ESG – Come Away with ESG (99)

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Smeraldi, zaffiri e oro. Nel Bronx.

Le ESG erano, nel quartiere più malfamato di New York, fautrici di un suono funk spoglio e minimale, meccanico e ripetitivo, sprovvisto di ogni virtuosismo e privato della sua carica erotizzante. Non per niente a tenerle a battesimo era stato addirittura Martin Hannett, l’uomo della Factory inglese che nella musica nera delle sorelle Scroggins aveva trovato più di un’affinità col post-punk bianco delle periferie urbane di Manchester dove il cuore meccanico era il baricentro emozionale dell’uomo vitruviano post-industriale. L’album di debutto confermava lo stile spartano dei singoli che lo avevano preceduto espandendone la durata: un basso legnoso e un piccolo apparato di percussioni erano l’impalcatura primitiva di una disco music anoressica e prosciugata, priva di drappeggi e disadorna come le stanze del Papa dopo le spoliazioni napoleoniche.

Le ESG esibivano quelle pareti nude, mostrando il loro gusto per l’essenziale come alternativa popolare allo sfarzo e al travestitismo delle sovrabbondanti notti nei club esclusivi della disco. Sognando di potere un giorno camminare svestite ma coperte d’oro.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

EARTH, WIND & FIRE – I Am (Arc)  

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Che forza gli Earth, Wind & Fire.

L’equipaggio dell’Enterprise che fa festa a suon di R&B, soul e funky.

E, allo stesso tempo, una folla di gente che applaude al loro atterraggio e canta un gospel universale sotto un arcobaleno di conga.  

I Am è l’album che arriva dopo la partecipazione al Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Bee Gees e al singolone September destinato ad aggiungere argento, e poi oro, e poi ancora platino al loro culto per gli elementi.
È l’album di Boogie Wonderland e After the Love Has Gone che, se abitate questo pianeta, avete incrociato almeno mille volte sul vostro cammino. Ma è pure il disco dove il groove inconfondibile degli EW&F si dipana lungo pezzi come Can’t Let Go, Let Your Feelings Show, Rock That!, In the Stone, coi puttini neri che sfilano le trombe dalle custodie e suonano seduti sulle pelli di Ray Barretto. Gli stessi che l’anno successivo proveranno a portare la luce dentro In the Air Tonight di Phil Collins.

I Am è la celebrazione eucaristica sulla pista a scacchi dello Studio 54.  

L’equipaggio tocca terra senza mai poggiare entrambi i piedi nello stesso momento.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

CHIC – C’est Chic (Atlantic)

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Il prologo dovreste conoscerlo: nel 1977, mentre il pubblico asserragliato dentro lo Studio 54 balla le canzoni degli Chic, Nile Rodgers e Barnard Edwards che della band sono muscoli e testicoli, vengono respinti all’ingresso del club più cool di New York, nonostante siano stati invitati dalla pantera Grace Jones, ovvero colei che assieme a Bianca Jagger, Sylvester Stallone, Liza Minnelli, John Travolta, Michael Jackson, Debbie Harry, Woody Allen, Andy Warhol, Margaret Trudeau, Cher, Truman Capote, Tina Turner, Rod Stewart, James Brown, John Belushi, Steven Tyler occupa costantemente il bancone e i divani in pelle del locale.  

Sdegnati, affidano ad un sonoro Fuck off!!! la loro riprovazione, scrivendo di getto Le Freak, ovvero quello che diventerà il tormentone ASSOLUTO non solo dello Studio 54 ma di tutta la disco-music una volta “spurgato” dalla parolaccia, riadattata in un “freak out” più consono all’eleganza che gli Chic hanno deciso di sfoggiare già dalla scelta del nome.  

La canzone è destinata a far parte del secondo album della band di New York, disco coi controcazzi che stilla miele funk da ogni singola nota stabilendo una volta per tutte la supremazia del team Rodgers/Edwards sull’intera scena disco proprio nel momento in cui la “febbre del sabato sera” raggiunge il suo apice. Epurato da ogni connotazione politica e sociale, il funk degli Chic esplode in un edonismo che è la perfetta colonna sonora per le piste da ballo celebrando l’avvenuta affermazione delle lotte civili delle minoranze (omosessuali, neri, donne, immigrati) e che adesso potevano finalmente fare festa tutte insieme, in un vortice di cocaina, luci stroboscopiche, vortici di pailettes e musica dai grossi sorrisi bianchi che spuntano da grandi labbra rosse. Quella degli Chic è la musica del buonumore. Del nonostante tutto andrà tutto bene. Del lavoro grigio che il fine settimana si tinge di arcobaleno.

Le avvolgenti linee di basso di Edwards contrapposte alle pennate a schiocco di Rodgers, gli arrangiamenti sontuosi e raffinati, il multistrato di voci machili e femminili innescano un’euforia contagiosa ma per nulla effimera, destinata a non spegnersi una volta fuori dalla sala da ballo ma a lasciare una scia luminosa di ottimismo cui aggrapparsi anche una volta tornati nei mille inferni domestici che attendevano il pubblico di sala nelle loro case, accendendole di una luce sfavillante, come di un Natale perpetuo.

Senza mai oltrepassare il limite del buon gusto, gli Chic costruiscono il loro monumento e lo piazzano sulla 54ma strada di Manhattan. 

I clienti dello Studio 54, passandoci davanti, si genuflettono. 

                           Franco “Lys” Dimauro

JAMIROQUAI – Synkronized (Sony Soho Square) 

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Una breve melodia discendente di sintetizzatore, poi una chitarra wah wah e un fraseggio di archi che piano piano vengono avvolti da un vortice di basso sempre più insistente e funky. È così che si finisce dentro Synkronized, atto terzo dei Jamiroquai.

L’assalto di Canned Heat è di quelli cui non puoi sfuggire. Una pentola in ebollizione e voi la selvaggina che ci finirà dentro.

E you know this boogie is for real.

Il suono dei Jamiroquai si è ingrassato come un suino e adesso secerne lardo funky e sudori disco come uno Screamadelica per le spiagge di Ibiza, anche se il riff portante di Black Capricorn Day, brano dalla pelle color ebano come quella di Stevie Wonder, è più vicino a quello di Jailbird che a quello di Loaded. È il periodo in cui la band costruisce piccoli “godzilla” mutanti come Planet Home, Supersonic e l’apoteosi di Deeper Underground aggiunta come bonus track in alcune versioni dell’album, testamento inarrivabile della classe di Stuart Zender che verrà licenziato dal gruppo proprio durante le registrazioni di Synkronized, reinciso nuovamente per intero per privarlo di ogni centesimo di rendita sui diritti d’autore. Ma è anche un disco pieno di riempitivi di poco conto come Butterfly, Destitute Illusions, Where Do We Go from Here? e King for a Day, singolo dal sapore barocco e totalmente fuori dalle corde del gruppo.

O, perlomeno, dalle mie.

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

JAMIROQUAI – Travelling Without Moving (Columbia)  

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Sono uno che i tormentoni se li sceglie da sé. E appena comincia la bella stagione, per evitare che me la imbruttiscano con gli equivalenti musicali dei cinepanettoni, mi carico il lettore cd dell’auto (che non é neppure lontanamente paragonabile alle vetture di lusso collezionate da Jay Kay, NdLYS) coi dischi dei Jamiroquai. Che sono uno di quei gruppi con l’estate dentro, come i pomodori pachino.

Una schiuma lattiginosa di funk, acid-jazz, R&B, disco.

Una vacanza metà aborigena, metà stellare.

Travelling Without Moving è il disco che traghetta il gruppo verso i dancefloor mondiali, in virtù di pezzi pulsanti e goderecci come High Times, Alright, Virtual Insanity, Cosmic Girl, You Are My Love, Use the Force (inserita nella soundtrack della commedia brillante Sliding Doors) dove le dita di Toby Smith sul piano Rhodes e sul Moog saltano come la rana dell’omonimo videogioco, attraversando le strade ingombre del basso sublime di Stuart Zender e saltando sui tronchi galleggianti di fiati e percussioni sui quali il folletto Jay Kay si muove indossando un cappello rubato ad Afrika Bambaataa.

Se venite dalle finezze loro primi album vi sembrerà tutto un po’ volgare.

Se invece venite da quei tormentoni che sanno di buffet Valtur andato a male cui alludevo in apertura, vi sembrerà di avere davanti un’autentica orchestra-spettacolo come quelle dei Tower of Power, dei Parliament, della Sunshine Band o dei Fania All Stars oppure con un po’ di immaginazione sci-fi potreste immaginare di sfilare i caschi ai Daft Punk e, con vostra gran sorpresa, di trovarci sotto Curtis Mayfield e Wayne Casey.

Ma se non venite da nessuna parte perché non vi piace muovervi potreste viaggiare lo stesso, come suggerisce il titolo.

E magari non corro il rischio di incontrarvi agli incroci.

Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Saturday Night Fever (RSO)  

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C’è sempre un momento nella storia della musica in cui i bianchi si impossessano del sound dei neri. Era già successo col blues, col soul e col rock ‘n’ roll. Nel 1977 questo accadde pure per la disco music. Lo fecero in maniera clamorosa, mettendo la bandierina sulla classifica degli album più venduti della storia fino all’arrivo di Thriller di Michael Jackson, imponendo al mondo un suo prodotto musicale e cinematografico che avrebbe influenzato l’immaginario collettivo per anni, decenni. Ancora oggi, per noi bianchi del vecchio continente che “subimmo” la disco music come un’invasione (pur avendone determinato il lancio grazie ai “nostri” emigrati del sud seduti al banco mixer delle discoteche newyorkesi), associare i Bee Gees al suono di quel periodo è più naturale ed istintivo che associarlo a chiunque altro, forse con la sola eccezione di Donna Summer che tuttavia era interprete di una disco già geneticamente modificata in qualcos’altro (l’Hi-NRG, NdLYS) e la silhouette di Tony Manero-John Travolta è la cosa che più di ogni altra ha scalfito il nostro archivio iconografico relativamente a quel periodo.  

È il 1977 e tre puttini bianchi vengono sostituiti alle puttane della musica dei club. La rivoluzione gay (quella di Stonewall) riadattata ad una più commerciabile condizione etero (quella del protagonista del film) o tutt’al più dirottata sui binari di un molle gusto effeminato (la voce da eunuco di Robin Gibb).      

I Bee Gees, che della colonna sonora sono protagonisti non unici ma sicuramente decisivi (Stayin’ Alive, How Deep Is Your Love, Night Fever, More Than a Woman, You Should Be Dancing, Jive Talkin’),  non sono in realtà angioletti immacolati, visto che sono in giro già da quasi un ventennio, ma dei loro successi canori dei ‘60 in Europa e in America nessuno si ricorda più anche perché la loro metamorfosi iniziata a metà degli anni Settanta è stata una delle più radicali della storia della musica pop. Il loro suono è adesso una funzionale lavatrice dove l’uomo della classe media può infilare i panni della disco music senza doverli mischiare con quelli dei latinos e dei neri che affollano le sale da ballo e tirarli fuori sgargianti ed immacolati come il completo di Manero.

Gli ingredienti della disco-music primordiale ci sono tutti, dalle percussioni di Soul Makossa ai fiati dirompenti, dalle chitarre funk alle distese di violini che diventano adesso stucchevoli tappeti indispensabili per permettere lo struscio a bordo sala e ancora piccoli ritocchi di synth e linee di basso marcate e gonfie come le patte prima di avventarsi sulla pista da ballo.

Tutto un po’ annacquato, un po’ sdolcinato, un po’ imbellettato, un po’ levigato perché possa piacere a tutti e diffondersi proprio come una febbre, d’accordo. Ma realizzato con un’astuzia commerciale senza pari.

Da quel momento la disco-music diventa la panacea in grado di curare tutti i mali, anche quelli di artisti ormai prossimi al tracollo (Rod Stewart, gli Stones oppure qui da noi Alan Sorrenti, solo per nominarne tre) che, spinti dalla fame di successo cavalcheranno un’onda che aveva già perso tutta la sua forza devastante.      

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

MANDO DIAO – Good Times (BMG)  

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La sorpresa era già arrivata tre anni fa. Si intitolava Ælita e vedeva la band svedese virare con decisione in direzione synth-pop, tramortendo i fan della prima ora e mettendo nel piatto di contorno quelle chitarre che agli esordi erano invece sul piatto di portata. Il lungo silenzio discografico che ne è seguito lasciava presupporre un ripensamento oppure, in maniera meno drastica, un leggero smarrimento.

Invece, alla luce di Good Times possiamo ora dire che non si trattava di un episodio estemporaneo. Un po’ come è successo per altre formazioni a loro coeve (vedi i Blue Van o gli Strokes ma anche i Coldplay), alla fine l’odore di antico è diventato per loro puzza di muffa. Dunque se siete venuti da queste parti per cercare quel che sapete di non trovare potrei rispondervi, visto che vi piacciono le raccolte vintage, come gli angeli alle donne (numero discordante in ognuna delle quattro cronache evangeliche, che già allora come adesso ogni recensore voleva dire la sua, NdLYS) su Luca 24.5.

È dunque giusto sappiate che se quando passano le “voci sulla radio” e il vostro “shazam” interiore vi suggerisce Spacer di Sheila & B. Devotion, siete invece sulla pista giusta. Perché non solo Voices on the Radio ma tutto Good Times si muove con disinvoltura dentro un mondo variopinto e coatto dove funky, disco-music, ballate zuccherose, pop sintetico, Maroon 5, Blancmange, Pulp, Daft Punk e Tony Manero si divertono a lasciare le loro impronte sul plexyglass senza neppure preoccuparsi di doversi presentare all’ingresso con un nome contraffatto.

Lasciandovi in balia del vostro facile snobismo.

Che ognuno soffoca nel mare dove ha scelto di nuotare.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

DEODATO – Night Cruiser / Happy Hour (Robinsongs)  

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Con i dovuti distinguo, Eumir Deodato de Almeida è stato il Keith Emerson brasiliano.

Seppur “navigando” su mari completamente diversi, Deodato è riuscito al pari del “collega” inglese nell’impresa di “scavalcare” file e file di chitarristi e rubare loro il proscenio della musica giovane. Se era stato il passaggio dalla bossanova dei primi dischi ai rifacimenti di standard della musica classica a regalargli un successo colossale e travolgente la mossa consecutiva, ovvero quella di convertirsi alla disco-music e al funky (un po’ come faranno all’epoca anche Herbie Hancock o il Davis di On the Corner) gli darà gloria più come produttore (i fenomenali dischi di Kool & The Gang) che come autore e strumentista, sicché i suoi album del periodo finiranno per confondersi con le vagonate di produzioni funky-disco dell’epoca. Cosa che in effetti erano. Privi di quel guizzo geniale che avrebbe potuto fare la differenza sia Night Cruiser che, ancora di più, Happy Hour  sono lavori di disco-music domestica. Ben costruita, ben arredata, buona-anzi-buonissima per le rotazioni serali e notturne delle radio, un po’ impacciata sulla pista ma dal gusto  stilosissimo, tanto da essere più volte campionata un ventennio dopo dai nuovi eroi dell’hip-hop, dell’elettro-funk e del nu-soul (da Mark E ai Breakbot, da Notorius B.I.G. ad Angie Stone).    

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

deodato

THE ROLLING STONES – Cinquanta (e più) sfumature di blu(es)

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Chuck Berry, Bo Diddley, Slim Harpo, Muddy Waters, Jimmy Reed, Marvin Gaye, il soul e l’R&B nero della Stax.

Insomma, se la candidatura a nuovi “hitmakers” promossa dalla London per lanciare i Rolling Stones oltreoceano sembra, in virtù degli unici due pezzi autoctoni presenti sull’omonimo disco di debutto, ancora azzardata, gli ingredienti per la pozione magica degli Stones dei primi tre anni sono già tutti qui dentro, messi in mostra come ampolle magiche.

In realtà, come molti dischi di debutto della montante British Invasion, si tratta perlopiù di un lavoro che ha il compito di “importare” e diffondere all’assetato pubblico di teenagers appena ridestato dal fenomeno Beatles la musica americana.

I Rolling Stones lo assemblano con grande facilità, in soli cinque giorni di registrazioni, (3 e 28 gennaio, 4, 25 e 26 febbraio del 1964), aiutati dal cognac portato dallo “zio” Gene Pitney e da qualche pacca sulle spalle dell’altro zio Phil Spector. Oltre, naturalmente, alle dritte dell’ambizioso Andrew Loog Oldham che ha già in mente di fare di loro gli alter-ego cattivi e maleducati dei Beatles.

Tuttavia di quell’arroganza ribelle che da lì a breve esploderà nella musica del quintetto londinese, qui dentro non c’è ancora traccia. Manca, in questa sfilata di cover, il tratto distintivo dello “Stones’ sound”. Keith Richards e Mick Jagger non hanno ancora tirato fuori quella personalità stilistica e creativa che emergerà negli anni successivi e mancano del tutto i preziosi ricami di Brian Jones che daranno colori singolari alla pioggia di successi che inzupperanno le classifiche mondiali da lì a breve. L’approccio al blues, al rock ‘n’ roll e alla musica nera in generale è ancora abbastanza ossequioso nei confronti dei maestri e gli Stones, nonostante destinati ad essere i Garrone della classe, sono ancora degli scolari che si alzano all’impiedi quando entra il direttore.  

Registrato praticamente in sequenza al disco di debutto ma in tre studi (e tre fonici) diversi fra Londra, Hollywood e Chicago (proprio al 2120 della South Michigan Avenue cui hanno dedicato uno strumentale pubblicato sull’extended play dell’agosto del 1964), il secondo album dei Rolling Stones, timidamente intitolato in patria The Rolling Stones N°2 mostra ancora degli autori alquanto incerti (tre i pezzi autoctoni, e tutti e tre per nulla indispensabili) e degli interpreti credibili. Del resto la musica di “importazione” statunitense è ancora un lusso per tanti. Un privilegio che gli Stones possono saziare andando a pescare direttamente dagli scaffali delle novità dei negozi specializzati americani o affidandosi al fiuto sopraffino di Andrew Loog Oldham individuando in ogni caso a tempo di record qualche buona canzone da scaldare in fretta per i teenagers inglesi. Roba che spesso, come nel caso di Everybody Needs Somebody to Love, Time Is On My Side o Under the Boardwalk, è ancora tiepida di prima cottura. Nonostante il lavoro goda di una migliore qualità audio rispetto al disco d’esordio, la sensazione è quella di un lavoro ancora raffazzonato che se da un lato lascia (volutamente) in vista difetti e limiti tecnici, dall’altro mostra una cura dozzinale nell’editing dei pezzi, con clamorose sfumature a chiusura di facciata che rivelano la scelta frettolosa di sfruttare il fenomeno Stones e speculare sulla pessima fama da bad boys che Oldham ha disegnato con cura sui suoi pupilli, farneticando pure sulle modalità per procacciarsi il denaro necessario per poter stringere fra le mani questo nuovo disco della band più pericolosa della nuova Inghilterra.  

 

Il graduale processo di personalizzazione del repertorio e di fiducia nelle proprie abilità di compositori e non solo di interpreti passa attraverso un anno cruciale per il gruppo britannico: il 1965.

La tripletta di singoli di quell’anno, tutti firmati da Mick Jagger e Keith Richards ((I Can’t Get No) Satisfaction, Get Off of My Cloud e il riadattamento di un vecchio gospel The Last Time), sono la testimonianza di una scrittura sempre più graffiante in grado di competere con le canzoni degli amici-rivali Beatles in termini di successo e popolarità.

Il 1965 è l’anno in cui, emblematicamente, scompare anche l’“entità” Nanker Phelge utilizzata per autografare le canzoni scritte dalla band, seppellendo di fatto la prima parte della vicenda Stones.

Il momento è dunque propizio per dare il via all’assalto del mondo.  

Tuttavia, quando si tratta di mettere insieme Out of Our Heads e a spregio di un titolo che lascia presagire chissà quali ingegni la band e il loro manager preferiscono essere prudenti, affidandosi ancora una volta al repertorio altrui e riservando a se stessi le “note a margine” di un disco che è soprattutto un omaggio alla musica soul ed R&B.

Dentro ci sono Sam Cooke, Don Covay, Marvin Gaye, Salomon Burke, O.V. Wright, Barbara Lynn, Larry Williams e l’eroe di sempre: Chuck Berry. Presenti nei loro vestiti più eleganti, tra l’altro (meglio faranno, con repertorio similare, i Pretty Things del dimissionario Dick Taylor, NdLYS).

E pochi Rolling Stones.

Sono brani perlopiù trascurabili, considerata la potenzialità espressiva testata sul piccolo formato, con un Brian Jones rannicchiato in un angolo dello studio a fare ancora una volta la sua smorfia Nanker e ad inghiottire le pillole che la mamma gli ha vietato.   

 

Mamma mamma, ho comprato un disco di musica nera.

Però c’ho messo la varicchina.   

Spronati ancora una volta dalla guerra (più mediatica che reale) con i Beatles, i Rolling Stones danno alle stampe il 15 aprile del 1966 il loro primo disco interamente composto da pezzi propri, come i baronetti hanno fatto qualche mese prima con Rubber Soul. La band era in realtà entrata in studio lo stesso giorno dell’uscita di Rubber Soul, il 3 dicembre del 1965, per uscirne cinque giorni dopo con un disco che verrà rifiutato dalla Decca per il titolo e l’immagine di copertina (Keith Richards “crocefisso” mentre galleggia sull’acqua) ritenute blasfeme, costringendo la band a rivedere titolo e, parzialmente, scaletta.

Aftermath in realtà, più che essere un trionfo per Mick Jagger e Keith Richards che si prendono la briga di scrivere le quattordici tracce che lo compongono, è l’apoteosi di Brian Jones. È lui l’ideatore degli arrangiamenti di lievitazione e straniamento psichedelico che percorrono tutto l’album, dal finto sitar che porge il blister di anfetamine di Mother‘s Little Helper allo storico dulcimer che tratteggia l’ennesimo omaggio alla marijuana camuffato dall’equivoca dolcezza di Lady Jane, dall’armonica che scorre lungo le cosce lunghissime di Goin’ Home al sassofono scorreggione di Flight 505, dal clavicembalo elisabettiano di I Am Waiting alle marimba di Out of Time. È lui il vero cappellaio matto della musica della band. Fisicamente distrutto dall’alcol e dalle droghe e psicologicamente schiacciato tra l’ego dei suoi due compagni, alterna momenti di lucidità ad altri di completo buio creativo, trovate fantasiose a disinteresse e svogliatezze assolute e devastanti. Uno sdoppiamento acuito dal fatto che sente gli Stones sempre più lontani dagli intenti blues iniziali e, di contro, dai sensi di colpa per essere stato lui medesimo il responsabile primo di quella ricerca del nuovo che sente montare dopo aver sentito i progressi dei rivali Beatles.

Musicalmente il disco “soffre” forse di questa medesima ambivalenza, oscillando dal numero molto Motown di Out of Time al Delta blues di Doncha Bother Me (quasi un preludio ad Exile on Main St.), dal country di High and Dry all’immancabile riff di zio Chuck nascosto sotto It‘s Not Easy, da pezzi imprescindibili (Under My Thumb, Mother‘s Little Helper, Think, l’estenuante jam di Goin’ Home) ad altri di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza (What to Do, I Am Waiting, Take It Or Leave It).

Un’incertezza che si ripercuote, commercialmente ed artisticamente, sui due album più intrinsecamente psichedelici dell’anno successivo, prima che i Rolling Stones si trasformino dalla miglior alternativa ai Beatles nella miglior rock ‘n’ roll band del pianeta.

Il 1967 è l’anno chiave della psichedelia inglese:

Sgt Pepper‘s, The Piper at the Gates of Dawn, Emotions, We Are Ever So Clear, Winds of Change, We Are Paintermen, Ptooff!, Little Games, Mellow Yellow, Tangerine Dream, Mr. Fantasy, Something Else, Sell Out, Are You Experienced? troneggiano dalle vetrine dei negozi del Regno Unito nella più variopinta primavera discografica della storia della musica giovane.

 

Il 1967 è anche l’anno più sperimentale e visionario della storia degli Stones.

Un anno inaugurato con Between the Buttons e chiuso con Their Satanic Majesties Request, separati dal singolo più psichedelico della loro carriera: We Love You/Dandelion.

Between the Buttons, uscito proprio nel gennaio di quell’anno, mette a frutto le sperimentazioni di arrangiamento già inaugurate con Aftermath, vestendole di colori leggermente più sgargianti, secondo la moda del momento. 

Il suono sporco e chitarristico per cui la band è famosa (e per il quale tornerà ad essere nuovamente acclamata per i dischi degli anni Settanta) è sacrificato in favore del pianoforte (ben tre i pianisti coinvolti: Nicky Hopkins, Jack Nitzche e Ian Stewart, oltre agli interventi interni di Jones) e delle innumerevoli trovate del solito Brian (theremin, armonica, tuba, trombone, kazoo, dulcimer, flauto, marimba).

L’unica apparente concessione al passato è la giungla diddleyana di Please Go Home appena stravolta dal theremin che emerge a metà del pezzo e dagli effetti d’eco sulla voce di Jagger.

Il resto è il tentativo di recuperare terreno sulla distanza che li separa dall’astronave Beatles. L’evoluzione in senso psichedelico ha tuttavia per gli Stones l’aria di essere niente più che un vezzo, un’eccentricità che il gruppo può concedersi grazie all’abilità strumentale di Brian Jones, cavalcando l’onda emotiva della stagione.

Un kaftano bizzarro e colorato indossato senza grossa convinzione, tanto che le canzoni più riuscite sono quelle alla fine più ordinarie (Connection, la dolce ballata Backstreet Girl che pur pareggiando la dose di miele di Lady Jane, la supera per gusto, lo shuffle di Miss Amanda Jones).

Il resto convince molto meno.

Anche perché quando si tratta di scrivere due parole su un ritmo da vaudeville (Cool, Calm and ConnectedSomething Happened to Me Yesterday) i Kinks dimostrano di avere molte più cose da dire.

Ma in quell’anno famelico ogni artista pare voler scavalcare le soglie sensoriali e catapultarsi in un mondo fatato credendo di poterci abitare per sempre.

La giovane Inghilterra ha bisogno di un rifugio e crede di averlo trovato tra il Marocco e l’India, con le tasche piene di panetti di hashish e la testa traviata dagli acidi. Pure gli Stones hanno bisogno di un rifugio, in quell’anno che vede l’allontanamento di Andrew Loog Oldham, gli scazzi con la Decca, il fiasco commerciale di Between the Buttons, gli arresti per droga, i mostri che cominciano ad affollare la testa tossica di Brian Jones e il sorpasso a destra dei rivali Beatles che con Sgt Pepper‘s Lonely Hearts Club Band si prendono la loro definitiva rivincita artistica sui fratellini cattivi entrando nei libri di storia vestiti da ammaestratori da circo e restando chiusi lì dentro per sempre.

Gli Stones reagiranno alla canzonatura artistica e personale costruendo in quattro e quattr’otto il loro disco psichedelico e mascherando le facce dei quattro Scarafaggi all’interno della copertina tridimensionale che fa da cornice al disco (i Beatles avevano dal canto loro vestito una bambola di pezza con un maglioncino con la scritta “Benvenuti ai Rolling Stones” sulla cover del loro, NdLYS).    

Se il disco precedente li vedeva timidamente avvicinarsi alla psichedelia e all’uso fantasioso degli arrangiamenti e dei trucchi di studio, Their Satanic Majesties Request è un vero tuffo nella corrente freakbeat e come tale, se è attualissimo all’epoca della sua uscita, suona oggi certamente figlio del suo tempo. Nel senso che, a meno che non siate degli hippies che amano stare a gambe intrecciate per tre quarti della loro giornata a stonarsi di cylum e narghilè, non vi salterà mai in mente di aggiungere i diciotto minuti di tabla e suoni elettronici di Sing This All Together o Gomper dentro la vostra raccolta definitiva degli Stones.

Del resto il disco delle Maestà Sataniche è album che vede i Rolling Stones lavorare più sulla struttura che sulla composizione. È dunque il disco del trionfo dell’arrangiatore e rumorista Brian Jones sulla premiata ditta Jagger/Richards. L’atmosfera confusa creata dagli strumenti che emergono e sprofondano nel pastiche sonoro delle canzoni è tuttavia messa al servizio di una scrittura appannata che non rende giustizia alla penna degli autori. Le uniche canzoni dove viene fuori il ghigno maledetto e maleducato della band sono 2000 Man, Citadel e She‘s a Rainbow. Per il resto si tratta per lo più di esperimenti creativi che tracciano un solco talmente poco profondo da essere dimenticati da pubblico, critica e dagli stessi autori nel giro di pochi mesi, per rifugiarsi nei cessi sporchi di Beggars Banquet, faccia a faccia col Diavolo.

Lontano dalle favole.

Dopo essere saliti in cielo alla ricerca di Dio e non averlo trovato, gli Stones nel 1968 fanno ritorno sulla Terra, veloci come una folgore.

Quella folgore si chiama Jumpin’ Jack Flash, incisa nell’aprile del ’68 proprio nel bel mezzo delle sessions per il nuovo album e troppo bella per poter aspettare i nove mesi di gestazione per il nuovo figlio di casa Stones, uscendo in solitario e sancendo il ritorno a casa per la band più scomoda del momento.

Ad aspettarli in aeroporto, oltre alla consueta schiera di fans urlanti, c’è un signore ben vestito, dall’aria severa e lo sguardo penetrante.

Piacere di incontrarvi dice, mentre si avvicina porgendo la mano in un gesto di impeccabile ma innaturale cortesia. Spero che indovinerete il mio nome. 

Vi prego concedetemi di presentarmi, io sono un uomo ricco e raffinato.

Sono stato in giro per tanti e tanti anni e ho rubato anima e fede di molti uomini

continua, mentre li accompagna verso l’uscita.

Li invita a chiamarlo per nome e si mette al loro servizio, sicuro che non si perderanno di vista.

Verrà a trovarli spesso, soprattutto nei primi tempi.

Alla Cotchford Farm nella campagna Londinese.

Negli Stati Uniti, ad Altamont.

In giro per i tribunali inglesi.

Sempre al loro fianco, come un agente di sicurezza.

È il suo alito a scaldarli quando, da marzo a luglio del 1968 agli Olympic Studios di Londra gli Stones si dedicano alla registrazione del loro primo album-capolavoro.

Beggars Banquet è il disco che affranca la band inglese da due presenze diventate ingombranti come quelle di Andrew Loog Oldham e dei Beatles e che, dopo l’escapismo psichedelico di Their Satanic Majesties Request riporta gli Stones alla realtà storica e sociale di quell’anno cruciale e li fa riabbracciare col blues e con il folk rurale.

Il contributo di Brian Jones è ridotto al minimo, costretto a seguire il calendario volubile dei suoi sbalzi d’umore e dei suoi sempre più rari momenti di lucidità psichica e creativa eppure gli Stones appaiono in forma smagliante, quasi come il fantasma di Jones fosse solo un fotomontaggio di cattivo gusto su una foto di gruppo. Un gruppo peraltro sempre più conscio delle proprie capacità artistiche e manageriali e del proprio ruolo all’interno dell’enorme macchina-spettacolo che è il circo del rock ‘n’ roll.

Beggars Banquet trasmette questa idea di coesione, laddove i due precedenti dischi avevano dato l’immagine di una band che iniziava a scollarsi, con la parata di un   suono sorprendentemente potente a dispetto di una strumentazione fondamentalmente acustica (valga Street Fighting Man come esempio) e spesso, lungo le tracce del disco (Factory Girl, Dear Doctor, Parachute Woman, Salt of the Earth, la cover di Prodigal Son che è un’anteprima degli Zeppelin del terzo album), si respira davvero quell’aria stracciona che gli Stones vogliono evocare.

Uniche eccezioni “elettriche” le fantastiche escursioni termiche di Sympathy for the Devil e Stray Cat Blues dove il clima, sostenuto da una percussività prepotente, si arroventa mentre le pietre rotolando correndo verso la foce del Mississippi.

Accomodatevi a tavola, il pranzo è servito.

Spero che abbiate indovinato il mio nome. 

Nel 1969 la presunta rincorsa degli Stones sui rivali Beatles subisce un’inversione di tendenza. Sono infatti i primi a battere sul tempo i baronetti di Liverpool pubblicando Let It Bleed e lasciando agli altri l’onere di sgombrare il campo con il quasi eponimo e capitolante epitaffio di Let It Be.

Siamo allo sberleffo onomatopeico. Ma non solo.

Con l’invito a sanguinare, piuttosto che a lasciar andare le cose al loro destino, gli Stones si schierano ancora dalla parte del diavolo, dimostrando di per l’ennesima volta più cattivi dei cugini Beatles.

Let It Bleed esce in un anno chiave per la storia degli Stones.

C’è molto sangue, nel 1969. E ce n’è molto anche nel ’69 degli Stones.

È l’anno della morte di Brian Jones e della tragedia di Altamont.

È l’anno in cui il rock perde per sempre la sua verginità e diventa un affare da ultrà.

Uno spettacolo in cui tutto ciò che si canta può essere preso sul serio. Maledettamente sul serio.

Let It Bleed trabocca di sangue. Quello della guerra in Vietnam che si versa dalle visioni apocalittiche di Gimme Shelter, quello violento e assassino di Midnight Rambler, quello consolatorio di Let It Bleed, quello che riempie i calici di You Can‘t Always Get What You Want

Musicalmente si registra l’avvicendamento di Mick Taylor a Brian Jones anche se l’album è in definitiva il trionfo di Keith Richards, vincitore tra i due litiganti. Suoi sono tutti i riff portanti del disco (Monkey ManLive with MeGimme ShelterMidnight Rambler), quasi interamente sua la You Got the Silver con un Brian Jones costretto all’ultima umiliazione di dover soffiare dentro l’armonica per un pezzo dedicato alla ragazza appena portatagli via da Richards (Anita tornerà su Coming Down Again, qualche disco più in là, NdLYS). Al disco tuttavia collaborano fior fiori di strumentisti, da Ry Cooder a Jack Nitzsche, da Al Kooper a Bobby Keys, da Nicky Hopkins a Leon Russell, da Merry Clayton all’intero London Bach Choir che apre solennemente la versione di You Can‘t Always Get What You Want che chiude il disco.

Sepolti sotto il sangue ci sono il folk, il blues, il country, il bluegrass che erano stati gettati dentro il cesso di Beggars Banquet e che torneranno ancora a girare dentro le fogne di Exile on Main St. (l’altro disco dove il nome della band non è preceduto da nessun articolo).

E c’è ovviamente anche il rock cattivo e sporcaccione. Quello che si circonda di donne che non conoscono la decenza e di amici che non conoscono limiti.

Brian Jones va via e porta con se la sua fetta di torta.

Oppure provate a girare la copertina e ditemi voi se riuscite a trovarla.

Dopo aver lasciato sanguinare Brian Jones e aver salutato gli anni Sessanta con un volo di colombe sul cielo di Londra, gli Stones si sistemano la patta e vanno a conquistare gli anni ’70. Lo fanno con un disco destinato ad entrare nella storia già dalla copertina firmata Andy Warhol e dalla nascita del famoso logo della linguaccia (anch’esso opera di Warhol) che rappresenterà non solo la nuova etichetta fondata dal gruppo ma l’intera immagine di quella che è destinata a diventare la più longeva band della storia. La cerniera nasconde ben poco in realtà. La virilità è ben esibita nonostante gli ambigui sforzi di contenerla, sia a livello carnale che musicale e non appena la zip scende, ecco venir fuori il robusto riff di Brown Sugar, primo palese omaggio al mondo delle droghe che sta già devastando la band, farcita di immagini sessuali dall’impatto volutamente audace. Il sesso interrazziale è uno degli elementi chiave dell’immaginario stonesiano degli anni Settanta. Un chiodo fisso che tornerà su tutti gli album del decennio in maniera costante ed ossessiva.

È l’elaborazione erotica e carnale dello stupro culturale che la loro musica ha subito dalla musica nera sin dalle origini e da cui gli Stones in realtà non riusciranno mai a svincolarsi del tutto (il blues e il soul verranno poi sostituiti in parte dal reggae, dal funk e dalla disco).

Ma ovviamente sono gli eccessi tossici quelli per cui Sticky Fingers verrà ricordato nella storia: Sister Morphine e Wild Horses sono gli estremi di angoscia e di dolcezza con cui viene rappresentato l’incubo della tossicodipendenza.

La prima è uno dei drammi sacri di tutta la liturgia rock, aperto da un LAm7 angoscioso dentro cui Ry Cooder infila l’ago della sua chitarra slide. Poi le lenzuola si macchiano lentamente di sangue mentre Mick Jagger implora dal suo letto d’ospedale e Jack Nitzsche batte qualche pallido accordo di pianoforte.

Poi la diapositiva lentamente si sgrana, divorata anch’essa dall’eroina.

Un’immagine talmente forte da venire censurata in alcune tirature del disco. Per le rimanenti ci penserà la stessa zip a graffiare i solchi perché è proprio su quel punto che poggia, se ancora chiusa. Provate a conservare così la vostra copia in vinile e ve ne renderete conto da soli.

Wild Horses ha invece un’aria più rassicurante.

Un’overdose raccontata dall’ufficio marketing della Felce Azzurra.

Cavalli malati e selvaggi. Ma talmente veloci che finiranno dentro un disco dei Flying Burrito Bros. prima ancora che gli Stones la incidano per il loro album.

Una ballata acustica ancora una volta in tonalità minore punteggiata da chitarre accarezzate da Mick Taylor e da Keith Richards e da un pianoforte coccolato da Jim Dickinson. Ha la faccia buona del pusher che ti avvicina all’uscita di scuola, vendendoti merda e spacciandotela per oro.

Il lato più sensuale ed erotico del disco è rappresentato dall’esplicita Bitch e dalla Can‘t You Hear Me Knocking  arricchita dall’organo di Billy Preston, dal piano di Nicky Hopkins che ricoprono di sperma le cosce del soul più torbido mentre il lato blues più tradizionale è tutelato dalla sporca cover di You Gotta Move e dalle diapositive al rallentatore di I Got the Blues illuminata dalla luce soul dei fiati (novità assoluta per un album degli Stones) di di Bobby Keys e Jim Price che fa il paio con Sway, altro pezzone caduto in disgrazia solo per le cattive compagnie frequentate sul disco, ricco di aromi southern.

Gli ultimi centimetri della cerniera lampo sono affidati ai brani più ordinati e ordinari dell’album: Dead Flowers è un evidente tributo al country-rock dell’amico Gram Parsons e sembra colata via da Sweetheart of the Rodeo mentre la conclusiva Moonlight Mile vede i due Mick giocare su una soffice e bucolica melodia quasi canterburyana. Keith Richards se ne intesterà la paternità  senza aver nemmeno sentito il pezzo.

Mai fidarsi del diavolo. Anche se è vestito di stracci.

E mai fidarsi di una patta gonfia come l’aerostato dei Led Zeppelin.

Perché dietro a quella mascolinità maestosa può celarsi un’icona gay come Joe Dallesandro.

Niente è come sembra, nel circo rock ‘n’ roll.

Nel ‘71 gli Stones scappano, letteralmente, dall’Inghilterra. Dietro di loro uno stuolo di agenti del fisco. In auto, in motovedetta, in fila indiana, in gruppi organizzati. Si rifugiano in Francia, sulla Costa Azzurra dove Keith Richards ha rilevato un vecchio rifugio nazista e ne ha fatto il suo quartier generale.

Qui dentro gli Stones tirano fuori le lamette e si tagliano le vene. Tutto quello che ne esce è emoglobina infettata dall’eroina. È la consumazione dell’ultimo atto. Quando torneranno con Goats Head Soup, avranno un pallore che con fatica riusciranno a placare. È da quel momento che nascono gli Stones con la linguaccia, gli Stones iconizzati dell’immaginario rock fatto di stadi assiepati, tour galattici e fazzoletti bagnati dentro gli slip.

Dentro Exile on Main St. gli Stones vomitano tutto il loro amore per la musica nera gozzovigliando col bluegrass, la soul music, il blues, il gospel. Senza ambizione, mettono mano al loro disco più ambizioso. Un doppio dove regna il disordine e dove tutto sembra stare nel posto giusto solo per puro caso, per istinto, per fatalità.

Una lunghissima sequenza di smorfie rollingstoniane deformate dall’eroina.

Con loro ci sono un mucchio di complici: Gram Parsons, Dr. John, Nicky Hopkins, Billy Preston, Jimmy Miller, Ian Stewart, Richard Washington, Lisa Fisher, Tami Lynn, Jim Price, Bobby Keys. Alcuni di loro entrano ed escono dalla villa di Villefranche col proprio carico di blues e se ne tornano a casa col fegato in panne. Hanno messo le mani dentro questa merda e ora si ritrovano in qualche vicolo a vomitare, a qualche isolato dagli yacht ormeggiati nel porto di Nizza. Hanno preso del corpo degli Stones e hanno bevuto del loro sangue, in questa eucarestia luciferina da Ultima Cena. Altri sono stati agganciati da Mick Jagger a Los Angeles, dove ha deciso di portare i nastri per avvicinarli all’umore spirituale del gospel facendo di Exile on Main St. una sporchissima sputacchiera di catarro e fiele che ognuno dovrebbe avere attaccata ai muri del proprio bagno.

Una latrina per nulla confortevole, per niente simile a quei rifugi intimi dei B&B dove puoi portarti la merendina in bagno mentre ti depili. Un cesso dove anni dopo verrà versata un’altra decina di sozzure dell’epoca, che Don Was si preoccupa di ridestare dall’oblio coinvolgendo a volte in prima persona Jagger e Richards. Si comincia da Sophia Loren, un sincopato gospel latineggiante carico di fiati e armonica che i fanatici degli Stones conoscono già da un pezzo e si scende giù fino al boogie metallico del breve strumentale Title 5 che Don Was riveste di un suono attualissimo. Nel mezzo c’è una bella versione di Soul Survivor, una So Divine che pare aprirsi sull’arpeggio di Paint It Black e invece diventa subito una dolcissima canzone d’ amore dal suono a tratti quasi innaturale o una Following the River ai cui tocchi di pianoforte  viene adesso aggiunto il testo e la voce di Jagger e altre cose meno sconce recuperate dal cassonetto dei rifiuti della Main Street. Tutt’intorno danzano gatti randagi che ridono come iene.

Per l’ultima volta.

Poi saranno anni affollati da magliette con le labbra e stelle filanti.

Fino alla caduta di Babilonia.

A dispetto della follia e della sporcizia rock ‘n’ roll che saturava Exile on Main St., Goats Head Soup appare come un disco fin troppo ordinato e strutturato, segnando l’inizio della più vistosa parabola discendente nella carriera dei Rolling Stones.

Un tonfo ispirativo ancora più profondo se si pensa alla tetralogia che l’ha preceduto e che lascia, paradossalmente, ai loro epigoni newyorkesi (leggasi New York Dolls) campo libero per imporsi come i più credibili paladini del vecchio suono stonesiano. Registrato in Giamaica tra la fine del 1972 e la calda primavera dell’anno successivo, negli stessi studi in cui è appena stato inciso un discone come Funky Kingston di Toots & The Maytals, Goats Head Soup vede le comparsate di un gran numero di musicisti (Billy Preston, Nicky Hopkins, Bobby Keys, Ian Stewart, Jimmy Miller, Chuck Findley, Kwaku Baah) e, sebbene alla fatta dei conti non tradisca del tutto quelli che sono gli ingredienti basici della ricetta stonesiana (boogie, rock n’ roll, blues, honky-tonk, country), suona come un disco svogliato e privo di unghie, con un Keith Richards defilato se non del tutto assente.

Innescata la miccia del mito, gli Stones sembrano voler cavalcare adesso il comodo ronzino dell’ordinario, scalando le classifiche al passo basculato e sicuro di una ballata stucchevole e stereotipata come Angie.

Il vespasiano di Beggars Banquet è stato ripulito dalle scritte più oltraggiose.

Steve McQueen ritira la sua denuncia.

Gli Stones diventano inoffensivi.

Licenziato Jimmy Miller prima del Natale del 1973, Jagger e Richards decidono di curare in proprio la produzione dell’annunciato ritorno al rock ‘n’ roll dopo l’incerto Goats Head Soup. È l’ufficializzazione dei Glimmer Twins, nomignolo nato quasi per caso sei anni prima durante una traversata oceanica verso il Brasile. Ma It’s Only Rock ‘n’ Roll è anche l’addio di Mick Taylor che abbandona gli Stones con un capolavoro come la delicata Time Waits for No One arricchita da una chitarra “sintetica” artefice dell’atmosfera sospesa del brano. Sarà proprio il mancato riconoscimento come autore che porterà Taylor a lasciare i gemelli mangiasoldi e a versare loro royalties ogni qualvolta (spesso) si accingesse a suonare quel pezzo nei suoi show in solitario. È il segno di una eccentricità che torna in diverse fasi di un disco che se da un lato (più nelle intenzioni che nei risultati, a dire il vero) vuole riappropriarsi del linguaggio asciutto del rock ‘n’ roll basico, dall’altro cerca di evolversi verso nuove forme di black music, tracciando di fatto il ponte verso i successivi Black and Blue e Some Girls. I sintomi di questa metamorfosi, sottile e strisciante in molte tracce del disco (il Philly Sound che riveste If You Really Want to Be My Friend e la cover di Ain‘t Too Proud to Beg, per esempio) si rendono manifeste su un paio di brani: il funky torbido e purpureo di Fingerprint File che svela l’influenza di due recenti dischi di Stevie Wonder come Talking Book e Innervisions e Luxury, un brano rock “alleggerito” dalle sincopi reggae assorbite durante il recente soggiorno giamaicano per la registrazione di Goats Head Soup. Sul versante “tradizionale” del rock basico si pongono invece If You Can‘t Rock Me, il manifesto programmatico della title track e lo street-rock ‘n’ roll di Dance Little Sister dove Richards elargisce uno dei più alti esercizi di stile della sua carriera.

Un colpo al cerchio, uno alla botte.

Fuori dai Musicland Studios di Monaco, la disco music aspetta per aggredirli.

 

L’ingresso ufficiale di Ron Wood nel carrozzone degli Stones viene inaugurato con il riffone che apre la seconda facciata di Black and Blue (anche se cronologicamente il chitarrista dei Faces aveva già affiancato la band su It‘s Only Rock ‘n’ Roll (but I Like It)). È una canzone dall’aria svagatamente latina intitolata Hey Negrita. Non esattamente una canzone d’amore. Piuttosto una pragmatica e stonesiana disgressione sul colorito negoziato tra una prostituta sudamericana e un cliente sulla tariffa per una scopata.

Nessun francesismo, come nella tradizione provocatoria degli Stones che a fare gli sconci ci hanno preso gusto, tanto da pubblicizzare il nuovo album con una gigantografia che mostra una donna piena di ecchimosi. Nera e blu, appunto. Portandosi dietro una striscia di proteste che avrebbe fatto crollare anche il governo americano ma non loro. Black and Blue è l’album che celebra l’accostamento dei Rolling Stones al lato più ballabile della musica nera. Il funky, il reggae, la salsa, la disco, addirittura il modern-jazz. Una nuova infatuazione che viene messa in bella mostra con l’apertura affidata a Hot Stuff (che, guarda caso, viene pubblicata per la prima volta in versione 12”, con un numero di catalogo programmatico come DSKO 70), un funkettone grasso quanto quello che cola dai dischi degli Ohio Players, nuovo modello black dichiarato dallo stesso Jagger.

Per la seconda traccia la chitarra passa dalle mani di Harvey Mandel dei Canned Heat a Wayne Perkins che mette in mostra uno stile cazzuto che ben si adatta a Hand of Fate, che torna sui territori classici della band inglese. Tanto per non scontentare nessuno. Cherry Oh Baby è invece una banale incursione in quei territori reggae di cui Jagger e Richards si sono innamorati da qualche anno. Innamorati persi per Jimmy Cliff e Peter Tosh (con cui Mick registrerà solo un paio d’anni dopo), alla fine optano per uno dei primi successi di Eric Donaldson che regalerà fortuna più che al suo autore, agli UB40 che la useranno per aprire il loro Labour of Love.

L’elenco di ballate zuccherose, genere che gli Stones sembrano prediligere e trattare con particolare cura ormai da qualche anno (Angie, Coming Down Again, Winter, Through the Lonely Nights, Till the Next Goodbye, Time Waits for No One), si allunga qui con Memory Motel e Fool to Cry, due lenti da struscio spalmati su un tappeto di sintetizzatori (Billy Preston per la prima, Nicky Hopkins per la seconda) talmente povere di brividi da causare l’assopimento di Richards in almeno un’occasione come confermato dallo stesso Keith venti anni dopo in una intervista a Chris Evans. Ecco perché, forse, per la chiusura di Black and Blue, quando si tratta di tornare a suonare il solito, eterno riffone stonesiano di Crazy Mama, Richards decide di suonare praticamente tutto: chitarra, pianoforte, basso. Impartendo ordini a Jagger e Wood col solo sguardo. Facendo sempre la stessa identica smorfia da cane rognoso sia quando è compiaciuto, sia quando è schifato dalla performance dei compari. Poi sputa il suo catarro per terra, si accende un’altra sigaretta e ricomincia a farsi i cazzi suoi.

Some Girls esce in pieno virus punk e, nonostante gli Stones come tutti i “dinosauri” ne siano rimasti immuni, è un disco che ha una asciuttezza che del punk è sicuramente parente diretta. Il tono provocatorio e zozzone è, però, tutto stonesiano. Some Girls è un disco che trasuda voglia di divertirsi e ha una spensieratezza che l’abuso di droghe aveva offuscato nei lavori della metà degli anni Settanta.

Un album dove gli Stones, facendo sul serio, sembrano non volersi affatto prendere sul serio. E questo lo rende un disco strabiliante.

L’apertura è affidata a Miss You, successone tra i successoni degli Stones malgrado il deciso ammiccamento verso la disco-music di cui Jagger fa incetta nelle sue notti brave allo Studio 54. Il riuscito ibrido fra cassa in 4/4 e armonica blues, canto in falsetto e riff beffardo alla Richards ne fa un pezzo di grandissimo impatto e dal forte fascino trasversale. Pubblicato qualche settimana prima dell’album, è propedeutico per il lancio in grande stile di un disco che per il resto è un grandissimo campionario dello scibile stonesiano: country (Far Away Eyes, la cover di You Win Again esclusa dall’edit finale), blues (virato stroboscopio nel caso della title-track, classico nelle “evirate” Keep Up Blues e Petrol Blues), virili pezzoni rock (When the Whip Comes Down, Respectable, Lies, il power-pop di Shattered), ballate notturne (Beast of Burden, uno dei vertici dell’intero album), sperma black un po’ ovunque, la cover di turno (Just My Imagination) e l’ormai consolidato vezzo di affidare una traccia alla voce di Keith Richards (Before They Make Me Run).

Sulla copertina del disco, una carrellata di star che verranno via via cancellate.

Portate via da un inutile scia di polemiche e risentimenti.

In cerca di una casa a Zuma Beach.

Forse sono gli stessi Stones a non voler troppo bene ad Emotional Rescue. Fatto sta che tutto quanto preparato tra i Pathè Marconi Studios di Parigi, gli RCA Studios di Los Angeles e gli Electric Lady Studios di New York fra il gennaio e il dicembre del 1979 rimarrà confinato sui solchi di questo album di passaggio fra gli anni Settanta e l’incerto decennio che si appressa e salutato con una scia di sangue e alcol che Keef lascia sullo studio a salutare la fine di un lavoro che è costato più fatica che gioia.

Degli undici pezzi messi insieme, solo tre finiranno infatti nel repertorio del gruppo. Tutto il resto verrà dimenticato in fretta. Dagli Stones e dai loro fan. Accrescendo il sospetto che Emotional Rescue, come tradisce il titolo, fosse stato assemblato come contorno obbligato all’omonimo singolo pubblicato in contemporanea nel giugno del 1980. La sensazione di un disco tirato su alla bell’e meglio e senza poca convinzione fa però da diga all’estratto successivo, riservando agli Stones un poco dignitoso trentaseiesimo posto per She’s So Cold. Jagger e Richards ci infilano dentro arie mariachi e ritmi sudamericani, cassa in quattro quarti, bassi slappati e funky, chitarre rock, falsetti e bisbigli porno, pennate reggae ma dimenticano di usare del collante che possa reggere l’intero lavoro e soprattutto di scrivere qualche canzone memorabile, mostrandosi smarriti e disarmati davanti all’avanzare degli anni Ottanta.

Realizzato con scarti degli ultimi dieci anni (andando addirittura a recuperare la chitarra di Mick Taylor, ormai fuori dalla band dal lontano 1974), Tattoo You viene pubblicato nell’agosto del 1981 come introito secondario agli incassi del nuovo tour della band inglese. In realtà, dietro, non c’è nessuna esigenza artistica e forse non è un caso che, dopo il “riscatto emozionale” dell’anno precedente, gli Stones adesso parlino di “tatuaggio”. Tattoo You è un disco epidermico che non spicca per idee brillanti e neppure per canzoni memorabili, nonostante la Start Me Up (in realtà “ideata” da Rory Gallagher durante una delle tante sedute-buca di Black and Blue, NdLYS) che lo apre diventi il pezzo-chiave di tutto il canzoniere stonesiano del decennio. Sorretto da un classico riff alla Richards, Start Me Up promette quel che in realtà l’album e gli Stones, divorati da dissidi interni che sembrano insanabili, non possono mantenere neppure circondandosi di ospiti illustri come Pete Townshend (relegato al ruolo di corista) e Sonny Rollins. Sono brani con pochissimo mordente, buoni appena per rimpolpare la scaletta dei concerti e, spesso, manco per quello. Tanto che, tranne che per pochissime eccezioni, scompariranno tutti dai tour successivi fino a venire rinnegati negli anni dai loro stessi autori. Come era già successo anni prima per Goats Head SoupTattoo You è un disco privo di spavalderia. Che è l’essenza topica degli Stones, che adesso si trovano anche orfani degli azzardi con il reggae, la disco-music, il punk che avevano sostenuto creativamente dischi come Black and BlueSome GirlsEmotional Rescue. E tuttavia, quella poca riserva di ossigeno che sembra riempire le bombole degli Stones è loro sufficiente per restare a galla in quegli anni che vivono il riflusso dell’uragano punk e che si sta ridestando a fatica dai postumi della febbre del sabato sera. Mick e Keef, dal canto loro, sono passati indenni lungo una catena di eccessi che ha lasciato una infinita striscia di cadaveri eccellenti e hanno cavalcato le onde che hanno inghiottito ogni altra band che aveva dominato i mari del rock ‘n’ roll nei due decenni precedenti. I due capitani si guardano, in cagnesco. Hanno i volti tatuati di odio e rancore, ma sono ancora sul cassero, spalla contro spalla. La bandiera con la linguaccia sventola fiera sulle loro teste.

Undercover vede l’affiancamento di Chuck Leavell a Ian Stewart. Quasi un sinistro presagio che si concretizzerà con la morte di Ian nel 1985 e il subentro ufficiale di Chuck come “sesto elemento” del gruppo inglese. Li si può ascoltare prestarsi il fianco su She Was Hot, il secondo brano e secondo estratto dell’album.

Un album che non ha grosse pretese se non quello di intrattenere, come è tipico di quegli anni in cui anche per i grossi nomi (pensate ai Queen, a David Bowie, ai Police) vale più la legge del video che quella della coerenza artistica e che pure si avventura come solo raramente gli Stones avevano fatto nella cronaca quotidiana. Come se Jagger smettesse per qualche attimo di guardarsi dentro le mutande per vedere quello che accade nel resto del mondo, dal narcotraffico all’embargo, dalle shockanti notizie di cannibalismo moderno che balzano sui giornali in quei giorni (il famoso e dimenticato caso di Issei Sagawa) alla guerra fredda, al tema dell’omosessualità mascherata da machismo. Undercover of the Night, Tie You Up, Too Much Blood, It Must Be Hell si muovono nel terreno del commento e della denuncia sociale ma con la giusta patina di stucco che è tipica di un prodotto di consumo degli anni Ottanta.

Undercover è insomma un abilissimo gioco di specchi che rimanda l’immagine delle radici blues e soul degli Stones deformandole secondo il mutato gusto e le mutate esigenze del pubblico. Più leggerezza, più spettacolo, più truculenza, più droghe sintetiche e meno eroina ma anche una voglia di protagonismo individuale sempre crescente che sfocerà nel primo disco in proprio per Jagger.

Quelle che erano le intenzioni e lo spirito di Keith Richards (in quel momento alla guida solitaria del macchinone degli Stones) per Dirty Work possono essere interpretate, più che dalle musiche messe dentro, dalla scelta dei titoli dei pezzi che lo compongono. Le tensioni all’interno della band, acuite dalle ambizioni soliste di Jagger, dal parziale disinteresse di Wyman (il suo basso è quasi totalmente assente sul disco) e dalle bottiglie di whisky che Charlie Watts si scola durante le sedute, alimentano un vero e proprio clima da rissa.

È l’occasione del gruppo per tornare a essere cattivi. Ma è un’occasione mancata.

Quello che vuole essere nelle intenzioni un album “sporco”, con un ritorno massiccio all’uso del riff (come aveva dichiarato proprio Wyman qualche anno prima “gli Stones sono l’unica band dove a dettare il ritmo e l’umore del pezzo è il chitarrista, non il batterista. È lui che decide cosa fare di una canzone. Noi ci limitiamo ad assecondarlo” e come avrebbe ribadito Tom Waits, ospite non dichiarato dell’album, “Richards è del tutto intuitivo, un animale mosso dall’istinto. Sta in mezzo alla stanza e annusa l’aria. Se non gli garba va via senza neppure salutare. Altrimenti prende la chitarra, accende l’amplificatore e non sai mai quello che potrebbe accadere”) non riesce ad ingranare. È una macchina che si inceppa e che Lillywhite, che più tardi dichiarerà “è stato un onore produrre i Rolling Stones. Peccato solo aver prodotto il loro disco peggiore”, non riesce a salvare dalla corsa verso l’ovvietà.

                                                                                       

La fretta è cattiva consigliera. Ma, a volte, fanno peggio la calma e l’indugio.

Così, i tre anni passati fra Dirty Work e Steel Wheels non hanno fatto che accrescere le aspettative per poi deluderle.

Quelli delle ruote d’acciaio sono infatti gli Stones meno Stones dell’intera collezione. Ed è quasi una roba imperdonabile per una band cui non si è chiesto altro se non di impersonare eternamente se stessa, pur permettendole di giocare non soltanto con uno stereotipo ma di riaggiornarlo a seconda degli umori difficili che da sempre covano nel seno della più imperitura rock ‘n’ roll band della storia, passando sopra qualche peccato di buon gusto.

Steel Wheels però va un po’ oltre, in un intervento di rinoplastica dietro cui si fatica davvero a trovare quelli che sono i “tratti” caratteristici della band. Basti l’ascolto di Hold On to Your Hat per capacitarsene, dove l’anima rock/blues degli Stones viene completamente stravolta per trasformarsi in una sorta di frankenstein mutogeno messo su con gli scarti, e non i migliori, di MC5 e ZZ Top e Keith Richards decide di vestire i panni non comodissimi dell’axe-hero. Ma di brutture simili, pacchianamente fiere di un suono metallico e sfarzoso ne è pieno il disco, fino a riempire qualcos’altro che è sempre rotondo ma di ben altra fattura.

I Rolling Stones vengono maciullati dalle ruote di una catena di montaggio.

Non si può essere ribelli tutta la vita. Ed è anche giusto che sia così. E del resto non puoi comprare un disco degli Stones, il ventesimo disco degli Stones, sperando di trovarci ancora dentro (I Can’t Get No) Satisfaction o Sister Morphine. Il testimone della ribellione, dell’anticonformismo, dell’indolenza tossica, della beatitudine teppista è passato ovviamente ad altri rappresentanti più giovani e credibili. Qualcuno di loro ha già abbandonato a sua volta la staffetta, dopo essersi accorto che era un candelotto di dinamite e non una torcia olimpica quello che teneva in mano. Kurt Cobain, l’ultimo di questa lunga schiera di anime ribelli, è morto tre mesi prima che uscisse Voodoo Lounge, proprio mentre i Rolling Stones ne stanno ultimando le registrazioni.

In questa furiosa stagione gli Stones rappresentano l’ovvietà rassicurante di un rock che non ha più bisogno di eccessi. Un tiepido rifugio montano dove potersi riparare dalla tormenta. Del torbido mondo che il titolo pare voler annunciare non v’è traccia alcuna dentro il disco. Pare per scelta del produttore che ha eliminato le canzoni e ripulito gli arrangiamenti più “tribali”. Quel che viene dato al pubblico è un disco di elegante e vetusto Stones-sound di mezz’età.

Rock e blues che non fanno più male. Domati e resi inoffensivi dalla capacità illimitata di Richards e Jagger di poter scrivere decine di canzoni usando il medesimo clichè. Ecco così che You Got Me Rocking, New Faces, Brand New Car, Moon Is Up, Thru and Thru, Baby Break It Down sfoggiano titoli nuovi per fisionomie già familiari. Gente che ti ha già preso per il culo più volte e del cui abbraccio torni a fidarti perché poi, alla fine, è meglio cedere alle lusinghe della delusione già sperimentata che a quella ancora da sperimentare.

A proposito di Bridges to Babylon, il disco destinato a sfruttare il nuovo momento magico dovuto in larga parte all’inaspettato successo della cover di Like a Rolling Stone, Keith Richards ebbe a dire, non senza risentimento, che per buona metà dell’album a suonare su un disco degli Stones erano tutti, tranne gli Stones.

Il disco degli Stones soffre infatti la voglia di Jagger di rinnovare il suono della band cercando in qualche modo di adattarlo al passo delle nuove musiche di tendenza.

Don Was viene affiancato dunque in sala comandi da personaggi come i Dust Brothers, Babyface, Danny Saber, gente che si è sporcata le mani con la nuova musica black e con il rock di confine di Beck o Black Grape e che ha il compito di arrotondare gli angoli di uno dei monumenti storici della Gran Bretagna per renderlo compatibile con i leoni mesopotamici che stavano all’ingresso di Babilonia.

Ne escono fuori degli ibridi poco digeribili come Saint of Me e Night As Well Get Juiced che, posti centralmente lungo la scaletta, fanno più da diga che da ponte e rendono il paesaggio di Bridges to Babylon meno piacevole di quello che potrebbe essere e che in ogni caso non è. I momenti di stanca sono notevoli (le soporifere How Can I Stop e Thief in the Night, il reggae senza nerbo di You Don’t Have to Mean It) e alla fatta dai conti l’unico episodio dove il suono degli Stones sembra tornare a ruggire è Gunface, anche a dispetto dell’inaugurale Flip the Switch cui resta l’unico primato di canzone più veloce del repertorio ma che si risolve in un power-pop che ha già i suoi maestri in Elvis Costello e Dave Edmunds e non ne necessita di altri e del singolone Anybody Seen My Baby? pubblicato in anteprima sull’uscita dell’album e in cui la storia si prende la sua rivincita costringendo la band a versare le royalties a k.d. lang per il palese furto nei suoi confronti, esattamente tre mesi dopo aver chiesto lo stesso ai Verve per la loro Bitter Sweet Simphony, chiudendo gli anni Novanta se non in parità di bilancio, almeno in parità di colpa.

La pausa più lunga della carriera gli Stones se la prendono fra Bridges to Babylon e A Bigger Bang. Otto anni in cui la band si concentra, come fa ormai da almeno tre lustri, a pubblicare dischi dal vivo, film celebrativi, DVD, raccolte saturando quella fetta di mercato che è sempre pronta a masticare qualcosa con la linguaccia sopra. E a portare in giro per il mondo il più longevo circo rock ‘n’ roll della storia, con tanto di defibrillatori, bombole d’ossigeno e medici al seguito.

Perché l’età c’è, anche se quasi non si vede.

Anzi, a ben vedere, A Bigger Bang è una sorta di rigor mortis creativo per il gruppo inglese che, a più di quarant’anni dal primo disco, sfoggia una virilità che pochi possono vantare.

E, chiusi nella tranquillità domestica del castello francese di Jagger finalmente sgombri di turnisti e guest-star e a volte anche degli stessi Stones (Wood per seguire un ciclo di disintossicazione, Watts uno di chemio, NdLYS), Mick e Keith tornano a fare le cose che facevano tanti anni prima e a farle anche parecchio bene.

Ecco quindi servito un bel bluesaccio come Back of My Hand e i soliti trucchi del cilindro magico di Keef (Rough Justice, She Saw Me Coming, Sweet Neo Con). Le sorprese riguardano piuttosto un paio di riff che sembrano caduti dalla chitarra di Andrew Farriss e che finiscono per vestire  Rain Fall Down e Look What the Cat Dragged In di uno strano abito INXS. Stavolta, a differenza della volta precedente, senza versare una sola sterlina di royalties. Stanno stipate assieme ad altre dieci canzoni in quello che per lunghezza è secondo solo ad Exile on Main Street fra gli album degli Stones e che, per equilibrio e dosaggio, è il loro miglior lavoro degli ultimi venti anni.

Seduto nella terrazza del suo castello della Loira, Mick sorride e si gode l’ultima scheggia del Big Bang, cominciando a contare alla rovescia dopo aver riempito le prime dieci file del suo pallottoliere.

La copertina è di quelle buone per i dischi da edicola, da mettere a fianco agli espositori delle Mentos® con analoga linguaccia, messe sul mercato proprio a ridosso dell’uscita di Blue & Lonesome, ventitreesimo (e probabilmente ultimo) album dei Rolling Stones che, troppo annoiati per scrivere qualche nuova canzone, decidono di affidarsi ai più banali dei blues da birreria per tirarne su la scaletta.

Un disco in cui le emozioni scorrono raso-terra, abbattute da un semplice compitino in classe. Un po’ come chiedere la certificazione di conformità al proprio elettricista di fiducia, e metterla in carpetta.

Un disco dove si suona il blues e lo si suona benissimo, per caritá.

“Il ritorno alle radici”, diranno in tanti (lo hanno già detto, prima di avere il disco sul piatto, pregustando l’odore di salsa di pomodoro misto a legna che esce dal forno mentre preparano la loro pizza margherita), ma solo presunto. Perché laddove i primi dischi degli Stones, quelli in cui gli esercizi erano fatti sul medesimo ciclostile, tuonavano di urgenza e praticantato giovanile e avevano lo scopo di educare i loro coetanei alla forza primitiva e selvaggia della musica nera, Blue & Lonesome per forza di cose non ha nulla di tutto ciò. Di dischi così nei cinquanta anni che lo separano dagli altri ne sono passati a tonnellate. Di canzoni così si è riempita la radio, la tivù, la rete e scendendo sul personale, anche qualcos’altro.

Nessun ritorno alle radici quindi. Solo un disco da regalare a quell’amico che ama B.B. King ed Eric Clapton (ah…a proposito, è anche lui qui dentro guarda caso) e non disdegna Zucchero.

Magari di canna, che è più grezzo.

Il che fa molto blues, giusto?            

   

Lady Gaga è vestita come Madeline Bell per cantare quella che sarà l’ultima ballatona stonesiana della storia: Sweet Soul of Heaven. È uno dei tanti contributi eccellenti (Stevie Wonder, Elton John, Paul McCartney, il “vecchio” Bill Wyman) al canto del cigno nero del rock and roll inglese. Sono gli Stones che “fanno” gli Stones come nella bellissima Get Close, anche quella un già sentito fatto con grandissimo mestiere. E se di certo questo non pecca al gruppo inglese (e come potrebbe?), la bella novità di Hackney Diamonds è che tale patrimonio è stavolta messo al servizio di un repertorio nuovo di zecca, credibile quanto lo fu quello dei loro dischi migliori e che si snoda subito dopo lo specchietto per le allodole di Angry.

Con appena un paio di momenti di stanca routine come Driving Me Too Hard e Tell Me Straight e una buffa Bite My Head Off in cui sembra che Jagger voglia fare la linguaccia di David Johansen al posto della sua, in un paradossale gioco di ruolo tra genitori e figli, Hackney Diamonds è il testamento olografo che tutti aspettavamo da chi, pur avendo superato il record di longevità, si diverte ancora a farci credere di avere vent’anni. Noi, e loro.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

DAFT PUNK – Random Access Memories (Columbia)

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La musica dei Daft Punk è il punto di intersezione tra la coolness e la tamarraggine.

Tra la voglia di fuga e la voglia di figa.

Nel senso che ciò che è mascherato da invito al cyberspazio è in realtà un invito a ballare. I Daft Punk abitano in quel punto da anni, seduti nella loro astronave che punta allo spazio ma con gli occhi incollati allo specchietto retrovisore.

Come se ti dovessero portare chissà in quali mondi e rimanendo invece sempre nel medesimo punto da dove si era partiti. Come quelle giostre in 3D che si scuotono come tori di un rodeo nei luna park di tutto il mondo.

Quello che Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homen-Christo vendono è in fondo la stessa illusione.

L’illusione di un viaggio intergalattico che, se viaggio è, non è altro che un viaggio all’indietro nella memoria. La loro, la nostra.

Synth-pop, funky, disco, house, techno, ambient.

Con la novità, stavolta, che la musica biologica ha preso il sopravvento su quella creata in laboratorio.

Il singolo Get Lucky, in tutta la sua demenziale essenzialità funky, è di quelli che funzionano. Lo dimostrano le statistiche di Spotify e non solo.

Un pezzo costruito (e destinato a) per diventare un tormentone. O un tormento.

Dipende da che livello di contagio riuscite a sopportare. Però, al di là delle valutazioni critiche che si possono fare su un pezzo costruito su un unico, insistente riff (suonato da Nile Rodgers) e uno scioglilingua da movida estiva, Get Lucky è l’unico brano del nuovo Daft Punk in grado di brillare della luce della storica Music Sounds Better with You. Per il resto Random Access Memories non mantiene quello che sembrerebbe promettere o che potrebbe giustificare l’hype che si è nuovamente cementificato attorno al duo parigino. Mi chiedo ad esempio a chi potrebbe interessare qualcosa di sorbirsi un’intervista a Giorgio Moroder su una base electro lunga nove minuti che ci fa rimpiangere Sandy Marton, di un triste musical pinkfloydiano come Touch o di un Einaudi stuprato dal vocoder come Within. E del resto, essendo in giro (vi piaccia o meno) il nuovo Strokes, anche qualche numero come Instant Crush o Beyond ha pochi motivi per esistere così come del resto avendo in casa C’est Chic, TNT o Aja diventano del tutto superflue Give Life Back to Music, Motherboard e Fragments of Time.

E chi ha rughe abbastanza profonde per ricordarsi dei dischi di Alan Parsons Project, Yellow Magic Orchestra, Jean Michel Jarre o addirittura Christopher Cross troverà inutile tutto il resto. Ma Random Access Memories è un disco destinato ai Supergiovani. Quelli, per intenderci, che non sanno neppure cos’era Discoring ma a volte rimangono affascinati da certi pantaloni a zampa d’elefante e dalle palle a specchio che passano sui canali di Vintage.  

Non è un disco per figli di puttana.

È un disco per figli e basta.

La modernità di cui si fascia, la robotica cartoonesca ostentata a livello estetico, il tessuto misto-sintetico con cui viene avvolto, noi lo abbiamo già bazzicato più e più volte, anche quando erano loro stessi a riproporlo ai tempi di Da Funk.

Ed è una miccia stilistica ormai disinnescata.

Random Access Memories è quindi, al di là della saporita lista di ospiti e della produzione sontuosa e curata (cosa ormai quasi alla portata di tutti, il che non dovrebbe più essere una notizia, NdLYS) un album modaiolo (il vecchio che fa trendy) ma sgombro di idee.

Uno di quelli in cui i riempitivi durano più delle due/tre canzoni necessarie.

Un disco che, porzionato, può andare bene per l’estate appena iniziata. Ma che, tutto intero, è un interminabile inverno.

My name is Franco Lys Dimauro, but everybody calls me Lys.  

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro