FELT – The Strange Idols Pattern and Other Short Stories (Cherry Red)

0

Il bozzolo dei Felt raggiunge lo stadio della crisalide con The Strange Idols Pattern and Other Short Stories dischiudendosi definitivamente alla luce e raggiungendo il massimo stadio della sua prima vita, quella dove sono ancora le chitarre immaginifiche a stuzzicare le nuvole fino a farne sgorgare una rigenerante pioggia primaverile.

Le nuove canzoni dei Felt sembrano in qualche modo l’anello fra il minimalismo crepuscolare dei Durutti Column e i grandi squarci di luce dei Go-Betweens. Canzoni come Sunlight Bathed the Golden Glow, Vasco De Gama, Dismantled King Is Off the Throne, Roman Litter, Crystal Ball, Spanish House brillano di una luce fulgida e sono ammantate di bellezza jingle-jangle come un Babbo Natale hippie che è passato a chiederci un po’ di muschio per le sue renne.

E noi, che non sappiamo coltivarlo, gli concediamo gli avanzi del nostro pasto pur di non lasciarlo andar via e di stupirci ancora nel sentirci inaspettatamente bambini.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

R.E.M. – And I Feel Fine… (Capitol)

0

Il meglio degli anni su I.R.S..

Ovvero, i migliori anni dei R.E.M., quelli in cui il sogno prende forma, in un angolo remoto della provincia americana. Gli anni migliori anche per noi, a pensarci bene, che scorrendo la track-list, proviamo un brivido ad ogni titolo, come se ogni brano fosse uno di quei distributori dove ci siamo fermati a far benzina quando avevamo tredici, quindici, diciassette anni e avevamo già sete di petrolio: Fall on Me, Begin the Begin, Radio Free Europe, Pilgrimage, Sitting Still, It’s the End of the World (as We Know It), These Days, Finest Worksong, I Believe, Welcome to the Occupation, Cuyahoga, Talk About the Passion, 7 Chinese Bros., Can’t Get There from Here, Driver 8, Sitting Still e tutte le altre che sapete a memoria, per un totale di quaranta, al netto di un paio di “repliche”. E pure qualcuna che non sapete o che conoscete con addosso un altro vestito, a volte anche migliore (è il caso di Bad Day, qui ancora in una versione acerba tanto da restare fuori dall’album cui era destinata).

Cinque album e un mini-Lp fondativi per tutto il college rock. Larve che diventano farfalle sotto i nostri occhi. Bachi da seta che ci cingono in un abbraccio di arpeggiata tenerezza.

La prateria americana si spopola di bufali e diventa il regno alle antilopi.

Welcome back to Rockville.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE BRIGHTEST ROOM – The Brightest Room (autoproduzione)

0

La parsimonia che da sempre caratterizza la scelta dei titoli appiccicati alle loro canzoni viene ribadita anche per la terza produzione firmata Brightest Room, tanto da ridurre ad ignare vittime anche i fratellini Ramones. Una misuratezza che viene in parte ribadita dall’asciutta sobrietà dei pezzi del gruppo lombardo, mai sopra le righe e addirittura quasi orgoglioso di mostrare la sua natura dilettantesca come negli assolo a volte titubanti che fanno capolino in pezzi come Unlimited o Theme.

Essenziali ma efficaci, le canzoni dei Brightest Room hanno assorbito reiterati e differenziati ascolti (i gruppi della Stiff, il punk, il rockabilly, l’anorak pop scozzese, le band C86, il power-pop, la surf music, il giro Postcard) e ne hanno fatto un’ottima, sapida sintesi. Sono canzoni immediate, a presa rapida, con il teso intreccio folk-rock di Test Cards, la garbata Zone, l’inciso di Sidewalk e la versione rockabilly di Today Your Love, Tomorrow the World a conquistare prima delle altre, rendendo luminosa non solo la loro stanza ma pure la nostra.      

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

THE WEATHER PROPHETS – Mayflower (Elevation/WEA)

0

Nel 1986 Lenny Kaye viene invitato in Inghilterra per dare una mano ad un nugolo di band indie in odore di major: i James, i Microdisney e i Weather Prophets sono gli ingaggi che decide di accettare.

Per i Weather Prophets, nati dallo scioglimento dei Loft, è Alan McGee (primo bassista, estemporaneo, del gruppo) ad esporsi in prima persona e chiedere a Kaye di produrre il loro album di debutto, quello che lì catapulterà dalla Creation alla WEA, attraverso la sussidiaria Elevation, nata e morta nel 1987 dopo un paio di album e una mezza dozzina di singoli. Le “previsioni meteo” della band londinese però non erano del tutto corrette: al momento in cui il fiore di maggio sarebbe sbocciato sarebbe seguito un lunghissimo inverno in termini di vendita, col gruppo inceppata nello stato di cult-band che Almost Prayed gli aveva garantito (rimarcato dalla lunga Five Minutes in the Life of Greenwood Goulding dedicata al loro bassista dai Biff Bang Pow! NdLYS), senza riuscire a varcare la soglia del grande successo e finendo per chiudere l’avventura nel volgere di un anno.

A voler essere obiettivi, il guizzo migliore dell’album viene proprio da Almost Prayed. Il resto, eccezion fatta per il rockabilly di Swimming Pool Blue e la contagiosa melodia di The Key to My Love Is Green, scorre via come acqua piovana, senza inzuppare i pastrani.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BLUE AEROPLANES – Spitting Out Miracles (Fire)

0

Rispetto ai due dischi precedenti, il terzo album dei Blue Aeroplanes è un lavoro più ordinario e…ordinato. L’aria si fa più confidenziale, il suono più circostanziato attorno ad una sorta di folk “riformato”, a volte anche tradizionalmente definito in chiave vagamente etnocentrico.

La frenesia del disco precedente, appena accennata nell’iniziale Coats, è dunque trattenuta, risolta il più delle volte in forma loureediana o e la band si prodiga, addirittura, nei lunghi assoli della title-track in una sorta di versione lo-fi dei Dire Straits oppure sembra allinearsi senza grande verve alla lezione dei Pogues, di cui danno una versione fin troppo educata su Days of 49.

Gli aeroplani scelgono un volo confortevole. Ma a me piaceva di più quando scendevamo dalla fusoliera col sacchetto del vomito in mano.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DANIEL JOHNSTON – Continued Story (autoproduzione)

0

Grazie a Kim Fowley le particelle di suono di Daniel Johnston si compattano attorno al nucleo dei Texas Instruments, dando di vita a quello che è il primo lavoro “professionale” ormai naturalizzato texano. Il suono adesso “svolazza” fra Dylan e i Violent Femmes, salvo quando resta impigliato tra le maglie del filo spinato (The Dead Dog Laughing in the Cloud) o quando decide di assecondare la vena blues dei nuovi gregari (Her Blues con i TI, Ain’t No Woman Gonna Make a George Jones Outta Me con Bill Anderson).

Anche stavolta qualche pezzo resta appena abbozzato per essere ultimato in futuro (l’unghiata grunge di Funeral Home) mentre la conclusiva Girls si candida a sottrarre a Worried Shoes lo scettro della sua canzone più lunga e strutturata, con tanto di assolo texano super-elettrico e lunga coda di pavone. Vizi e vezzi cui si è cominciato già da tempo a voler bene e che fanno di Continued Story uno degli album folk da stringere come il nostro peluche preferito.       

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

dEUS – The Ideal Crash (Island)

0

A furia di giocare con la porta girevole del loro suono, i dEUS devono essersi chiusi le dita nello stipite. Così eccoli presentarsi all’appuntamento col terzo album con le nocche fasciate.

La follia pirotecnica dei primi album appare completamente dissolta, presentandoci il collettivo belga alle prese con un bellissimo, ma molto più “stereotipato” indie-rock, affine seppur non sovrapponibile a quello di band come Built to Spill, Elbow o Grant Lee Buffalo. Il tappeto su cui Tom Barman stende le sue liriche intrise stavolta più di humour nero che di folli non-sense ha su The Ideal Crash la morbidezza del pelo d’angora e sfoggia una malinconia neoromantica e un cattivo umore da pigiamone felpato che si rivela in canzoni ritmicamente immobili, sontuosamente avvolgenti e dal minutaggio rassicurante (quando le canzoni hanno una stucchevolezza piacevole, come in Put the Freaks Up Front, The Magic Hour, Sister Dew o Everybody’s Weird) oppure esasperante (nei casi opposti, vedi Instant Street, Dream Sequence #1, Magdalena).  

Se trovate erotici gli scaldasonno, i Pisoloni e le trapunte potrebbe essere il vostro disco del secolo. In caso contrario, tornate tranquillamente al bar sottomarino di qualche tempo fa.      

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

deus_-_the_ideal_crash

THE MONOCHROME SET – The Lost Weekend (Blanco Y Negro)

0

Dopo aver firmato il loro capolavoro i Monochrome Set sembrano adagiarsi sugli allori e, con la complicità di John Porter, cercare di “istituzionalizzare” il loro suono, di renderlo in qualche modo classico, sciupando nei fatti quella discrasia preziosa dei loro primi dischi.

Benvestiti (TROPPO benvestiti, come su Letter from Viola e Don’t Touch), Bid e compagni perdono molto del loro fascino. E anche vestiti con gli abiti del Presley di Viva Las Vegas (Jacob’s Ladder) in realtà sembrano confondersi fra i tanti concorrenti all’ennesimo Elvis-raduno, seppure non siano fra i peggiori. The Lost Weekend segna dunque una retrocessione, secondo la scala Becker, da artisti naif a professionisti integrati, senza peraltro godere del successo sperato e tradendo dunque l’orizzonte di aspettative che ne provocherà la scissione.

Anche il tentativo di affiancare la vettura degli Smiths e di tentare lo speronamento (la bella The Twitch, che avrebbe meritato miglior fortuna, e il melodramma esistenziale di Wallflower, per tacere della Starry Nowhere che è già tutto il Morrissey solista che verrà, NdLYS) non darà frutti in termini di popolarità e bisognerà attendere l’irruzione nella stanza dei diamanti di Edwyn Collins perché il presupposto di questo ricercato mélange pop trovi compimento e successo.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PAVEMENT – Brighten the Corners (Matador)

0

Goniometro e compasso.

E le canzoni scarabocchiate dei Pavement finiscono per prendere una forma, anche se tracimando spesso dai bordi, come fossero di mercurio. Brighten the Corners “riallinea” in qualche modo il canzoniere dei Pavement facendolo suonare come una versione sbieca delle canzoni più sghembe del doppio bianco dei Beatles, diventando una specie di succursale dell’indie-rock internazionale che loro stessi hanno contribuito in qualche modo a fondare e che si è ormai istituzionalizzato con l’omonimo album degli inglesi Blur, i dischi dei belgi dEUS, i dischi italiani di Elle, Fuck, Yuppie Flu, lo slacker rock di Beck, Dinosaur Jr, Sparklehorse.

Sono dunque i maestri che riposano sugli allori, in qualche modo. E che scansano le spine. Continuando il loro viaggio da bruchi tra il fogliame di folk scostante ed onirico che trova in Ode to Begin e Shady Lane pieno compimento. I re del lo-fi diventano una band costretta a “sporcare” in maniera professionale quel che prima era solo materia grezza, a cercare la scollatura industriale in quel che prima era invece scollato per natura. Le smorfie e le bocche storte dei primi dischi sono adesso pose perfette da college band.

Fuori qualcuno arriccia il naso.

Eppure, in questa forma compiuta le canzoni dei Pavement diventano irresistibili, come certi giocatori di hockey con le spalle grandi quanto la Merrick Butte che scivolano sul ghiaccio come ballerine in tutù.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

dEUS – In a Bar, Under the Sea (Island)

0

Ancora un disco di meraviglie, dall’Olimpo belga. Dopo il fenomenale esordio e la raccolta di stracci My Sister = My Clock, il secondo album dei dEUS arricchisce ulteriormente il lessico e la grammatica musicale del sestetto di Antwerp che dal bancone del suo bar subacqueo porge a centinaia di musicisti il bicchiere per apprendere a fare la O di pop in maniera perfetta. Colmo. Anzi, stracolmo.

Sovrapponendo come antichi operai egiziani fumose atmosfere noir, vapori jazz, soffici tappeti acustici, funky rampanti, coliche waitsiane, unghiate punk, vecchie arie da grammofono, ballate da fellatio, sonnecchianti ninne nanne etiliche per soldati assopiti in trincea, violini dalle ali di colibrì, polimorfiche ballate da appuntamenti falliti, musichette per carillon inceppati, traiettorie storte come quelle di un pallone sgonfiato e canestri da cestisti provetti i dEUS costruiscono una piramide di grandissimo art-pop, ingigantito dall’alternanza di più voci che si materializzano dallo spettro audio imprigionando l’ascoltatore come dentro il cono di un caleidoscopio.

Giù, nel mondo di Spongebob, la vita marina pullula di sirene squamose che seducono i marinai che solcano il Mare del Nord.

I balani infestano la carena delle navi che vi passano sopra.        

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro