THE BARON FOUR – Outlying (Chaputa!)

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Dieci anni esatti dal debutto e sette dall’ultimo Silvaticus: i Baron Four non sono esattamente degli stakanovisti però potete stare certi che quando decidono di pubblicare un album, si tratta sempre di un ottimo disco.

E infatti Outlying non delude le aspettative.

Il suono nel frattempo si è avvicinato, gradatamente, a quello dei mitici Mystreated abbandonando le irruenze teen-punk per abbandonarsi ad un grungey-folk sempre sostenuto da un garbato uso delle melodie, anche se paradossalmente è proprio il giro fuzzato di Never Feeling Blue a costituire il momento migliore di un album che non deluderà i tanti amanti del garage-rock di matrice britannica, quello che non è mai riuscito a scrollarsi la polvere magica del Merseybeat. Gli altri, si scrollino pure quel che gli resta da scrollarsi.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE BASEMENTS – Sounds of Yesterday (Lost in Tyme)

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Era da un po’ che non si facevano vivi, i Basements. Che del resto non hanno mai “corso” troppo, nella loro più che decennale carriera di cui questo Sounds of Yesterday segna il traguardo del terzo album. A dimostrazione, come appare evidente scorrendo i solchi del lavoro, che spesso è meglio parlare quando si ha davvero qualcosa da dire. E questo disco ci dice di una ispirazione fervida e di una ricerca sonora che li avvicina sempre più alle teen-bands degli anni Sessanta, assorbendo quel suono grungey che pesca in egual misura dal folk-rock e dal beat che già fu fortissima ispirazione per le band greche di un trentennio fa (Frantic Five, Cardinals, Meanie Geanies, Unknown Passage, Purple Overdose).

Siamo dunque, mettiamola così, nel sottogenere di un sottogenere. Il che spesso richiede una filiazione artistica per nulla scontata e un fandom ricettivo altrettanto appassionato e preparato. I Basements si mostrano capaci di avere le carte in regola per maneggiare la materia con estrema perizia e grandissimi risultati dal punto di vista artistico: dei quattordici pezzi del nuovo album non ce n’è neppure uno sotto la soglia dell’eccellenza, con picchi assoluti come Mary Ann, Morning, Sounds of Yesterday, Children of Tomorrow.  

Ora mettetevi chini sui libri, e studiate.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE JACK CADES – Something New (Beluga)

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L’apertura del nuovo album dei Jack Cades è leggermente fuorviante, lasciando tracimare la volontà di lambire i territori del surf strumentale che era finora un territorio vergine per la band inglese. Ma già la successiva Free Advice raddrizza il tiro e si torna a sparare sui medesimi bersagli del disco precedente, con ancora più convinzione e una più marcata inclinazione garage-folk (Chasing You, Electric Messiah) seppur senza mai affondare decisamente i denti e cercando una sorta di docile e ancora una volta riuscito raccordo fra il suono di San Francisco e quello dell’indie britannico degli anni Ottanta. Il risultato è un suono bucolico ma effervescente. Nulla di nuovo, a dispetto del titolo, ma un’ottima conferma dello stato di salute dei Jack Cades.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ELVIS COSTELLO AND THE ATTRACTIONS – Blood & Chocolate (Demon)

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Pochi mesi dopo essersi proclamato Re d’America, Elvis Costello si toglie la corona. E incide il disco più rumoroso e sporco della sua carriera. Chitarre sdrucite già in apertura, tanto per chiarire che non si è ne’ imborghesito, ne’ invecchiato. Tanto che qualcuno, col senno di poi, lo reputerà un degno predecessore delle sporcizie grunge a venire. Un’esagerazione, ovviamente. Si tratta, tutt’al più, di una versione incattivita del Dylan elettrico degli anni Sessanta.

Per l’occasione, tornano in gran spolvero gli Attractions e Nick Lowe e riaccendono l’armamentario che fa bella mostra su Tokyo Storm Warning, che è un po’ l’aereo di G. Mastorna che atterra in piena Highway 61.

Blood & Chocolate è, però, un disco di Elvis Costello. Di Costello ormai trentenne e con dieci album alle spalle: un veterano della musica d’autore inglese, ormai diventato un “classico” e dunque a parte l’esuberanza di qualche pezzo grezzo posto soprattutto nella prima parte dell’album (Honey Are You Straight or Are You Blind e I Hope You’re Happy Now oltre ai due già citati) gran parte del disco si misura con questa dimensione cantautoriale che ama oltre al rock and roll anche i toni confidenziali dell’entertainer di classe e dal gusto ineccepibile. Voi invece avete da eccepire?

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE LIQUORICE EXPERIMENT – How Many Lies (Snap!!)

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Dalla Londra del XXI secolo, sognando di essere nella Swinging London di cinquanta e passa anni prima. I Liquorice Experiment ci deliziano all’alba del 2023 con uno dei migliori dischi sixties-oriented provenienti da quelle terre da molti anni a questa parte. How Many Lies è un’autentica delizia di suoni retroattivi che sembrano provenire proprio da una capsula del tempo, come fosse l’ennesimo volume delle Trans-World Rave Up! col suo carico di R&B licenzioso e di indolente teen-punk. Un suono curatissimo che evita il facile accrocco del volume e delle distorsioni per restituirci quella purezza di cui erano capaci solo band della levatura dei Crawdaddys e dei Tell-Tale Hearts.

Una perizia e un’accuratezza nel ricreare atmosfere torbidamente vintage che si palesa anche negli strumentali che frammentano la scaletta in un paio di passaggi che pochi altri possono permettersi e che ci rivelano quanto un gruppo come la Paul Butterfield Blues Band e il suono della giungla del Dio cannibale Diddley abbiano pesato sugli ascolti della formazione inglese.

Definitivamente, uno dei dischi di debutto migliori da almeno un decennio.

Venite a studiare come si crea un piccolo capolavoro senza alzare polveroni inutili.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro  

THE OPTIC NERVE – Forever and a Day (Screaming Apple)

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La ℗ stampata sull’etichetta del vinile diceva 1993 ma in realtà quello che Forever and a Day conteneva era stato registrato cinque anni prima, in un’afosa estate newyorkese del 1988. L’ultima estate degli Optic Nerve.

Dieci canzoni che mostrano una band in grado di maneggiare il folk-punk di derivazione sixties come pochi altri. Pelle e cartilagini dylaniane, ovviamente, ma anche una muscolatura garage mica da poco esibita fieramente su un pezzo di R ‘n B arruffato come Any Day Now.

Che il combo di New York preferisca dedicarsi ai miti pascoli e che ruggisca solo quando la morsa dell’appetito si fa insopprimibile non è però pregiudizievole: l’atmosfera Mersey di un pezzo come Real Go-Getter prosegue sulla linea tracciata in città dagli amici Headless Horsemen mentre gran parte del disco prova ad indossare i calzari di Dylan come i Mouse and The Traps senza però imitarne l’andatura se non per piccoli tratti di strada (l’armonica di She’s Alright e io stomp di Tompkins Square Blues che Bobby Belfiore porterà da solo nel gabinetto di Broome Street l’anno successivo ad esempio oppure l’arpeggio e la lingua di organo di Hard to Keep) e arrampicandosi addirittura su qualche masso diddleyano come quello che spunta fuori dal prato seminato a zizzania di Take Me.

Chi mette il piede in fallo, è finito.

Purtroppo anche gli Optic Nerve, nonostante il loro equilibrismo invidiabile.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

THE LOW SPIRITS – Gonna Make You Cry/Shadows of Your Mind (Calico Wally) / THE MOCKS – Not Ready/See That Girl (Bickerton) / LE CAROGNE – Le Carogne (Area Pirata) / AUNTIE VEGETABLE – Chives from Hell (Spinout Nuggets) / THE JACK CADES – Infectious Covers (Disques Rogue)

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Da Rochester, i quattro Low Spirits ci deliziano con quello che è probabilmente il miglior 7” di area neo-sixties di questo 2021 ormai calante: Gonna Make You Mine ricorda molto la Frustration dei Painted Ship col suo organo Farfisa in primo piano, appena solcato dalle pennate vintage di chitarra mentre il retro è uno splendido intarsio di evocativi lick grungey-folk sottilmente psichedelici dal fascino inesauribile.

Un suono più elegantemente europeo hanno invece i Mocks, che infatti sono olandesi. E suonano in tre quello che negli anni ’60 suonavano spesso in cinque: il loro singolo di debutto si caratterizza per il taglio mod della A-side ma soprattutto per l’incredibile forza del lato B, con un serrato riff nederbeat che poi si lascia addestrare e trasformare in un fenomenale stomp da Swingin’ London.

Sette pollici, tutti all’insù per gli italiani Le Carogne che superano se stessi e molti altri con un singolo che abbina un fulminante rave-up alla Yardbirds come Rattlesnake e una Two Steps Back sorretta da un organo insistente alla ? Mark fottutamente stilosa. Cagnacci rognosi senza museruola, Le Carogne son tornate a mostrare le viscere che voi tenete ben nascoste sotto le attillate camicie slim-fit, pensando di apparire fighi.

Archiviati come uno spin-off del giro trash del Medway, gli Auntie Vegetable non incisero mai alcun disco durante la loro fugace carriera. Esce oggi, a supporto del loro concerto di reunion, il singolo che raccoglie quattro delle cinque cover (l’altra, qui esclusa, è In-a-Gadda-da-Vida sul secondo volume di A Lifetime of Nervous Gutaches) registrate dal supergruppo composto fra gli altri da Allan Crockford, Bruce Brand, Sexton Ming e James Taylor. Robaccia dozzinale che mostra la passione smodata per gruppi legnosi come Downliners Sect. e per il freakbeat dei tardi anni Sessanta.  

La francese Rogue inaugura il suo catalogo dedicato, pare, solo ad una incessante serie di dischi sul piccolo formato con un bel 7” dei Jack Cades in cui la band di Mole e dei coniugi Whittaker si/ci delizia con quattro cover di superbo grungey-folk estratte dai forzieri degli anni Sessanta su cui brilla come polvere di lapislazzuli la bellissima Once Before dei mai troppo osannati Remains. Candore assoluto, come una pioggia di manna su un mondo che non avrebbe più conosciuto nessuna guerra e nessuna tirannia.

                                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE CYNICS – Sono a Pittsburgh (e sta piovendo)

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Disilluso dalla scena punk locale dentro cui era cresciuto (quella attorno all’Electric Banana di Pittsburgh) e disgustato dal crescente movimento new-romantic, Gregg Kostelich decide di tornare alla purezza della musica dei sixties che aveva scoperto ancora ragazzino grazie ai 45 giri recuperati come refurtiva da un furto presso una radio di Canonsburg, la sua città natale. Decide così di formare gi Psycho Daisies con l’intento di emulare lo spirito di bands come Seeds, Music Machine, Blues Magoos, Alarm Clocks, Litter, Nightcrawlers e Sonics.

Ribattezzatisi Cynics e sostituito Mark Keresman (è lui a cantare sul 7” di debutto della band, NdLYS) con il nuovo cantante Michael Kastelic, ex cantante nei Wake, il gruppo è pronto per il suo album di debutto, pubblicato nel 1986 per l’etichetta personale della band, titolo Blue Train Station, numero di catalogo GH-1000. 

Accanto a Gregg e Michael ci sono il fido compagno Bill Von Hagen (il protagonista di Debt Begins at 20, cortometraggio di Stephanie Beroe che sviscera la nascita del movimento punk di Pittsburgh, NdLYS), un bassista che pare scivolato fuori da una copertina dei Redd Kross e la bella Beki Smith all’organo Vox. La stazione del treno blu è una delle tappe obbligate del rapido neo-garage degli anni Ottanta: voce sguaiata e un suono che barcolla tra calabroni fuzz (Waste of Time, copiata sul riff di That’s What You Always Say dei Dream Syndicate, Love Me Then Go Away), serpenti a sonagli R ‘n B (Blue Train Station, No Way, Hold Me Right, la cover di Road Block) e strisce di bava dei molluschi che abitano il giardino folk-rock dei sixties (On the Run). Poco e niente da buttare, non fosse che I Want Love l’avevano già fatta, meglio, i nostri Sick Rose e il confronto con la No Friend of Mine dei Fuzztones abbia sempre dato la meglio a questi ultimi costringendoci a rimandare all’incontro successivo l’appuntamento col capolavoro.

 

Il fogliame che copriva i binari di Blue Train Station cresce rigoglioso sul secondo disco della band di Pittsburgh ricco di infiorescenze folk-punk che ne fanno una delle perle della discografia garage anni Ottanta. La scrittura del quintetto si è affinata, infettandosi ulteriormente con la polvere dei padri e costruendo un disco in cui cover e originali si inseguono senza soluzione di continuità in una giostra di arpeggi jingle-jangle, piogge di maracas, escoriazioni di blues-harp e abrasioni fuzz dominate dalla voce sempre molto persuasiva di Michael Kastelic. 

Il clima di Twelve Flights Üp è simile a quello del ciclone Stop! dei Chesterfield Kings e tutte le cover stavolta sono “risolte” in maniera egregia, raggiungendo l’apice nella ripresa di Abba dei Paragons, nella Nothin’ degli Ugly Ducklings e nella Gloria‘s Dream degli ex-Them Belfast Gypsies e confermando i Cynics come gruppo di punta dell’intera scena neogarage mondiale. Da lì a breve però Bill Von Hagen lascerà la band e la Get Hip che aveva messo su assieme a Michael e Gregg per dedicarsi alla sua nuova passione per i personal computer che lo porterà a diventare un’autorevole firma nel settore delle guide e dei manuali per i sistemi Linux, lasciando triturare i compagni dalle presse fuzz del disco che verrà.

   

Rock ‘n’ Roll è il disco che centra in pieno la meta della perfezione estetica e sonora della band di Gregg Kostelich, dopo il debole debutto e il quasi-perfetto Twelve Flights ÜpRock ‘n’ Roll dosa con sapienza, classe e fragore il classico folked-punk del gruppo, con questo strumming impetuoso e tormentato dal fuzz che pure sembra sgranarsi e respirare tra le sferzate di Farfisa e cembali che gli straziano la pelle. Sono pezzi con cui la band ha talmente familiarizzato sul palco (molti brani sono pronti già dal primo tour e uno addirittura, il meno “cinico” del lotto, proviene dal repertorio della precedente band di Michael Kastelich, NdLYS) da riuscire a trovare per ognuno di loro l’abito perfetto, tanto che quando vanno in studio registrano tutto in una sola impetuosa take di 40 minuti. Peccato che Greg Vizza, nella foga, abbia dimenticato di schiacciare il tasto rec. Cosicché la band registra tutto da capo, mettendoci qualche ora e qualche dollaro in più.

Per un risultato strepitoso.  

Siamo all’apoteosi del garage sound screziato dal folk come lo fu quello dei What’s New e dei Music Machine, con una raffinata selezione di covers (Last Time Around dei Del-Vetts e Cry Cry Cry degli Unrelated Segments) e un’incredibile sequenza di originali, tra cui svetta la scattante Girl You‘re On My Mind scritta da Bernie Kugel dei Mystic Eyes destinata a diventare il primo classicone  garage del nuovo decennio.

 

I tentativi di approdare su major dopo il successo indie riscosso con Rock ‘n’ Roll si chiudono con un nulla di fatto e i Cynics, dopo aver sostituito Steve Magee con il giovane Mike Michalski (ex-chitarrista per la punk band Half Life e parallelamente impegnato nell’ensemble celtico dei Ploughman‘s Lunch, NdLYS) si ritrovano nel 1993 in piena esplosione grunge a doversi confrontare con una scena musicale profondamente cambiata. La scommessa è quella di riuscire a dire qualcosa di coerente con il proprio passato cercando tuttavia di non essere tagliati fuori dal mercato. Il risultato è Learn to Lose, presentato con una foto di copertina ispirata agli scatti deformi e sfocati delle copertine grunge del periodo. Come se si trattasse dei Temple of the Dog, dei MindFunk, dei Cat Butt o dei Love Battery.

Learn to Lose è il disco che segna il punto artistico più basso della carriera dei Cynics. Un disco svogliato e appannato in cui la band cerca di coniugare il suo originale spirito beat/punk con le nuove esigenze della generazione X. Ecco quindi quello che sarebbe potuto diventare un grandissimo numero byrdsiano come How Could I venir soffocato da una inutile pellicola di distorsione, un pezzo come Someone Like Me in cui la band sembra voler fare il verso agli Screaming Trees con un Gregg spento e poco credibile, una Pressure che pare voler esplodere di elettricità o una I Want It All che sembrerebbe voler andare chissà dove senza in realtà riuscire a sollevare neppure i piedi dall’asfalto.

E quando la band torna a rivangare al suo passato chiudendo ogni facciata con una cover del loro glorioso repertorio vintage (You Must Be a Witch dei Lollipop Shoppe e I Want You dei Troggs) và pure peggio, suonando come una band della zona retrocessione che cerca disperatamente di non abbandonare il campionato maggiore. Loro, che avevano preso pezzi come Abba e Last Time Around e li avevano portati a nuova vita.

Learn to Lose si fa dimenticare in fretta.

I Cynics hanno imparato a perdere. Ed hanno imparato bene.

Quello stesso anno i Mudhoney di Five Dollar Bob’s Mock Cooter Stew riusciranno a dimostrare che la strada era percorribile. Ma che i Cynics l’avevano solo imboccata malamente.

 

Get Our Way ritrova la “strada” smarrita e riporta immediatamente i Cynics nei più familiari canoni del garage-rock che erano stati traditi da Learn to Lose causando lo sdegno dei fans e una bella perdita in termini di immagine e di dollari. Il recupero è veloce e abbastanza efficace, con un album che torna a macinare grandi riff folk/beat e garage-punk (Love Me Now che sembra addirittura tornare indietro fino all’esordio e Private Suicide i migliori) e che aggiunge un sottile straniamento psichedelico figlio delle intuizioni aromatiche di We the People ed Elevators e che costituiscono la vera novità, stavolta ben gradita al pubblico storico della band, di pezzi come Lose Your Mind13 O’Clock Daylight Savings TimesAll the StreetsBeyond the Calico Wall/STP00117Get Our Way non regge forse il carico eccessivo (ben diciassette brani, come era stato per il disco di esordio, forse a voler simboleggiare un nuovo inizio e che invece segnerà una violenta e improvvisa battuta d’arresto per la band, forse stanca di affrontare tour estenuanti e interessata a prendersi un po’ cura degli affari propri) ma, seppur meno snello dei suoi illustri predecessori, ci restituisce una band capace di maneggiare con stile la fantastica tradizione beat-punk dei sixties.       

 

Living Is the Best Revenge rompe un silenzio durato otto anni. Che per una garage band equivale ad otto ere geologiche e invece per i Cynics si rivela essere un benefico periodo di distrazione da un’attività che sembrava trascinarsi da un po’ senza molta motivazione.

Il nuovo mentore si chiama Tim Kerr, uno che si è fatto le ossa nei dischi di Big Boys, Jack O’Fire, Poison 13, Monkeywrench e Lord High Fixers. È lui a curare la produzione ma a fare anche da guida spirituale e motivare il ritorno in scena della coppia Kastelic/Kostelich.

Ma ovviamente ci sono dei fattori esterni non trascurabili, primo fra tutto il riacceso interesse del pubblico per la musica di estrazione garage sull’onda del successo di band come White Stripes e Von Bondies. Il disco però sembra quasi sempre una rimasticatura dei “vecchi” Cynics di quindici anni prima e paradossalmente la cosa che piace di più è quella che si discosta maggiormente dal classico suono dei Cynics e dalle cover (tre in questa occasione) d’ordinanza: Ballad of J.C. Holmes, che col suo organo Hammond, l’armonica e i cori roots sembra invece andare a pisciare sull’orto coltivato a mais e patate dei Green on Red di Gravity Talks.

Fallito invece l’altro tentativo di andare oltre il bignami garage-punk che si trova in chiusura di scaletta, irrisolta jam che vorrebbe andare oltre le vere capacità del gruppo ma che in realtà ne mette in mostra tutti i limiti.    

 

L’apertura di Here We Are è affidata ad una roba che, anche nella durata, ricorda il Dylan dei mid-Sixties. Come a voler dimostrare, essendo il brano che annuncia per l’appunto il ritorno della band di Pittsburgh, che c’è voglia di uscire fuori dal recinto, ribadendo quello che Living Is the Best Revenge lasciava intuire in chiusura. Non è un episodio isolato, visto che in almeno un paio di occasioni la band sembra suonare come una versione “unplugged” di se stessa e non è neppure un episodio che fa a pugni col tipico carattere wild della band, che non solo riesce ad emergere in due/tre episodi di grande effetto come What She Said, Hard to Please e Coming Round My Way ma che ha modo di confrontarsi con una tavolozza di stili talmente diversi (addirittura una canzone d’amore suonata al piano come Courtney) da poter azzardare di sperare che Here We Are possa far avvicinare ai Cynics un pubblico ben più numeroso dell’ormai esiguo plotone di maniaci del beat-punk.

Un piccolo colosso che col tempo rivelerà tutta la sua grandezza.

                                              

Tre album in un decennio rispetto ai tre pubblicati in appena quattro anni ad inizio carriera sono un dato deficitario, considerato pure che non sempre l’ispirazione è stata ai massimi livelli. Spinning Wheel Motel dà però un’impennata alla verve dei Cynics, con l’apertura affidata a una I Need More che contiene il codice genetico della band e altre delizie disseminate lungo il disco come il brutale maximum r ‘n b di Rock Club o il morbido tappeto jingle jangle di Gehenna srotolato prima di accogliere una Bells & Trains campagnola come i Chesterfield Kings di I‘ll Be Back Someday. All Good Women bacia il clitoride a Joan Jett mentre Zombie Walk sputa sui riff lerci di Premiers e degli Iguanas, Crawl stupisce col suo bel gioco di chitarre e la title track per la sua verosomiglianza con le dolci ballate di Wally Tax. Spinning Wheel Motel mi riappacifica con i Cynics. Mentre fuori soffiano i soliti venti di guerra. Anzi ventuno, che stavolta ci siamo pure noi.

 

                                                                        Franco “Lys” Dimauro

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THE CYNICS – Here We Are (Get Hip)

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L’apertura di Here We Are è affidata ad una roba che, anche nella durata, ricorda il Dylan dei mid-Sixties. Come a voler dimostrare, essendo il brano che annuncia per l’appunto il ritorno della band di Pittsburgh, che c’è voglia di uscire fuori dal recinto, ribadendo quello che Living Is the Best Revenge lasciava intuire in chiusura. Non è un episodio isolato, visto che in almeno un paio di occasioni la band sembra suonare come una versione “unplugged” di se stessa e non è neppure un episodio che fa a pugni col tipico carattere wild della band, che non solo riesce ad emergere in due/tre episodi di grande effetto come What She Said, Hard to Please e Coming Round My Way ma che ha modo di confrontarsi con una tavolozza di stili talmente diversi (addirittura una canzone d’amore suonata al piano come Courtney) da poter azzardare di sperare che Here We Are possa avvicinare ai Cynics un pubblico ben più numeroso dell’ormai esiguo plotone di maniaci del beat-punk.

Un piccolo colosso che col tempo rivelerà tutta la sua grandezza.                                               

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

MYSTIC EYES – Our Time to Leave! (Get Hip)  

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Prima band in assoluto ad essere scritturata dalla Get Hip dei Cynics sono i Mystic Eyes di quel Bernie Kugel ricordato per aver ceduto la miglior carta del suo mazzo proprio ai Cynics che faranno della sua Girl, You’re on My Mind un minor-hit del genere contribuendo di riflesso a far vendere un bel po’ di copie dell’Our Time to Leave! intestato alla band di Buffalo e uscito un paio d’anni prima senza suscitare grandissimi entusiasmi. Il perimetro dentro cui si muove il quartetto è quello del garage meno arrabbiato e più incline a farsi sventolare dalle eliche del folk, più in linea con quanto fatto in Scozia dai Thanes che al solito barbecue di carni al sangue del garage-punk americano degli anni Ottanta. Chitarre a dodici corde e organo fischiettante sono le caratteristiche peculiari del loro suono docile solo all’apparenza come ben dimostrano pezzi come I Have, My Time to Leave, I’m a Nothin’ e la vecchia, zompettante I’m Glad I Walked Out that Door che li fece conoscere al mondo su Declaration of Fuzz.

Si può uccidere anche con un’arma bianca, del resto.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro