (che offrirà i suoi servigi suonando il bellissimo giro di piano su One Ugly Child, uno dei due pezzi di Larry Bright che i Sect hanno in repertorio, NdLYS).

The Sect fa tesoro di quel prezioso strumento che diventa protagonista di furiose scorribande come I Wanna Put a Tiger in Your Tank, Bloodhound, Lonely and Blue, Baby What’s on Your Mind, Easy Rider, Hurt by Love, Be a Sect Maniac. Un disco senza compromessi, l’esordio dei Downliners Sect, sferragliante di rock and roll e blues selvaggio. Un treno della metro che corre senza fare soste dentro le viscere di Londra, divorando l’intestino delle sue cavernose profondità, portando Chuck Berry, Larry Bright e Bo Diddley a fare un tour nelle cavità della capitale britannica. Fuori in strada, i beatnik poggiano le orecchie sull’asfalto come vecchi pellirossa sui binari della ferrovia per capire da dove venga quel magnifico frastuono di ferro e di acciaio.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

BOB DYLAN – Another Side of Bob Dylan (Columbia)

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Se con The Times They Are a-Changin’ e The Freewheelin’ Dylan si era imposto come cronista della strada, abilissimo paroliere ecumenico e visionario profeta apocalittico con Another Side il chitarrista americano (che qui si accosta anche, timidamente, al pianoforte) scopre la dimensione personale che verrà sviscerata anche in altri passaggi successivi lungo la sua interminabile carriera. Lo fa appassionatamente ma senza prendersi troppo sul serio, tanto che lo si sente ridere mentre intona con un goffo tono yodel All I Really Want to Do, già in apertura di album. Come se stia prendendo in giro non solo la destinataria del suo messaggio ma pure noi spettatori della consegna. L’impianto sonoro rimane identico a quello dei dischi precedenti, anche se la voce sembra ancora più sgraziata del solito. Volutamente più sgraziata del solito.

Ma siamo già all’alba di un mutamento epocale: è come se Bob Dylan si volesse scansare da quel polo magnetico che aveva catalizzato su di se le attenzioni di un pubblico immenso che gli si era radunato addosso (l’ennesimo presagio, proprio un attimo prima del diluvio byrdsiano che stava per investirlo in pieno) ma che si scontrava stranamente con il polo affettivo la cui calotta andava in pezzi, lasciandolo sempre più solo e del cui tormento sente adesso l’esigenza di cantare (il lungo naufragio emotivo di Ballad in Plain D).    

  

                                                                       Franco “Lys” Dimauro

THE TRASHMEN – Surfin’ Bird (Garrett)  

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Quando i Rivingtones li portarono in tribunale per rivendicare i diritti su quella che alla fine del ’63 aveva sfiorato col dito medio il podio della classifica di Billboard e che era diventato il tormentone balbuziente del Natale di quell’anno e per tutti i mesi a seguire fino allo sbarco in terra americana dei Beatles, era ormai troppo tardi: i Trashmen e la “loro” Surfin’ Bird erano già di dominio pubblico grazie ad un tristemente famoso passaggio sull’American Bandstand col solo Steve Wahrer a sgambettare sul palco e il resto della band a guardarlo dalla tv non avendo i soldi sufficienti per raggiungere Philadelphia.

Ma il processo era ormai avviato. Con buona pace dei Rivingtones.  

L’uccellaccio tartagliante, dopo essersi bagnato le piume un’ultima volta dentro il nido dei Trashmen nel rivoltante bagno di Bird Bath, avrebbe colonizzato una fetta di pianeta ben più grande degli Stati Uniti e svolazzato su pellicole, show televisivi, spot e dischi per molti decenni ancora, anche dopo che il diavolo avrebbe spento quel rantolo chiedendo a Steve di cantare per lui giù all’Inferno.

Il resto del loro unico album, pubblicato dieci giorni dopo quell’apparizione sugli schermi televisivi, si porta dietro tutta la febbre per il suono di Dick Dale che la band ha contratto dopo aver visto l’asso della sei corde in azione mediato dal vecchio amore per Buddy Holly e l’R&B che era stato l’olio in cui era immerso il primo motore dei Trashmen quando giravano come un juke-box ambulante per i locali della città sotto il nome di Jim Thaxter & The Travelers, in un piccolo capolavoro di frat-rock che farà scuola pur suonato da ripetenti, come spesso succede nelle vicende del rock and roll.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BOB DYLAN – The Times They Are a-Changin’ (Columbia)  

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Come per A Hard Rain’s a-Gonna Fall Bob Dylan utilizza un’altra asserzione sentenziosa e prostetica per un altro monito, un’ennesima annunciazione profetica per introdurre al nuovo lavoro, il primo interamente scritto da lui anche se, come vuole la tradizione folk, nell’aria si respirano melodie che sembrano disperse nell’etere da secoli trascinando racconti, dolori e voci di altre epoche. Siamo dentro l’archetipo della canzone di protesta di quegli anni, di quel Dylan. Il Dylan che sembra avere dalla memoria elefantiaca, che setaccia la storia e ne tira fuori testi infiniti. Il Dylan inquietante che ancora una volta scrive di presagi che sembra fiutare nell’aria (questa volta cinque settimane prima dell’omicidio Kennedy, per Hard Rain cinque settimane prima della “pioggia” missilistica su Cuba, NdLYS).  

Il pezzo che segue è una delle più belle canzoni di Dylan, un’agghiacciante murder ballad tutta giocata sul filo della suspense. Una narrazione che mette i brividi, il racconto tragico di una disperazione che non si riesce ad arginare. La “strategia” musicale su cui Dylan “appoggia” Ballad of Hollis Brown è la medesima di Masters of War. Ipnotica, bidimensionale, imperturbabile, tanto da indurre l’ascoltatore in una sorta di trance, lasciandolo in balia di un disagio spietato quanto quello che attanaglia Hollis Brown, l’uomo assassino del Sud Dakota. 

Un’analoga storia assassina è quella che vede protagonisti William Zanzinger ed Hattie Carroll, due solitudini immense che si incontrano, scegliendo di naufragare assieme.   

Ma scorrendo il disco ci si imbatte pure in una delle più belle poesie d’amore mai scritte. Si intitola Boots of Spanish Leather. Una canzone d’amore ma anche di libertà. E dell’incrocio delle due cose, che rappresentano l’atto d’amore estremo, la ferita che si ricuce da sola. E che stavolta non versa neppure una lacrima di sangue.

Bob Dylan si sobbarca il peso di questi racconti, come se li avesse visti con i suoi occhi. O come se, chiudendoli, li avesse sognati fino a toccarne le ombre.

Ascoltandolo, sembra di poterle toccare anche noi.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

MANFRED MANN – The Five Faces of Manfred Mann / Mann Made / Mann Made Hits / Soul of Mann (Umbrella Music)

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Mentre mi appresto a scrivere di queste ennesime reissues dedicate al materiale dei Manfred Mann mi chiedo a chi possa interessare, oggi, mettersi in casa delle ristampe del gruppo inglese ormai relegato da tempo immemore fra quelli che io chiamo gli “artisti da autogrill” ovvero quei gruppi che la storia ha, spesso in maniera ingrata, costretto ai margini della storia e la cui vicenda artistica è spesso confinata in discutibili raccolte (sovente di materiale ri-registrato in studio) economiche vendute nelle ceste delle stazioni di servizio o di qualche edicola. Yardbirds, Animals, Hollies, Spencer Davis Group, Them li trovate spesso lì dentro, assieme a Louis Armstrong o i Dik Dik. I Manfred Mann, sempre. Andate pure a controllare.

I Manfred Mann dei primi anni, sorta di incrocio fra il soul-blues guidato dall’organo degli Animals e Spencer Davis Group e il sobrio jazz da beat club di Georgie Fame, hanno ancora un loro pubblico? Ne dubito. La musica del quintetto guidato dal tastierista Manfred Mann ha un garbo che mal si sposa ai tempi moderni e anche con quelli antichi non è che ci andasse giù duro o si arrampicasse su chissà quali specchi sensazionalistici. L’urgenza pre-punk di altre band della British Invasion (penso a Who, Troggs, Kinks, Stones o alle cattive vibrazioni degli Yardbirds) è per esempio del tutto assente dalle produzioni e dalle pose della formazione della capitale inglese. Si fa avanti, piuttosto, un approccio da giovani intellettuali eruditi alla musica black (le cover degli standard del primo album) contrapposto o ab binato al tentativo di assaltare le classifiche con pezzi dalla cantabilità sfacciata (quelli raccolti su Mann Made Hits: da Pretty Flamingo a 5.4.3.2.1., da Come Tomorrow a Do Wah Diddy Diddy, da Sha La La a If You Gotta Go, Go Now). La musica non si prende nessun rischio e non esprime nessuna ferocia. Ecco perché forse ai primi due dischi del lotto è preferibile la restante metà, ovvero Mann Made (che scegliendo un repertorio meno compromesso col blues cattivo appare nettamente più onesto nel mettere in mostra il loro approccio più disimpegnato) ed il Soul of Mann approntato dalla HMV mentre il gruppo si sta ricompattando nella nuova line-up e sta passando ad altra casa discografica e che vede il gruppo impegnato in una piacevolissima sequenza di strumentali a metà strada fra Bacharach ed il jazz. La totale assenza di bonus su questa tornata di ristampe rende però il tutto ancor meno appetibile di quanto sia già di per sé il nome dei Manfred Mann per orecchie vecchie e nuove.             

   

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

THE SUPREMES – Where Did Our Love Go (Motown)

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La mattina dell’8 aprile del 1964 c’è un gran tramestio dentro lo studio A della Motown.

Quella mattina è albeggiato più presto del solito dentro la Hitsville. E il portalettere che come ogni giorno consegna a Gordy il suo numero quotidiano del Detroit Free Press caldo di stampa si trova davanti qualcosa che è a metà strada fra uno studio di registrazione, l’allestimento di un circo di equilibrismo e un cantiere di carpenteria edile. Oltre al solito giro di musicisti, produttori, cantanti quel mattino c’è anche della manovalanza spiccia. Qualcuno sta assicurando al soffitto delle assi di legno con dei cavi.

Per la registrazione del nono singolo delle Supremes Brian Holland e Lamont Dozier avevano avuto una trovata originale: usare come base ritmica uno dei rampolli dell’etichetta, un italo-americano di nome Mike Valvano più talentoso come ballerino che come cantante e la cui sorte, dopo gli insuccessi dei suoi Modifiers, era a quel punto appesa a un filo.

Anzi, due. Uno per gamba.

Perché a Valvano venne chiesto di sistemarsi su due travi sospese sopra la testa delle Supremes e di pestarle a tempo. Gli abilissimi tecnici del suono di casa Motown avrebbero fatto il resto, microfonando il suono di quei passi e creando il segreto del pezzo che avrebbe cambiato per sempre la vita di Diana Ross, delle Supremes e della Motown tutta, permettendo all’etichetta di Gordy di fare arrembaggio nel Vecchio Continente.   

Where Did Our Love Go divenne così un successo clamoroso disinnescando di fatto il senso di “pericolo” da sempre associato alla musica black che ne aveva limitato se non addirittura osteggiato la popolarità. Il trucco venne usato anche per altre session successive, finché attorno a quel titolo non venne costruito un album intero, il secondo per le Supremes, tutto pieno di mani e piedini che battono, di tamburelli, di campanellini, di coretti appiccicosi affogati nel disimpegno più totale e assoluto.

Uno di quei dischi in grado di dare al tempo libero un valore adeguato alle nuove conquiste raggiunte dalle nuove generazioni nel mondo del lavoro.

Uno di quelli capaci di dare il via agli anni Sessanta così come ci piace ricordarli.    

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

KINKS – Kinks (Pye)  

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È il 1963 quando un giovane Robert Wace varca la soglia della Leeds Music di Denmark Street per far ascoltare a qualcuno la demo della band di cui sta curando il management. Si chiamano Ravens e hanno il solito repertorio di standard americani che stanno furoreggiando in Inghilterra. Non si distinguono dagli altri ma per Shel Talmy, il produttore americano che ha già avuto successo producendo per la Decca il primo album dei Bachelors e che ora è alla ricerca di qualche nuovo nome su cui dare il suo imprimatur, si presenta l’occasione per portare alla Pye, la nuova etichetta con cui ha appena siglato un contratto con delle clausole molto vantaggiose (Talmy sarà il primo a chiedere le royalties per le canzoni su cui mette mano e non un semplice stipendio “a progetto”), un nuovo nome su cui lavorare.

I primi due singoli sono ancora privi di carattere. Gli appena ribattezzati Kinks si limitano a fare i Beatles di panchina. Per il terzo Talmy trasferisce armi e bagagli agli studi IBC ed impone il proprio stile di cattura del suono: tre microfoni sull’ampli della chitarra (uno attaccato al pannello, uno piazzato ad un metro e mezzo, l’altro panoramico a catturare il riverbero della sala) e ben dodici sulla batteria. Un azzardo che, visti i risultati raggiunti, diventerà presto lo standard per tutti.

Quello che ne è esce non somiglia a nient’altro sia stato prodotto in Inghilterra fino a quel momento. E in realtà non somiglia neppure a quanto messo in piedi dai Kinks stessi per realizzare i contorni e i secondi piatti a quella prima, appetitosissima, portata. Che sono pregevoli esercizi di rock ‘n roll ma rimangono pur sempre contorni e secondi piatti.

You Really Got Me riporta la musica giovane alla sua natura più indisciplinata e ribelle. Il riff portante, condotto da una chitarra dal suono strappato, sembra scolpito nella selce. È un petroglifo rupestre che si stacca dalla roccia e prende vita. La voce di Ray Davies si muove tra sicurezza mascolina ed eleganza dai tratti femminei. Ma la cosa spettacolare, quella che ufficialmente dà fuoco alla miccia del beat più e prima di qualsiasi altra cosa, è il solo di chitarra. Che non è il solito assolo compassato e scolastico, il classico lick preso in adozione dal blues nero e ricamato sopra una torta al cioccolato bianco.

No, l’assolo di You Really Got Me, che per tanti anni si penserà suonato da chissà chi altri e che invece è frutto di un magico spasmo muscolare di Mr. Dave Davies è tutto un wuambasdregnsquandsbaraguencwooafrenginsbrenguembemfenciomen, una folle improvvisazione di sax che non trovando nessuno strumento a fiato dentro cui barrire, si reinventa assolo di chitarra, finendo per assomigliare a quelle parolacce scurrili che tanto piace mormorare ai maschietti durante l’amplesso. È privo di forma, sembra sgretolarsi da un momento all’altro, animato da una potenza incontrollata, sfrenata, rock and roll.

È un Franti della chitarra solistica.  

Il terzo singolo dei Kinks diventa l’archetipo di ogni canzone irriverente prodotta in Inghilterra da lì in avanti, a cominciare dalle My Generation, Wild Thing e Satisfaction che sono lì lì per venire ma che al momento non ci sono ancora, neppure nel resto dell’album dentro cui You Really Got Me si erge come una montagna dentro una distesa di acque agitate dai venti della musica americana che soffiano da Occidente.  

You Really Got Me sconvolge insomma i piani del beat inglese, che fino a quel momento non si pongono altro obiettivo se non quello di trovare un nuovo canone da ballo per radunare gli adolescenti sotto la stessa bandiera.

La Union Flag.

Quella dei Kinks.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE YARDBIRDS – Five Live Yardbirds (Repertoire)    

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Riedizione di tutto il catalogo Yardbirds da parte di una delle migliori reissue-labels europee. Ma per chi ama il lato più “nero” della band inglese il pezzo “chiave” della loro storia rimane questo loro debutto registrato dal vivo al Marquee (per la serata inaugurale al 90 di Wardour Street, NdLYS): una istantanea sulla devastazione del blues elettrico operata dai “gallinacci” ad inizio carriera. Volumi e velocità tirati allo stremo (ascoltate le chitarre grattugia di Pretty Girl) secondo uno stile che farà scuola di qua e di là dell’oceano. Tutto portato sul palco (e su disco) con urgenza estrema, senza possibilità di repliche (errori compresi, come l’iniziale giro fuori tono di I‘m a Man…) e con una schiettezza e una spontaneità da mettere i brividi, soprattutto pensando alle indolenze ossequiose del Clapton adulto.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE BEATLES – Beatles for Sale (Parlophone)  

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L’unico disco dei Beatles a presentare una leggera involuzione è quello piazzato fra le due colonne sonore di A Hard Day’s Night ed Help!. Beatles for Sale, con i suoi tanti (troppi?) ovvi richiami al rock and roll di base (Chuck Berry, Buddy Holly, Little Richard, Carl Perkins) sarebbe stato infatti perfetto come successore di With The Beatles. Il fatto di venir pubblicato dopo il primo tentativo di realizzare un album facendo leva esclusivamente sulla propria capacità di autori oltre che di interpreti sopraffini svela invece la necessità commerciale di speculare sul fenomeno Beatles allestendo in fretta e furia un disco che continui a tenere il dominio delle classifiche, (ormai da due anni buoni ad esclusivo appannaggio della formazione di Liverpool) e che zittisca in qualche modo la concorrenza che comincia ad affilare le armi, con Rolling Stones e Kinks intenzionati a conquistare il podio.

L’innovazione è al ground zero.

Mai come ora i Beatles hanno bisogno di “Aiuto”.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

THE BEATLES – A Hard Day’s Night (Parlophone)

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La certificazione del successo popolare dei Beatles e nel loro ingresso nell’immaginario sociale è celebrato con A Hard Day’s Night, la pellicola che ne esalta le gesta e documenta l’isteria collettiva che li vede come protagonisti.

Il disco che ne viene tratto, il primo realizzato interamente con materiale proprio, è un lavoro che perfeziona quanto mostrato nei due dischi dell’anno precedente, sia in termini di raffinatezza stilistica che di produzione. L’uso delle chitarre a dodici corde creano l’opportuno cuscino d’aria che esalta le armonizzazioni straordinarie del quartetto e che diventerà uno degli elementi chiave per la nascita del movimento folk-rock americano che nascerà di lì a breve e che congiungerà idealmente il più influente artista americano (Bob Dylan) con i più autorevoli protagonisti dell’invasione americana.

È in ogni caso pura musica di intrattenimento, lontana da ogni implicazione politica e sociale, fiera del suo disimpegno, interessata solo a propagandare se stessa. Virtuosa nella sua perenne ricerca di una perfezione che è ancora squisitamente estetica, la musica di A Hard Day’s Night con i ritornelli fulminanti e il ritmo deciso  della title-track e di Can’t Buy Me Love inaugura ufficialmente la nascita del beat inglese. I Beatles diventano la macchina pop perfetta.   

   

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro