BOB MARLEY & THE WAILERS – Exodus (Tuff Gong)

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Il 1977 non era un anno qualunque.

Non per i rastafari, perlomeno.

Avevano appuntamento per le ore sette del 7 luglio di quell’anno. Il giorno in cui, secondo la profezia di Marcus Garvey, sarebbe arrivata l’Apocalisse e la caduta di Babilonia.

Alle otto di sera sarebbero rientrati a casa, un po’ delusi.

Non si accorsero che il 7 luglio del ’77 la sua Apocalisse l’aveva portata eccome, anche se non era quella tutta fulmini e distruzione che loro si aspettavano.

Bob Marley rientra un po’ più tardi, quella sera.

Torna dall’ambulatorio del suo medico di fiducia a Londra.

Gli è stato appena diagnosticato il melanoma all’alluce che lo condurrà lentamente alla morte.

In quel momento non ci fa caso nessun altro, se non lui.

Sa che l’Apocalisse è arrivata davvero, ma che sarà un affare tutto suo.

La sua fede religiosa gli impone di non sottoporsi all’amputazione che gli salverebbe la vita.

E Marley si affida alle onde del destino che se lo porteranno via quattro anni dopo.

Il resto del mondo è invece distratto da un’altra Apocalisse.

Culturale, musicale, estetica: quella del punk.

Una “scossa” avvertita ovunque, anche in Giamaica.

I Culture l’avrebbero celebrata in Two Sevens Clash e Marley su Punk Reggae Party, proprio in quel luglio del 1977. Facendo nomi e cognomi: Damned, Clash, Jam, Dr. Feelgood, Maytals. E, come in una profezia di morte, i Wailers. Ma non lui. The Wailers will be there, canta…

Per i primi quattro mesi di quello stesso anno invece Marley era stato impegnato a registrare Exodus.

Exodus: Esodo. Quello del suo popolo e quello personale che lo vede emigrare in Inghilterra dopo essere scampato all’attentato del dicembre dell’anno precedente.

Un disco dalla struttura bizzarra, Exodus.

Una prima facciata lenta, cadenzata, uniforme, impegnata e mistica, fino all’apoteosi della title track dove una guizzante chitarra ska ferma su un unico accordo in La minore guida le trombe che conducono il popolo di Jah nella sua fuga da Babilonia.

Il secondo lato smorza invece i toni drammatici e li stempera in un clima più disteso dove è l’amore, privato ed universale, a diventare il vero protagonista.

Jamming, Waiting In Vain, Three Little Birds, One Love vengono sputate fuori dalla Island come singoli, assieme ad Exodus e Marley viene ufficialmente decorato come rockstar universale, nello stesso anno in cui Presley lascia vacante il posto di Re del rock ‘n’ roll e il punk colora di violenza esasperata il mondo occidentale.

Blackwell, che appositamente per Bob aveva fondato la Tuff Gong usando lo stesso nomignolo che gli era stato affibbiato a Kingston, intuisce che Marley può diventare il volto mistico da contrapporre agli eccessi del rock ‘n’ roll.

L’eroe buono che guida una rivolta civile e sociale contrapposta a quella nichilista del punk bianco. Ed è quello che Marley diventa, a partire proprio da questo disco.

Sviscerato e studiato negli anni successivi su pellicole, libri, saggi, book fotografici (Exodus: Exile 77 di Richard Williams, The Book of Exodus di Vivien Goldman e Bob Marley – Exodus 77 di Anthony Wall quelli che vi consiglio, NdLYS) ed eletto allo scadere del secolo scorso miglior disco del XX Secolo dalla rivista Time (Rolling Stone gli riserverà invece solo un 168° posto preferendogli Catch a Fire, NdLYS), Exodus è un disco cardine della vicenda artistica di Marley, seppure non raggiunga la forza e la coesione del Survival che lo seguirà due anni dopo e che inasprisce il clima di tensione politica che Marley sente sempre più pressante.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – There Is a Light That Never Goes Out (Speedway)

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Inviolabile. Così ho sempre considerato il repertorio degli Smiths, e a giudicare dalla gente che ci ha sbattuto il muso (con pochissime rare eccezioni come i Quicksand o gli EbtG) probabilmente non a torto. Perché le canzoni di Morrissey e Johnny Marr vibravano di quell’alchimia perfetta che è impossibile da replicare togliendo anche solo uno degli elementi coinvolti (vedi i tristi esperimenti solisti dell’uno, le estemporanee sortite dell’altro), figurarsi entrambi.

Che senso può avere dunque un “tributo agli Smiths”? Perdipiù realizzato da chi, come l’editore di Speedway, la fanzine italiana dedicata al culto del gruppo di Manchester, li ha amati con tale profondità ed accanimento da dedicare loro una parte abbondante della propria vita e sa quindi di cosa sto parlando? Semplice: un atto di amore, di rispettosa devozione verso “quelle canzoni che ti hanno fatto sorridere e di quelle che ti hanno salvato la vita”. Lo sanno benissimo tutti e per primi i ventuno gruppi qui coinvolti che nessuna di queste riletture vale uno solo dei riffs di Johnny Marr, uno solo degli aforismi di Morrissey e che mai nessuna cover potrà sostituirsi all’originale nel cuore dei molti amanti del repertorio smithsiano.

Perché gli Smiths chiedevano, senza volerlo, tutto. O dedizione totale, o antipatia cieca e disperata. Lo sapevano certo già prima di metter mano sopra a ognuna delle tracce qui presenti. Eppure eccoli lì, a omaggiare gli eroi del pop inglese, ognuno a proprio modo con risultati, cercando di farne una analisi obiettiva e quindi decontestualizzandoli da quanto sopra espresso, il più delle volte apprezzabili. Dunque rinviato, poi rinviato e quindi ancora rinviato, quando il suo destino sembrava essere quello di venire sbriciolato e dissolto in polvere nelle varie uscite autoctone delle bands coinvolte (è già successo con 3 A.R.M., Ossessione, Sybil e coi Divine che non hanno resistito alla tentazione di includere Death of a Disco Dancer nella ristampa del loro debut album, NdLYS), eccolo infine il tributo voluto da Fabio D’Antoni. La sua ostinazione ha avuto la meglio e il risultato, godibilissimo, con una parte interattiva fitta di notizie (un ricco elenco di copertine, libri, dischi, video, cover versions, curiosità, addirittura delle incisioni abrasive sui vinili, etc.) e complementare ad un libro dallo stesso titolo di prossima uscita, è ora tra noi. Andando nel dettaglio, tra le vette del disco spicca il sussulto hardcore dei disciolti Eversor con una versione maestosa di I Want the One I Can’t Have che sono certo il giovane Morrissey, accanito seguace di Slaughter and The Dogs e N.Y. Dolls apprezzerebbe, bella pure la trasfigurazione ritmica operata dai Bokassa su That Joke Isn’t Funny Anymore.

Ai Northpole e agli E 102 l’onore di cimentarsi con due tra le pagine più rare e anche più belle del catalogo Smiths: Jeane e Wonderful Woman sono ancora splendide, pur tra le sfuriate low fi dei primi e il risvoltino in loop dei secondi. Peccato piuttosto che molti sembrino paralizzati dal confronto (Yo Yo Mundi, Errata Corrige, More, Claudia Pastorino tra gli altri) e non aggiungano molto a quanto gli originali descrivevano e solo in pochi si arrischino a sovvertire il primitivo assetto melodico-timbrico, dando prova di fantasia e non solo di mestiere (i Monow ad esempio: William, It Was Really Nothing la riconoscerete solo dal titolo, o i Tre Allegri Ragazzi Morti che trattano Ask come Gli Innominati facevano con i Doors, NdLYS).

Come in ogni operazione analoga si passa quindi da letture belle (Northpole, Mirabilia, Haggis, Le Madri, Eversor, ecc.) ad altre meno (la Meat Is Murder della Pastorino davvero bruttina) a talune semplicemente superflue e che spero spingeranno a riscoprire fuori tempo massimo una delle più grandi pop bands del XIX secolo, proprio una di quelle da isola deserta, se ce n’è ancora una su cui è possibile arrivare senza dover infilare i piedi nel bitume.

 

                              Franco “Lys” Dimauro

 

AA. VV. – Alpha Motherfuckers – A Turbonegro Tribute (Bitzcore)

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L’occhio da drugo di Hank von Helvete lampeggia vitreo dalla copertina e il segnale è chiaro: i Turbonegro sono tornati. Non esattamente in carne, ossa e make up ma il loro spirito aleggia inquieto su questo disco sputato fuori dalla Bitzcore. Tutto il loro carico di rock ‘n’ roll tamarro, cialtrone e scorretto, saturo di riffoni hard e assholes si è riversato sulle 25 tracce di questo tributo.

Scontato e prevedibile, già solo scorrendo la lista dei nomi coinvolti, il risultato.

Siamo di fronte ad uno dei più bei dischi-tributo mai realizzati, una autentica dinamo elettrica.

I nomi, dicevamo. Alcuni sono di quelli che non possono mancare a una simile gangbang: figure poco raccomandabili (oddio, a me fanno più paura le divise con tanto di spilletta a mo’ di bandierina dei tesserati al Bel Partito, NdLYS) che monopolizzano il banco dei superalcolici e che rispondono ai nomi di Nasville Pussy, Supersuckers, Zeke, Puffball, Peepshows o Dwarves. Gente talmente immersa nell’immaginario marcio e scurrile dei TRBNGR da permettersi anche di ricopiare passo-passo quanto suonato da Euroboy e Happy Tom e va bene uguale (vedi il calco usato dai Pussies per Age of Pamparius o dai Suckers per Get It On).

Sai già che puoi fidarti sulla parola per cui vai a spulciare tra gli altri nomi eccellenti e inciampi subito nei Therapy?. Pungenti ed ipercinetici come ai tempi di Troublegum alle prese con Denim Demon, ed è un bel viaggiare.

I QotSA cattivi come non mai, persi dalle parti di Dungeree High, che sgommano e minchia se ti sporcano i calzoni…He’s a Grungewhore conferma invece l’eclettismo dei Motorpsycho cui qualcuno ha fatto caso solo di recente (bah…): un recitato che scorre sopra un jazz marziano.

Fedeli al loro hardcore di cemento e ferro i Ratos de Porao.

Him a me piace poco, anzi nulla. Il suo approccio al glam è distante anni luce da quello scopareccio del gruppo norvegese per cui la sua Rendezvous with Anus, con le sue chitarre imbarazzanti ed appiccicose di synths la lascio ai nostaglici di Bryan Ferry così come il romanticismo gotico di Denim Girl e Bela B la cui voce “Bowie meets Peter Murphy” non basta a salvare Are You Ready dallo sfacelo.

Le altre belle sorprese riguardano i Real McKenzies con una Sailor Man g(hi)rondante adrenalina e la Hobbit Motherfuckers dei Motosierra che, se non metti il repeat, ti esce fuori dallo stereo che manco te ne accorgi. Se non ti si è già incendiato prima.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

THE WARLOCKS – Rise and Fall * EP and Rarities (Zap Banana)  

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Prima che il mondo si accorgesse realmente dei Warlocks, ovvero prima che la loro coda lambisse le costellazioni della Mute e della Tee Pee, la band californiana era un affare quasi privato per Mr. Greg Shaw.

Verso i suoi 50 anni Greg si accartoccia dentro lo space-rock e lo shoegaze, dentro questo bozzolo di rumore bianco che lo aveva colpito nei dischi degli Spacemen 3 e Telescopes e che adesso ritrova nel suono di Brian Jonestown Massacre e Warlocks.

Se ne innamora e li accoglie in casa.

E, dato che sono in tanti, piuttosto che pagar loro da mangiare preferisce stampare i loro primi dischi: un EP e un album pieni di psichedeliche fughe spaziali e di ballate narcotiche immalinconite da un cantato intorpidito.

Dentro c’é la follia degli oscilloscopi degli Hawkwind e il calore bianco dei Velvet Underground. Ma anche tutto l’intontito dormiveglia del dream pop astioso dei J&MC, le ninne nanne increspate di rumore tipiche dei Dinosaur Jr, e alcune tempeste acide che avevano piovuto dai cieli inglesi dei Verve.

La band riedita tutto assieme con l’aggiunta di sette bonus (tra cui due demo dal Phoenix Album), altre sette psychocandies per il loro sputapalline lisergico.

Un doppio blister di barbiturici per scivolare in un sogno colorato.

  

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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INSPIRAL CARPETS – Dung 4 (Cherry Red)

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Prima di diventare dei piccoli eroi della scena baggy della loro città, gli Inspiral Carpets erano, in pratica, una garage band.

Paurosamente simile, a tratti, agli scozzesi Thanes.

Nessuno lo disse allora, visto che Manchester bramava di essere non solo originale, ma anche innovatrice. E del resto, visto che il pubblico purista mai e poi mai si sarebbe lordato le mani con ciò che veniva taggato come moderno, solo qualcuno si accorse di quanto le analogie tra band “passatiste” come Prisoners, Thanes, Dukes of Stratosphear, Teardrop Explodes e gruppi moderni come Charlatans, Inspiral Carpets, Stone Roses fossero a volte molto più che una semplice allucinazione psichedelica.

In realtà gli Inspiral Carpets, pur non sposando mai culturalmente ed iconograficamente il legame con la musica psichedelica, non avrebbero mai del tutto tradito certe “inclinazioni” sonore che li portavano a lambire il suono di band come Seeds, Creation o ? and The Mysterians, neppure quando sarebbero diventati un gruppo di relativo successo. Perché, in fin dei conti, era tutto partito da lì: cinque ragazzoni che, chiusi in garage, costruiscono canzonette pensando di conquistare qualche ragazza. Sono i giorni documentati da Dung 4 e Cow, pubblicati in proprio prima del grande salto verso la Mute Records e ora ristampati per celebrare un doppio evento: il Records Store Day del 19 aprile e la firma in calce al contratto con Cherry Red che porterà alla pubblicazione dell’ omonimo, nuovo disco della band di Manchester.

Documenti di un’epoca lontanissima dove qualcuno registrava ancora su cassetta e riusciva a venderne 8000 copie e regalarne a mano a gente come Sonic Youth e New Order. Dove Noel Gallagher lavorava come roadie e rispondeva a mano alle lettere dei fan, su carta intestata Inspiral Carpets e con una buffa faccia di mucca che muggisce stampata su ogni foglio.

Riuscite ad immaginare qualcosa di più indie?

 

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro

 

DEATH – Spiritual ▼ Mental ▼ Physical (Drag City)

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Se negli anni Settanta sei nero, non suoni funky e decidi di chiamare il tuo gruppo Death non puoi pretendere che qualcuno pubblichi il tuo disco.

E infatti nessuno lo fa. I Death nascono e, mi si perdoni la banalità, muoiono nella Detroit sconvolta dagli Stooges e da Alice Cooper autofinanziandosi un unico 45 giri in tiratura da loggia massone.

Di loro nessuno si ricorda più finchè a sorpresa la Drag City tira fuori una parte di quei nastri nel 2009, siglando una delle più belle e rilevanti opere di recupero della storia del rock. L’operazione viene conclusa oggi con questa collezione di provini che non replicano la bellezza di quel disco ma ne completano la storia, con altre registrazioni inedite risalenti al triennio ’74/’76.

Se i brevi frammenti solistici di Bobby e Dannis sono del tutto trascurabili, il resto, tra parodie beatlesiane (The Masks), placidi angoli crepuscolari (The Change, Flying), tirate proto-punk come Views, Can You Give Me a Thrill? e People Look Away e sperimentazioni post-stoogesiane (The Storm Within) documenta i tre bordi di questo triangolo nero, senza tuttavia eguagliare l’impatto del loro album “d’esordio”. Partite da quello, se volete davvero capire cosa vi siete persi.

 

                                                                                                          Franco “Lys” Dimauro   

SMP front cover

THE LAST KILLERS – Violent Years (Go Down)

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La press-sheet messa su rimpastando, male, la pagina di un blog dedicata al loro 7” di inizio anno è ridicola e faziosa.

Ma è cosa riservata agli addetti ai lavori che non deve inquinare ciò che invece passerà per le orecchie degli ascoltatori, che è invece un Signor Disco.

Poco importa se il loro debutto vi sia piaciuto o meno, perché Violent Years viaggia su un’altra orbita, un’altra parabola, una diversa gittata.

Un gruppo che senza sconfessare le sue smanie sixties (Paperbag sembra una out-take da Floating dei Sick Rose mentre Don‘t Fuck My Babysitter è scritta in perfetto Morlocks-style, NdLYS) riesce a confrontarsi col suono dei QotSA (Whatcha Gonna Do) o quello dei Cramps (Jungle Woman) senza frizioni o imbarazzo. 

Credetemi: in un momento in cui la scena si riempie di scimmiette che giocano a fare i cavernicoli, dischi come questo fanno la differenza tra chi sa scrivere delle canzoni e chi si limita a comprare gli strumenti giusti.

Sapete che vi dico? Alla fine me ne sbatto che ci sia Brian Auger a suonare sul disco. Quello che importa è che ci suonino i Last Killers.

 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

 

THE LITTER – Emerge (Probe)

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Dopo aver messo a ferro e fuoco Minneapolis con uno dei più bei singoli della stagione beat-punk, i Litter cambiano rapidamente pelle trasformandosi gradatamente da garage band a potentissima formazione hard.

La mutazione diventa compiuta quando, dopo l’ennesimo cambio di line-up che vede l’ingresso di Ray Melina e Mark Gallagher, esce Emerge registrato nella rumorosa Detroit, negli stessi studi dove viene registrato Back in the USA degli MC5. Un’affinità che “emerge” subito lampante anche sul piano musicale, già dalle iniziali Journeys e Feeling.

Il fragore del suond dei Litter, già gagliardo e florido su Distortions e $100 Fine, diventa una miscela esplosiva di hard-rock e psichedelia che offre il fianco alla furia elettrica di band come Blue Cheer (che sono usciti sconfitti dal contest organizzato a Chicago per “misurare” la band più rumorosa in circolazione, soccombendo sotto il muro di suono dei Litter, NdLYS), Amboy Dukes e, appunto, MC5. Un impeto che è figlio dei suoi tempi ma che è anche nipote dell’incanto folk-psichedelico di Buffalo Springfield, Love (percepibili più che nella versione di My Little Red Book di Bacharach già stuprata dalla band di Arthur Lee sul disco di debutto sulla esplosiva e proto-metal Blue Ice, NdLYS) e Quicksilver Messenger Service. I dialoghi tra le chitarre di Rinaldi e Melina creano intarsi suggestivi (si ascolti la lunghissima elegia di Future of the Past o la cover di For What It‘s Worth) così come una granitica powerstance (Feeling, My Little Red Book, i canini che vengono mostrati tra le ombre della jazzata Silly People) che mette quasi soggezione per impeto e volume.

Emerge è un disco dal carisma immutato ed immutabile.

Chi non riesce a restarne incantato ha una campana al posto della testa. E, probabilmente, non ha neppure il batacchio giusto per farla suonare.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS – The Firstborn Is Dead (Mute)

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Il sinistro fragore di un temporale introduce al secondo album di Nick Cave.

Un tuono che esplode spaccando l’aria e lo scrosciare della pioggia che copre l’eco di quella frusta divina lasciano la scena al battito opprimente della batteria di Mick Harvey e del basso di Barry Adamson che vengono raggiunti in corsa dalla chitarra di Blixa Bargeld mentre Nick Cave canta la sua dannata ode al Dio di Tupelo.

I Re Magi sono venuti dall’Inferno per inginocchiarsi davanti al giaciglio che accoglie la nascita di Elvis mentre la città è coperta da una pioggia nera che ingrossa il letto del Mississippi. Mentre portano riverenze e doni ad Elvis, preparano una piccola fossa per accogliere le ossa del suo gemello Jesse Garon, il primogenito nato morto.

Tupelo ci introduce sotto orribili presagi nel mondo nero di Mr. Nick Cave e dei suoi semi cattivi con uno dei migliori numeri del loro breviario, accompagnata su singolo dal country-horror di The Six Strings That Drew Blood trafugata dal tardo repertorio dei Birthday Party, con uno spettacolare lavoro delle chitarre di Harvey e Bargeld.

Altro pezzo micidiale è Train Long-Suffering tutta giocata sul call and response del blues del Sud ma suonata a velocità folle. Un treno di dolore e sofferenza che corre sui binari dell’America, destinazione infelicità.

Fortemente intrisa di blues rurale è Black Crow King mentre tutta giocata sulla chitarra di Mick Harvey è la Say Goodbye to the Little Girl Tree che tocca il tema dell’amore omicida tanto caro a Cave.

Interamente opera di Nick è la drammatica Knockin’ On Joe che apre con il lamento di un condannato a morte la seconda facciata dell’album.

Pelle d’oca. 

Nick ci fa sedere dalla parte del torto, senza usare altre armi se non le parole scandite dalla sua voce melodrammatica e le note calanti del suo piano.

Wanted Man, scritta da Dylan, torna ai ritmi incalzanti di Tupelo e Train Long-Suffering immaginando la fuga per tutti gli Stati dell’Unione di un fuorilegge in fuga dal mondo intero e, soprattutto, da Dio.

Per ogni Re del rock ‘n’ roll che arriva, c’è un Re del blues che muore e così, se l’apertura del disco annunciava una nascita, il finale si chiude con la descrizione di una dipartita. Il ritmo rallenta fino a simulare l’arresto dello stesso alito vitale.

Il macchinista mette i suoi ultimi cocci di carbone dentro la caldaia, finchè il treno rallenta e con lo stridore metallico di un’armonica a bocca si ferma all’ultima stazione deponendo sul marciapiede il corpo senza vita di Blind Lemon Jefferson.

La luce della stella cometa si spegne come la fiamma di una candela sulla grotta di Tupelo.

Il Mississippi raccoglie le sue acque per poterle versare come lacrime su una lapide.

Il temporale va a rovinare i sogni di qualche altro bambino più in là, trascinando le sue nuvole nere con gran strepitio di tuoni.

Effetti speciali sputati a sfregio su queste vite destinate a non vedere la luce del sole.

 

                                                                                                Franco “Lys” Dimauro

 

THE JESUS AND MARY CHAIN – Honey‘s Dead (Blanco Y Negro)

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Quando i fratelli Reid decidono di chiamare il proprio gruppo Jesus and Mary Chain hanno in mente un rosario.

Un rosario di gente in fuga.

Dopo Murray Dalglish, Rob Dickens, Alan McGee, Bobby Gillespie, Martin Hewes, John Loder, John Moore, James Pinker, Dave Evans, è ora la volta di Richard Thomas e Douglas Hart.

Honey‘s Dead presenta ancora una volta una formazione nuova che si muove all’ombra dei fratelli scozzesi i quali, stanchi di dissipare in piccole dosi di stupefacenti il guadagno dei primi tre album, stavolta si comprano un intero negozio di droga.

Si chiama Drugstore, e sorge nella zona sud di Londra.

Lì dentro sono finalmente a proprio agio.

Hanno tutto quello che gli serve: una buona dose di psicotropi, un frigo pieno di vodka, un produttore come Alan Moulder a loro completa disposizione, una tivù perennemente accesa in sala regia, strumenti, fornelli, caffettiera, bustine di tè inglese, laptop.

Tutto il superfluo è bandito.

Niente assistenti, niente orologi, niente ingegneri del suono che vogliono a tutti i costi dirti come devi suonare.

Honey‘s Dead prosegue sulla linea abbozzata con Automatic ma, musicalmente e liricamente, riapre più di uno squarcio sul passato remoto della band. Gli esempi più emblematici sono il feedback lancinante di Tumbledown, le piogge shoegaze di Catchfire e i primissimi versi di Reverence (voglio morire come Gesù Cristo, voglio morire come John Fitzgerald Kennedy, poi ribaditi dalla conclusiva Frequency) che vengono nuovamente banditi dai canali commerciali inglesi, come era già accaduto in passato con Jesus Sucks o Some Candy Talking.

Far Gone and Out e I Can‘t Get Enough, speculando su una formula melodica ormai abusata ma sempre efficace, tirano fuori il loro lato più melodico mentre Good for My Soul e Sundown sono le classiche foglie gialle che si staccano dal solito albero battuto dai venti autunnali. L’aria non è più sulfurea come ai tempi della caramella psicotica, ovviamente, ma la forza dei J&MC non si è ancora spenta.

 

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro