PINK FLOYD – Ummagumma (Harvest)  

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Confuso nella genesi ed irrisolto nei risultati, Ummagumma è una delle mine inesplose della discografia dei Pink Floyd, sorta di installazione sonora che da un lato documenta la compattezza raggiunta dal quartetto britannico e dall’altro prova a definire il ritratto di ogni singolo componente, come già lascia intuire la bella copertina la cui escheriana e virtualmente infinita galleria ricorsiva ci proietta in un introspettivo gioco di specchi in cui la band si alterna alchemicamente in una posa apparentemente statica ma in realtà avvicendandosi in un gioco di ruoli fotografici fino a chiudersi sulla copertina di A Saucerful of Secrets, quando già l’occhio fatica a percepire la profondità.

L’ambizioso progetto di offrire al proprio pubblico una visione “ad incastro” della band si perde però in un doppio album che, fatta salva la pur cerimoniosa sezione live (Astronomy Domine, Careful with That Axe, Eugene, Set the Controls for the Heart of the Sun e A Saucerful of Secrets) che si inerpica abilmente sui pioli cosmici dei primi due anni di carriera, si smarrisce in un labirinto di sperimentazioni individuali fini a se stesse e concettualmente disorganizzate che vanno da bucoliche ballate folk a dilettanteschi approcci alla musica classica, dalla musica da salotto a quella da foresta, inseguendo un deliro antropologico incerto nelle motivazioni e sterile nei risultati.       

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

ummagumma

CAN – Tago-Mago (United Artists)

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Tago-Mago.

L’abominevole mondo dei Can.

Il posto dove la psichedelia diventa canone esoterico. Dove Ailester Crowley parla con lo yeti. E lo yeti gli risponde.

Dove l’Halleluhwah e l’Augmn trovano pari dignità.

Dove gli alieni cagano sul continente nero e gli africani gli rispondono battendo sui tamburi. E non si capisce se è un ritmo di benvenuto o una chiamata alle armi. Dove la world music diventa musica delle galassie e dei corpi celesti. Dove il ponte bicolore di Glenicke si tramuta in arcobaleno e gnomi e bambini si tuffano nelle acque dell’Havel e ne escono asciutti.

Le musiche dei Can sono in fondo una via parallela allo space-jazz di Sun Ra: strade che collegano la Terra al Cielo.

Persi nell’atollo di Tagomago i signori del kraut-rock alzano la loro colonna di incenso e di zolfo fino a toccare i piedi di Dio, per vederlo sorridere.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

Q65 – Revival (Decca)

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Il revival vero, quello importante e internazionale, sarebbe arrivato molti anni dopo ma in quel 1969 i Q65 erano già in qualche modo stati “archiviati” dopo un breve ma esplosivo successo patrio che aveva investito il loro primo album e una sfilza di singoli uno più bello dell’altro. La storia era finita nei primi giorni del 1968 e i superstiti, non rassegnati a quella fine precoce, avevano rivoluzionato l’assetto e sfruttato qualche trucco di studio per terminare il lavoro rimasto incompleto: quattro canzoni intitolate Ridin’ on a Slow TrainSundanceVoluntary Peacemaker e Fairy-Tales of Truth che si spostano verso i territori ancora parzialmente vergini di una psichedelia intrisa di oriente e incuneata fra la canzone di protesta della stagione hippie e l’escapismo fiabesco di quella prog-rock. Un millennio dopo quelle canzoni verranno pubblicate sotto il nome che intanto la band si era dato: Circus. Ma nel 1969, col contratto Decca non ancora saldato, l’etichetta le sfrutta per occupare la seconda facciata di Revival, annunciandolo come il secondo album del gruppo e stipando sull’altro lato un po’ di roba pubblicata su piccolo formato e che costituiscono le perle del disco e la scorta di dinamite su cui decine e decine di band, quindici anni dopo, forgeranno il loro stile: It Came to MeCry in the NightSo High I’ve Been, So Down I Must Fall in particolare sono l’abbecedario di tutti i Lucignolo del garage-rock ma anche la ballata World of Birds e la cover di No Place to Go di Howlin’ Wolf mostrano la demielinizzazione dei tessuti nervosi di una band sedotta dal blues e dal folk e con le chele lanose di un aracnide gigante.    

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NO STRANGE – Polveri magiche e altri amuleti

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Una sorta di Lennon in acido: erano i No Strange di The New World, brano onirico e deforme buttato dentro il calderone di Eighties Colours della Electric Eye Records che nella primavera del 1985 si era presa la briga di presentare al mondo la scena neo-psichedelica italiana, che di fatto non esisteva ma che Claudio Sorge di Rockerilla si immaginava esistesse. Lo immaginava talmente tanto e talmente bene che la mise su disco e quella, la scena dico, nacque davvero. Nacque pure, in quel preciso momento, la Toast Records di Giulio Tedeschi che decise di inaugurare il proprio catalogo proprio con un disco dei No Strange, folletti psichedelici che pare di notte si aggirassero sotto la Mole Antonelliana.

Copertina serigrafata, vinile trasparente: Tedeschi investe ben più di quanto chiunque altro si arrischierebbe a fare con degli esordienti assoluti, soprattutto quando a tirare il mercato indipendente non è certo la musica freak di qualche musicista che cita nomi che sembrano quelli dell’equipaggio della corazzata Potëmkin.

Quando arriva sui piatti l’omonimo album dei No Strange sembra un po’ come se sia atterrata l’astronave dei Gong. Nulla a che vedere con la neo-psichedelia americana che odora di sterco e che con un gioco di specchi ci rimanda i fasci di luce di Neil Young, Velvet Underground, Doors, Television o che, nelle più temerarie derive garage ci voleva ingannare rubando canzoni e suoni ai dischi di Music Machine o Electric Prunes: la musica dei No Strange ha corpo di cartilagine.

Sembra un’ostia eucaristica inzuppata nell’LSD.

Si muove a metà tra spiritualità ed elevazione psichedelica. E si muove con estrema e saggia lentezza, senza alcuna fretta, senza impaccio, senza dover mascherare con i volumi la sua fragilità di mollusco cui piace nascondersi dentro una conchiglia.

E tu appoggiando l’orecchio ci puoi sentire la risacca delle acque del Gange. Provaci, dico sul serio.

 

“Carissimi e illustrissimi, chi vi scrive nuovamente è il musicista psichedelico Ursus. Per prima cosa principale vi ringrazio per l’attenzione a voi prestata che vi renderemo a suo tempo nella puntata dell’11 febbraio che possibilmente ci riempie di gioia e di emozioni quando leggevate la lettera da me inviata e possibilmente ricevuta di questa sublime e stupenda del gruppo dei No Strange di cui mi umilio di fare portavoce”.

Presentatore: “fa bene a umiliarsi?”

Mago Gabriel: “no”

Presentatore: “Perché no?”

Mago Gabriel: “Perché a sua volta siamo tutti uguali, nessuno più alto e nessuno più basso”.

“Nell’attesa di poter ascoltare la nuova poesia del grande Gabriel vi invio in omaggio un’opera musicale…ecc…ecc…sperando che possibilmente in questa musica tu possa cogliere il senso magico dei No Strange. Essa è musica eso e poi eterica ma non solo paragnosta ma bensì è importante la concentrazione mentale che possibilmente può anche essere ascoltata dagli gnomi anzi tanto più sublime quanto potrà spiegare il nostro amato Gabriel…ecc…ecc…”.

Siamo nel 1992 e all’interno dello studio televisivo dell’emittente torinese TF9 si consuma uno dei dialoghi più surreali della televisione underground italiana:

il mago Gabriel è un eroe locale divenuto patrimonio dell’umanità grazie alle attenzioni della Gialappa’s.

Ursus, leader dei No Strange, è uno dei suoi ammiratori. Parla e scrive come lui, in simbiotica estasi, come un discepolo devoto. E gli spedisce i suoi dischi.

L’universo è uscito in realtà cinque anni prima. Ma nell’universo psichedelico, così come in quello “eso ed eterico” il concetto di tempo e spazio sono concetti sfuggenti e molto relativi.

Il secondo album del gruppo piemontese è ancora una volta un piccolo rifugio atomico sopravvissuto alle lordure del mondo, un Ara Pacis votato ad una psichedelia esoterica e dall’afflato mistico. Sitar, violini, flauti, tabla, nastri magnetici e tastiere si addensano attorno alle chitarre di matrice folk spargendosi come incenso e liberando l’effetto di una sorta di cerimonia psichedelica dove vengono evocati gli spettri delle figure del progressive-folk degli anni Settanta, deformati dalla visione multidimensionale del terzo occhio e dall’ascolto psicoanalitico del terzo orecchio cui il disco tenta, trovandolo, l’accesso.

L’universo spalanca le porte all’abisso interiore, al mondo parallelo che ci viaggia dentro e che ci rifiutiamo di ascoltare, avendone paura. I No Strange diventano gli argonauti musicali dell’inconscio.  

                       

Per qualche motivo che sconosco (ma posso legittimamente supporre siano banalmente legati a motivi di registrazione alla SIAE, NdLYS) i pezzi del terzo album dei No Strange portano tutti la firma di Laura Tommasi, flautista aggiunta alla nuova line-up messa in piedi da Ursus appena dopo la defezione del vecchio compagno d’armi Alberto Ezzu e che comprende da un paio d’anni il bassista Paolo Avatàneo dei Double Deck Five. Nonostante il flauto sia lo strumento centrale di gran parte di Flora di romi, anche il terzo album della formazione torinese sembra piuttosto ruotare intorno all’idea di collettività creativa e di sviluppo corale che sono fra le prerogative dei No Strange.

Il disco esce in edizione limitatissima. Sarà forse per quello che, sfogliando riviste e libri e scorrendo sul web, sembra che davvero in pochi lo abbiano davvero ascoltato. Peccato, perché Flora di romi amplia ulteriormente lo spettro di contaminazione della band, finendo per lambire spesso l’ellittico folk dei fratelli Alan e Jerry Sorrenti e abbandonando in parte le stravaganze orientaleggianti per una sorta di neo-folk globale e vagamente medievale. Eccellenti ancora una volta la veste grafica e i testi panteisti, elementi caratterizzanti dell’incredibile mondo elfico dei No Strange, in perenne collisione col nostro.

Dopo un silenzio quasi decennale, interrotto solo dall’EP Medusa, quando ormai li credevo ormai estinti come i giganti del paleolitico, mi ritrovo fra le mani un album nuovo di zecca dei No Strange. Strano, anziché No.

Chi può dire in che anno solare ci troviamo quando la coda della cometa No Strange ci passa vicino? Chi può dire cosa troveremo al di là dei vetri delle nostre finestre?

Un parco giurassico abitato da rettili titanici? Le abbaglianti mura bianche del Taj Mahal? Una cosmonave aliena? Il Balyogi Baba in equilibrio su una sola gamba? Un tappeto volante cavalcato da un gigantesco narghilè?

La musica dei No Strange viaggia sospesa sul tempo.

Mistica, psichedelica e solitaria. Oggi come tre decenni fa.

Gettando ponti col loro stesso passato e con la storia che li ha preceduti (il rock crauto, il progressive, il folk, la psichedelia, i Kaleidoscope, i Grail, Le Orme, Ravi Shankar, Battiato) Cristalli sognanti si riannoda abilmente alla loro discografia, tra le visioni orientali di Il sudore dei pianeti/Respirare il mare e la furia prog di Echidna lasciandosi ammirare come un vero cristallo (sognante).

Ogni qualvolta arriva un disco dei No Strange, mia moglie sa che la attendono giorni pesanti.

Giorni in cui le distrazioni, già eccezioni alle regole d’ascolto che mi impongo davanti ad ogni disco, sono rigidamente bandite.

Giorni di volumi esagerati che rendano giustizia al flusso di suoni che vengono giù una volta aperte le cataratte della psichedelia dei No Strange.

Giorni di telefoni spenti, di televisori muti, di porte chiuse.

Giorni di appuntamenti mancati e di colloqui disattesi.

Barricato come un Sandokan nascosto tra i cespugli della giungla malese mi appresto dunque all’ascolto di Armonia vivente tra analogie e contrasti, secondo lavoro del nuovo corso dei No Strange, aprendo il vaso di Pandora che schiude un mondo incantevole ed incantatore dove convivono musica etnica, folk Canterburyano, avanguardia prog, psichedelia onirica, lievitazioni kraute.

Un puzzle caleidoscopico che fa tesoro delle esperienze più intransigenti della musica contemporanea (dal primo, prezioso Franco Battiato all’ipnosi elettronica di Terry Riley, dalle gelide visioni cosmiche dei Tangerine Dream alle risonanze mistiche di Ravi Shankar, dalla psichedelia etnica dei Kaleidoscope alle ambientazioni sintetiche degli Ash Ra Tempel) per costruire un suono che è fantascientifico e spirituale allo stesso tempo, un samsara circolare che si dipana lungo sedici tappe che creano un sistema autopoietico in perenne trasformazione e ridefinizione di se stesso.

Armonia vivente è dunque disco concettuale e privo di accondiscendenze al facile ascolto, marcato da una trascendenza che fa a pugni con i bisogni meramente biologici di cui ci nutriamo quotidianamente, gli unici che per pigrizia ci ricordiamo di soddisfare.

Ad accrescere e prolungare il piacere dell’ascolto, alla versione digitale sono stati aggiunti quattro reperti di lontanissima memoria (RainbowYouTribe from Another WorldLisergic Tomahawk) che, seppure con i mezzi di fortuna dell’epoca, quadrano il cerchio con un modello di percezione psichedelica mai tradita dal gruppo torinese.  

 

La qualità migliore dei No Strange è quella di farci sentire piccoli e sperduti ogni qualvolta decidono di srotolare il loro tappeto sul pavimento di casa nostra per poi lasciarlo fluttuare a mezz’aria.

Merito del potere alchemico che tocca in sorte a qualcuno, mentre ad altri no.

Perché la magia riesca è però indispensabile lasciarsi il mondo dietro la porta, tarare le proprie vibrazioni per portarle a frequenze affini a quelle evocate dalla loro musica.

Del resto, se vuoi raggiungere il coniglio bianco devi prima inseguirlo. E se vuoi agguantare un sogno devi prima di tutto sognare, trasportarti in una dimensione onirica fluente e feconda.

Ecco, quella è la dimensione perfetta per la musica dei No Strange, traghettatori di anime. Ed è anche la mia dimensione preferita per tastare l’efficacia dei loro dischi. Passato il primo approccio consapevole con la loro “materia sonora”, ne trasporto il contenuto in camera da letto per proiettarmi in un universo parallelo di semi-coscienza, in bilico tra la veglia e un primo stadio di torpore lievitante, fertile, docile ma labirintico. 

Non ha fatto eccezione Il sentiero delle tartarughe. E non hanno fatto eccezione gli effetti prodotti dalle intricate ma distese maglie della loro musica, perennemente nuova e perennemente antica. Incapsulata anche lei tra reale ed irreale.                 

Musica che è eternamente terra straniera. Anche quando affiorano all’orizzonte approdi conosciuti, sguardi già visti (Gli occhi, da quel capolavoro che fu L’universo, riproposta quasi in chiusura dell’opera).

Musica che è perpetuo viaggio, perpetuo movimento centripeto.

Fuori passano crotali e branchi di elefanti bianchi. Stormi di ibis e mandrie di rinoceronti. E passano, lente, le tartarughe.

Ci sfiorano, come fossimo bacche agitate dal vento.

E passano oltre.                           

 

Con Universi e trasparenze No Strange si confermano, ancora una volta, il punto dove Oriente ed Occidente si annodano, corteggiandosi senza ferirsi. Mirabile esempio di dedizione e coerenza, il gruppo torinese arriva a celebrare il trentennale del suo debutto discografico con un nuovo viaggio psichedelico di mistico fulgore ed elevazione sensoriale che è parimenti un omaggio ai maestri che ne hanno in qualche modo ispirato l’avvio.

Le particelle cosmiche di Popol Vuh, Nice, Le Stelle di Mario Schifano, Terry Riley, La Monte Young vengono incamerate nel serbatoio e rilasciate nello spazio dopo un trattamento reverente ma a tratti anche personale (come nelle rivisitazioni di Dawn e Susan Song) che ne restituisce l’essenza accarezzandone le forme e preservandone la memoria. La sensazione, rinnovata ancora una volta, di trovarsi all’interno di un circolo esclusivo ogni qualvolta si poggi la puntina tra i solchi di un disco dei No Strange fa ovviamente parte del gioco di scrematura naturale che sono necessarie a certe musiche per filtrare con abilità sciamanica le orecchie predisposte a varcare la soglia da quelle obbligate ai giochi dei pudori formali, proprio come fu per i grandi esploratori della musica degli anni Sessanta e Settanta.

Un approccio del tutto antitetico a quello ammiccante suggerito ad esempio dai “viaggi organizzati” del bhangra pop che tanti turisti traghettò sulle rive del Gange un ventennio fa. La musica dei No Strange è disadorna di quella modernità abbagliante e lavora su una concezione di espansione e di immersione che è del tutto dissimile da quello di fusione e sovrapposizione che fece l’effimera fortuna di quel movimento musicale e di meteore baluginanti come Kula Shaker o Cornershop.

Universi e trasparenze è dunque l’ennesimo capolavoro che verrà incensato (in quale altro caso potremmo usare questo termine in maniera più appropriata? NdLYS) dalla critica e celebrato come un rituale esoterico da chi preferisce non galleggiare in superficie. Mai. Gli altri si arrendano pure alle correnti come corpi che hanno già deciso di essere sarcofagi in balia delle onde.

Un disco più mistico che psichedelico, l’ennesimo album dei No Strange. Un viaggio alla ricerca di Gaia come medicina per il disgusto che ci sta riempendo stomaco e polmoni e di cui

Voyage dans la lune si fa amaro manifesto, quasi fosse una sorta di Povera patria aborigena. E si, il Battiato più sperimentale ed ermetico abita questi luoghi sonori, assieme a mille altri spettri. Che nella musica del gruppo torinese sono evocati e mai emulati. A loro viene concesso ancora il soffio della vita, in qualche modo. Senza farsi mai carne. Mutter der Erde sembra un posto creato più per loro che per noi, che lo attraversiamo non senza avvertire un vago senso di disagio.   

Oscuri gruppi prog italiani, antiche formazioni di folk celtico, vecchi corrieri cosmici germanici, lontane orchestre di suonatrici indù, pellegrini e sciamani, rabdomanti, danzatrici del ventre, raccoglitori di tufo e mietitrici di bambù si muovono nuovamente tra questi paesaggi.

Aria tra l’aria. Acqua tra l’acqua, fuoco in mezzo al fuoco, terra nella terra.  

 

Quello dei No Strange è un gioco di perle di vetro che riproduce in miniatura le lusinghe infinite fra luoghi e tempi diversi. Un riverbero osmotico delle vibrazioni che permeano l’universo, un imbuto che le raccoglie e cerca di introiettarle nell’impenetrabile cortina che l’uomo si è costruita attorno, l’anello inesauribile che unisce passato, presente e futuro altrove ossidato dall’edonismo dell’uomo moderno. “Ogni cosa muore e poi rinasce”, la frase tratta da L’universo in volo, racchiude un po’ il senso attorno cui ruota tutto il concept di …e continuerò ad esistere, forse anche l’intera vicenda artistica del gruppo le cui perpetue e molteplici rinascite danno veracità alla profezia, al flusso del SoHam che ne permea il respiro. Musicalmente il disco rivela le sue proprietà alchemiche affini a quelle di band come Aphrodite’s Child, Amon Düül, Le Orme pur ricontestualizzando tutto in quella forma di folk panteista che è la cifra stilistica della formazione torinese e che in questo nuovo episodio ricuce, graficamente e liricamente, il legame con le tematiche de L’universo.

La dimensione è sempre quella onirica e mantrica, l’evocazione rituale della magica pozione che sprigionando i sogni ci porta verso altre dimensioni extra-corporee, preparandoci al viaggio verso “il tao dell’immaginazione”. Con un tramestio di strumenti che è speculare e attinente al nostro girovagare sperduto, allo stupore sensoriale che ne deriva. I No Strange intingono le dita nell’etere etilico e ci appongono un segno sulla fronte, come Dio con Caino. Affinché noi si vada raminghi ma nessuno faccia scempio di noi.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TYRANNOSAURUS REX – Unicorn (Regal Zonophone)  

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Dopo aver vagato come un lillipuziano nel sottobosco inglese alla ricerca di elfi ed erbe mediche, Marc Bolan mette le ali e sale in groppa ad un unicorno per l’ennesimo viaggio nel suo mondo fatato.

L’immaginario di Unicorn rimane dunque quello fiabesco che ispirerà schiere di gruppi prog e di rock romantico all’alba del decennio che sta per arrivare e il falsetto singhiozzante, il vibrato fastidioso e molesto da grillo parlante lo stesso dei due dischi precedenti anche se l’impianto musicale, che rimane fondamentalmente acustico e folk, viene arricchito dalla nuova effettistica di studio da poco disponibile sul mercato quel tanto che basta per ravvivare una formula che era già diventata noiosa per quanto anche qui filastrocche ed uccellini rischino di cagare fuori dal nido e sporcarci i vestiti più di una volta.

Sono canzoni che, come quel famoso film di spionaggio, chiudono il loro ciclo vitale nella manciata di un paio di minuti. Una striscia di vignette surreali ed espressioniste alla cui cima resta quel capolavoro di Iscariot, poesia bucolica e greve sull’arte dell’amor bugiardo che è il vertice artistico assoluto del Bolan ancora nudo di lustrini e di piume di pavone.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ORA – ORA (Tangerine)

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Potrebbe capitare di trovarlo per caso, a prezzi impossibili, ad una fiera del disco.

Potrebbe succedere, come è successo a me, di trovarlo a pochi centesimi, tra i polverosi mobili rococò di un robivecchi magari regalato dal possessore deluso per averlo all’epoca comprato pensando di mettersi in casa l’ennesimo disco dell’ennesima prog band italiana.

In ogni caso cercate di farlo vostro perché l’unico album degli inglesi ORA è un disco di folk-rock sublime, in grado di coniugare il Canterbury-sound, i Kinks bucolici e le soffici nuvole nere di Nico e Tim Buckley in maniera impareggiabile e con quella grazia jazzy che potevano condividere all’epoca con gli Zombies e i Blue Flames di Georgie Fame e in cui è possibile individuare i semi del suono di band come Kings of Convenience o Turin Brakes.

Preparate il vostro cestino del picnic con una buona scorta di ciambelle alla cannella e space cakes e mettetevi alla ricerca di questi rarissimi lamponi inglesi.

ORA.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Lost Innocence: Garpax 1960s Punk & Psych (Big Beat)

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La Garpax è la piccola label di Gary Paxton che nel ’62 pubblicò quella pietra miliare del frat-rock pre-Beatles che fu Monster Mash.

Ma non solo, ovviamente. Altrimenti non staremmo qui a parlare di questa fantastica raccolta appena sfornata dalla Big Beat che mette in riga 24 pepite di cui Paxton fu in qualche modo artefice registrandole nei suoi studi, pubblicandole su etichette parallele come la E.S.P. o la G.S.P. o partecipando attivamente alla scrittura, come nel caso della famosa Be a Caveman degli Avengers, la più sconcia tra le canzoni qui in lista che per il resto riserva un ottimo arsenale di sixties-rock come Melodyland Loser dei New Wing, See If I Care di Ken and the Forth Dimension, Lost Innocence dei Buddhas, Our Love Should Last Forever e You’re Whisin’ I Was Someone Else dei Whatt For e una lunga sfilza di pop-songs imbevute nell’alcol zuccherino tipico di quegli anni. Che magari ne fosse rimasta qualche goccia per poterci impregnare tanta merda di oggi per farla sembrare almeno appetibile.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TWINK – Think Pink (Polydor)

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Nel luglio del 1999 attendemmo un segno dall’alto, come annunciato da Twink nel verso introduttivo del suo Think Pink. Aspettammo fino al 31 del mese, quando l’unico segnale che arrivò fu lo schianto della navicella Lunar Prospector sulla superficie della luna. Purnondimeno continuammo ad aspettare, come Vladimir ed Estragon. E come loro, non si sa bene cosa.

Insomma, Twink col futuro non c’aveva preso.

Un po’ meglio era andata col passato, siccome il suo primo disco arriva a chiudere la cerniera sulla stagione della psichedelia che aveva caratterizzato la musica inglese dell’ultimo spicchio degli anni Sessanta e in qualche modo lo trova in veste di pontefice fra il tramonto di quella e l’alba dell’era prog. Perchè al di là dell’evanescenza della prima sembra condensarsi, nella foresta rosa di Twink, una nebbia sinistra che è già foriera di presagi inquietanti, come se i fantasmi di Barrett si fossero alla fine materializzati in mostri metà diavolo e metà fauni, come in realtà sarà. Dentro un pezzo come Mexican Grass War ad esempio c’è tutta una ritualità tribale che è in parte The Brig del Living Theatre e in parte giungla cosmica come quella dei matrix teutonici dei primi anni Settanta. Fantasmi che tuttavia ritornano sottoforma di ectoplasmi di cristallo nascosti dentro il cavallo a dondolo per bambini down di Three Little Piggies e di passeri vestiti con la tunica di Cristo su The Sparrow Is a Sign. Ma su tutto svetta la cattedrale a guglie psichedeliche di Ten Thousand Words in a Cardboard Box che è l’elettricità di Hendrix che si infiltra dentro il muro invaso dalle edere dei Tyrannosaurus Rex. E da lì i passeri, e i corvi, guardano il nostro mondo che ai loro occhi deve sembrare davvero mísero e lontano.       

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE SEEDS – Op-art

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Siamo nel 1965: la rivoluzione musicale e culturale esportata dai Beatles costringe le etichette discografiche a un radicale cambiamento, pena l’esclusione da un mercato che ha fame di musica giovane e selvaggia.

Gene Norman è un impresario jazz di Hollywood che organizza concerti e che ha messo in piedi un’etichetta dedicata alla sua musica preferita ma che non disdegna qualche puntatina nelle colonne sonore e nella surf music, la teen-music dell’epoca pre-Beatles.

La nuova ondata beat gli impone però, pena la totale esclusione dal mercato, di assicurarsi i servigi di qualche nuova band di capelloni che garantisca visibilità e sopravvivenza alla sua etichetta, la GNP Crescendo.

Tra i primi nomi a finire sotto contratto ci sono i Lyrics, gli Other Half, i Trippers e i Seeds, la nuova band di Richie Marsh, uno scansafatiche arrivato a Los Angeles da Salt Lake City nei primi anni Sessanta e che sbarca il lunario facendo qualche serata con un repertorio di canzoncine che qualcuno si è pure preso la briga di stampare su alcuni 45 giri che, all’epoca del contratto con la Crescendo, giacciono già da anni tra gli invenduti dei distributori.

A cambiare il corso degli eventi e il suo approccio alla musica sono da un lato la folgorazione per il suono dei Rolling Stones e dall’altra l’incontro con il chitarrista Buck Reeder ribattezatosi Jan Savage in omaggio alle sue origini pellirossa (poserà infatti in costume indiano sulla copertina dell’album). È il sodalizio con Jan a convincere Richie a tirarsi fuori dalla sua nuova band, gli Amoeba, per tentare qualcosa di nuovo. A bordo della neonata scialuppa Seeds salgono altri due fuggiaschi ovvero Daryl Hooper e Rick Andridge provenienti entrambi da Farmington.

Richie (nel frattempo ribattezzatosi Sky Saxon), nonostante gli evidenti limiti vocali e tecnici viene scelto come bassista e cantante. Non rinuncerà di fatto mai al primo ruolo pur costringendo la band di volta in volta a ricorrere a dei session men o a sopperire alla loro assenza con delle linee di tastiera (come quelle presenti su Evil Hoodoo e Fallin’ in Love, NdLYS) inaugurando uno stile che farà la fortuna dei Doors solo un paio di anni più tardi. Si conquisterà invece la stima dei compagni, nonostante la striminzita gamma modulare delle sue corde vocali, col secondo dei due incarichi in virtù di una disarmante carica erotica e di una inarrestabile ed estenuante capacità di blaterare parole ad libitum per un tempo probabilmente tendente all’infinito.  

Il nuovo contratto viene inaugurato subito con l’uscita del primo singolo nell’estate del 1965 e che viene replicato, vista la buona accoglienza, in apertura di The Seeds, il loro LP di debutto.

Can‘t Seem to Make You Mine è in realtà un pezzo poco convenzionale per aprire un album. Si tratta di una ballata in cui Sky dà sfoggio del timbro nasale che caratterizzerà tutta la sua produzione, colorata dal suono cristallino del piano di Hooper e sostenuta da pochi sparuti accordi twang della sei corde di Jan Savage, un inusuale cambio in La Minore e un assolo di melodica sul bridge ad opera dello stesso Jan.

Un inizio pigro ma straordinariamente erotico, come una mutandina dall’elastico lento. Le mani che si insinuano piano ma decise verso l’oggetto del desiderio, la voce che diventa un’implorazione oscena d’amore mentre le dita diventano smaniose di esplorare.

No Escape, a seguire, costituisce invece l’archetipo del suono dei Seeds.

Martellante, ipnotico, ossessivo, monotono e ripetitivo, sostenuto da una sessualità famelica e da una superficialità tutta punk (provate a concentrarvi sul battito del tutto approssimativo del cembalo e capirete cosa voglio dire). Meglio ancora fa Evil Hoodoo dove la ripetitività diventa opprimente fino al disgusto, con un breve riff fuzzato ripetuto per cinque minuti e quattordici secondi senza alcuna variazione, come fosse la premonizione di un incubo dei Suicide.

Tutto l’album persevera in questa persecuzione spasmodica, catartica dell’unico concetto fondante del suono dei Seeds: ipnotismo, reiterazione (musicale ma anche verbale, si faccia caso all’intercalare “night and day” sfruttato praticamente su tutti i pezzi, NdLYS), maniacale ricerca del piacere perverso, assecondamento della pulsione erotica attraverso una musica compulsiva e nevrotica che è antropologicamente legata al concetto meccanico/sessuale della masturbazione.

Tra riverberi di 13th Floor Elevators (Girl, I Want You) e Music Machine (It‘s a Hard Life) e, soprattutto, una perenne autocelebrazione di sé stessa (Pushin’ Too Hard è la copia di No Escape, Try to Understand un’accelerazione di Can‘t Seem to Make You Mine, Excuse Excuse una Evil Hoodoo tirata fuori dalla cripta) la musica dei Seeds si riversa sulle nostre gambe come una serie infinita di schizzi di sperma.

L’ammirazione fanatica di Sky Saxon per Mick Jagger e gli Stones raggiunge l’apice nella primavera/estate del 1966, dopo la pubblicazione di Aftermath, l’album con cui gli Stones prendono le distanze dal blues e dal rock ‘n’ roll basico lasciando filtrare una concezione più complessa e psichedelica della scrittura che poi verrà elaborata più compiutamente su Between the Buttons e Their Satanic Majesties Request

È quello il disco che Sky ascolta durante la realizzazione del secondo album dei Seeds, pubblicato a pochissima distanza dal primo per sfruttare il successo della loro Pushin’ Too Hard che nel frattempo ha raggiunto la TOP 40 spinta dalle rotazioni radiofoniche di alcune emittenti locali, prima fra tutte la KRKD di Los Angeles e del loro deejay Dick Hugg.

Se è innegabile l’influenza stonesiana in fase compositiva, in particolare su I Tell Myself e sulla lunghissima Up in Her Room scritta come risposta agli undici minuti di Goin’ Home, è tuttavia del tutto errato, capzioso e poco obiettivo liquidarlo come un disco/carta carbone perché, nei fatti, non lo è.

Da una diversa prospettiva potremmo infatti considerarlo, cosa che vale parzialmente anche per il primo, un album che anticipa le soluzioni acide doorsiane che domineranno l’immaginario del rock californiano da lì a poco.

L’enfasi a tratti quasi barocca delle tastiere di Daryl Hooper (si ascolti Mr. Farmer) e le sfuggenti chitarre scivolose di Jan Savage (ad esempio quelle di I Tell Myself o A Faded Picture, la cui melodia richiama alla mente la struggente Signed D.C. dei Love) è infatti (al pari del blues elettrico dei Blues Magoos con il cui Psychedelic Lollipop questo A Web of Sound rivela invece all’ascolto importanti analogie, NdLYS), ambasciatrice del sound dei Doors.

Allo stesso tempo, pur nei limiti angusti del concetto minimale cui le canzoni dei Seeds sono in qualche modo costrette, A Web of Sound rappresenta una buona evoluzione rispetto al disco d’esordio, soprattutto tenendo conto dei ristrettissimi tempi che lo separano da quello: appena sei mesi.

C’è il tentativo, in parte riuscito, di superare lo schematismo di Pushin’ Too Hard e di dare più respiro alla musica con l’aiuto fattivo di Hooper, Jan Savage (in termini creativi), Harvey Sharpe e Cooker Desrosiers dei Groupies (in termini squisitamente strumentali) e lo sforzo ambizioso e solo parzialmente fallito, di superare lo scoglio del minutaggio punk per allestire un melodramma acido che, sulla falsariga di Revelation dei Love e Goin’ Home dei Rolling Stones possa spingere il bottone dell’ elevatore psichedelico per portarlo ben oltre i piani alti del ricamo beat.

Up in Her Room, allusiva e onirica, non riesce tuttavia a liberarsi del tutto del limite espressivo dei Seeds di costruire brani su piccoli, reiterati, elementari fraseggi.

I suoi quindici minuti di palpeggiamenti erotici si risolvono in un interminabile preliminare sessuale senza tuttavia giungere mai all’orgasmo liberatorio.

Faranno molto meglio i Doors, l’anno successivo, con la loro apocalittica The End, dimostrando come i “semi” che erano stati piantati fossero in realtà quelli di una pianta carnivora.

 

Proprio mentre i Seeds seguono il missaggio del loro disco blues negli studi della Gold Star, Sky Saxon e compari cominciano le sedute di registrazione del loro terzo album (la pubblicazione di A Full Spoon of Seedy Blues sarà infatti posticipata per dare adeguato spazio promozionale al disco “flower power” della band, NdLYS).

Dal novembre del 1966 al maggio dell’anno successivo i Seeds sono dunque impegnati a scrivere quello che nei progetti è il loro disco più paranoico ed elaborato e che, a conti fatti, risulta il più irrisolto e trascurabile del lotto.

Il contratto che li lega al nuovo impresario Tim Hudson ha imposto un drastico ridimensionamento dell’immagine. Sartorie costose, boutique prestigiose, parrucchieri, truccatori, escort.

I Seeds diventano una macchina per attirare soldi e sgualdrine.

Cavalcare il fenomeno del flower-power e del rock acido è necessario per dare nuova credibilità a questi quattro punk che sanno scrivere un’unica canzone (e solo a quella in realtà credono, motivo per cui Sky si impunterà per pubblicare come estratto l’ennesima rivisitazione di Pushin’ Too Hard stavolta intitolata A Thousand Shadows, NdLYS) e Hudson lavora alacremente per propagandare i suoi pupilli come profeti della generazione dei fiori. In realtà di avveniristico, profetico o di semplicemente innovativo per indole e creatività Future non ha quasi nulla fatta eccezione per qualche elaborazione in studio che lo rende dinamicamente più efficace. Non basta tuttavia a scongiurare l’attacco narcolettico quando sfilano canzoni come Painted DollSix Dream, la straziante Fallin’ e l’interminabile parata di ninnoli indiani che piove come una sciagura su Travel with Your MindFuture si impantana in una psichedelia davvero poco credibile sul piano artistico e per nulla attraente su quello commerciale causando il tracollo del titolo Seeds e l’allontanamento del vecchio nocciolo dei fan, confuso e disorientato dalle mutazioni dei loro idoli (l’album blues uscirà appena un mese dopo, fomentando altra confusione). Quando l’anno successivo i Seeds pubblicheranno il bellissimo singolo Satisfy You/900 Million People Daily All Making Love le classifiche saranno orfane del loro nome.

Se i semi erano buoni, forse erano stati piantati nel terreno sbagliato.

Dopo il bagno dentro i pollini di Future, vede finalmente la luce A Full Spoon of Seedy Blues, il debole disco blues inciso dai Seeds assieme alla backing-band di Muddy Waters (che firma le originali note di copertina) ed accreditato, per non sconcertare i fans, alla Sky Saxon Blues Band. Un tuffo nel delta del Mississippi. O un salto nel buio. Dipende tutto da come ci si approccia ad un album che mostra un’anima completamente diversa da quella anticonformista dei Seeds. Nove pezzi blues, sei dei quali scritti da Saxon, il resto da Muddy e dai suoi uomini. Nove pezzi che scavalcano all’indietro il concetto moderno alla base della musica dei Seeds e tornano alle radici di tutto. Della musica, di Saxon, dei Seeds, di Dio, del Sabba.

 

 

Il disc jockey Humble Harve Miller, nascosto dietro i soliti occhiali neri, introduce la band a una folla oceanica accorsa al Merlin‘s Music Box di Orange County, quindi i Seeds prendono il loro posto sul palco e attaccano il loro set.

Le urla del pubblico arrivano a folate, travolgendo tutto e tutti.

Così si apre Raw & Alive, il documento “live” che ha il compito di riportare i Seeds da dove erano arrivati due anni prima.

Un entusiasmo che si riversa inarrestabile anche quando i Seeds decidono di mettere accanto ai grandi classici del repertorio qualche nuova canzone come la lunga e bellissima 900 Million People Daily All Making Love o la sperimentale Night Time Girl costruita attorno al suono dell’ultrararo Vox V251, una chitarra/organo costruita in poche decine di esemplari.

Sky grugnisce mentre la band incalza tornando dopo le sfortunate spedizioni nel flower-power e nel blues al belligerante beat psicotico degli esordi, davanti al pubblico in delirio che improvvisa un’orgia dionisiaca in onore dei loro idoli.

Peccato che sia tutto finto.

In realtà i Seeds sono chiusi agli United-Western Studios di Los Angeles e il pubblico, quello che rasenta l’isteria durante lo spettacolo, in realtà si sta strappando i capelli per i Beach Boys, a Santa Barbara.

Anche le foto che corredano il disco, su cui campeggia uno Sky Saxon vestito come Lawrence D’Arabia, risalgono a molto prima. A quando la Seedsmania folleggiava per i club della California. In realtà, dopo Future e A Spoon Full of Seedy Blues, i Seeds non se li fila più quasi nessuno. Quella del disco dal vivo è l’ultima carta che resta da giocare a Gene Norman per salvare i Seeds dall’oblio.

Li porta in studio nel febbraio del ’68 dapprima con una audience scelta tra gli estimatori di lunga data poi, scontenti del risultato finale, da soli, nell’aprile dello stesso anno. Una volta “truccato”, il risultato viene messo in commercio il mese successivo, infilato in una bellissima copertina che promette nuovamente dei Seeds selvaggi e vivi.

E in realtà, così è. Il suono dei Seeds di Raw & Alive, registrato in presa diretta con la band che suona in studio guardandosi in faccia, è quello dei Seeds migliori, ancora capaci di tirare fuori un singolo strepitoso come Satisfy You/900 Million People Daily ma incapaci di gestire l’egemonia di Saxon che ne causerà il collasso da lì a breve.   

Tra il gennaio del 1969 e il dicembre dell’anno successivo, tutto ciò che i Seeds regalano al loro pubblico, tra un cambio di line-up e un altro, sono tre singoli. Tutti bellissimi.

Poi i semi si tacciono. Non definitivamente, che Saxon proverà di tanto in tanto a rimettere assieme sementi e canzoni rispolverando la vecchia sigla con risultati talvolta eccellenti (Red Planet del 2004), talvolta molto meno (Back to the Garden del 2008).

Quindi, nel 2009, anche Saxon tace.

Stavolta per sempre.

E sale al cielo, rendendo onore al suo nome.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

LOVE – Signed A. Lee

1

Los Angeles.

Al 4320 di Cedarhurst Cicle sorge una villa in stile coloniale costruita nel 1930.

Il suo valore attuale è di nove milioni di Euro.

Se avete i soldi, compratela.

Altrimenti, potete affittarla.

Come ha fatto una ventina di anni fa Johnny Depp e come fece cinquant’anni fa Arthur Lee per farci il quartier generale dei Love, il suo “Castello”.

Cosa succeda là dentro fra groupies e droghe è facile immaginarlo.

Arthur va spesso a letto con una ragazza e si sveglia con a fianco un’altra. Nuda e sfatta come quella della sera prima.

Gli altri non sono da meno.

Ma la star del Sunset Strip è Lee. Gli altri ne traggono profitto in quanto suoi musicisti. Ha dato al suo gruppo il nome dell’amore, ma la sua è un’attitudine da gangster e da despota. Del resto, come avrà modo di dire: “se sei solo un chitarrista ritmico non puoi dirmi cosa dovrei aggiungere o togliere da una mia canzone. Devi limitarti a fare quello che sai fare: suonare la chitarra ritmica e stare zitto”.

Se si prescinde da Jimi Hendrix, che in ogni caso fu più una faccenda inglese, Arthur Lee è l’unico protagonista di colore della psichedelica americana.

Non solo quello della sua pelle, ovviamente.

Perché di colori fu piena la musica dei Love, sin dal loro esordio sulle scene nell’aprile del 1965, quando in formazione ci sono ancora Johnny Fleckenstein (che poi finirà negli Standells) e Don Conka e girano ancora col nome di Grass Root, prima che il successo dell’omonima band di Phil Sloan e Steve Barri li obbligasse a cambiare nome.

Per l’incisione del loro omonimo album di debutto, l’anno successivo, saranno rimpiazzati da Ken Forssi e Alban Pfisterer e al quartetto iniziale si sarà aggiunto il biondo Bryan MacLean appena reduce da una deludente audizione per entrare nel giro dei Monkees. L’apporto di Bryan si rivelerà invece importantissimo per i Love, portando gemme come Orange Skies, Alone Again Or, Old Man.

Per il primo disco MacLean scrive Softly to Me e, assieme ai compagni, le due tracce conclusive Mushroom Clouds e And More, perfettamente incastrate con la scrittura di Arthur Lee e splendidamente adeguate al timbro dolente della sua voce, tratto peculiare della band di Los Angeles. Se infatti l’album ravvisa parecchie somiglianze con il folk-rock dei Byrds, è il canto singhiozzante di Lee (A Message to Pretty, Gazing, Signed D.C., Coloured Balls Falling) e il basso incalzante di Ken Forssi (My Little Red Book, Hey Joe, My Flash on You, You’ll Be Following) a caratterizzare il suono dei primi Love. È un’idea d’amore che è diversa da quella universale che i profeti della Summer of Love cercheranno di esportare. È qualcosa di più intimo e doloroso. Qualcosa che ha a che fare con una trappola, più che con una liberazione. Con i ricordi (le immagini di Don Conka e Johnny Fleckenstein ricorrono ossessive come spettri su Signed D.C. e You’ll Be Following) più che con i progetti. Con la voglia di autonomia e libertà privata (“Non voglio far parte della tua comitiva, non ho bisogno che tu ti occupi di me, lasciami solo perché tutto quello che voglio in questo mondo è essere un uomo orgogliosamente libero” urla su quel prototipo di punk che è My Flash on You e ancora “Non mi serve che tu mi aiuti a trovare la mia strada, posso farcela da solo, senza dover sopportare la tua faccia” rincara amaro su A Message to Pretty)

È un amore che non salva ma che opprime.

E che li tiene fuori dal mercato musicale che conta.

Quello dei grandi happenings, delle grandi masse adoranti, dei festival dove Pace, Amore e Libertà vengono venduti assieme al kebab e ai panetti di hashish.

Amore & Psych.

Da Capo, il secondo disco dei Love, viene registrato durante quei giorni al “Castello”. Sono giorni folli e fecondi. Per rappresentarli Arthur Lee decide di mettere su una piccola orchestra, aggiungendo flauti, sassofoni, tabla e clavicembali e regalando il più lungo viaggio psichedelico fino a quel momento tentato su disco: diciotto minuti di fraseggi blues e sincopi jazz che pur nella familiarità del paesaggio proposto, rappresenta un audace ma fallito tentativo di organizzare un viaggio metafisico, un po’ come faranno contemporaneamente i Doors, i Seeds, le Mothers of Invention, gli Stones o Le Stelle di Mario Schifano.

Il meglio sta sull’ondivaga e umorale altra facciata del disco, quelli in cui i Love dipingono cieli d’arancio. E poi fanno piovere da quei cieli una bomba atomica come 7 and 7 Is.

Perché “se non sarà l’amore, sarà la bomba a tenerci uniti”.

They’re locking them up today

They’re throwing away the key

I wonder who it’ll be tomorrow, you or me?

We’re all normal and we want our freedom

Freedom… freedom… freedom… freedom.

Come in una macchina del tempo Arthur Lee racconta della sua prigionia con trent’anni di anticipo.

In realtà non è così, perché nel 1967, anno di uscita di Forever Changes, i Love non parlano d’altro se non della libertà ideologica della loro generazione, quella che sogna di poter cambiare il mondo avvolgendolo in una bolla d’amore universale e quando scrive The Red Telephone, più che dal carcere è ossessionato dall’idea della morte.

Forse è per questo timore che Forever Changes risulta così ambizioso: Lee vuole combinare assieme il folk e il rock acido e coprire tutto con una patina di leziosità cameristica che ha assorbito dagli ascolti di Burt Bacharach.

Vuole creare un nuovo standard di classicità pop che sacrifichi certi furiosi attacchi punk dei primi album ed esalti invece il lato più onirico e melanconico dei Love con una maestosità spesso invadente e volutamente eccessiva (le trombe mariachi che soffocano Alone Again Or, l’atmosfera autunnale e parigina dei violini che inondano Old Man, le trombe sudamericane di Maybe the People Would Be the Times or Between Clark and Hilldale, le partiture orchestrali di The Red Telephone, il finale trionfale di The Good Humor Man He Sees Everything Like This, il tono da Nabucco del crescendo di You Set the Scene). Tutto splendido e immaginifico.

Le perle del disco rimangono tuttavia gli episodi dove questa tendenza all’eccessivo viene invasa dall’acido che esce fuori dai rubinetti della chitarra di MacLean come A House Is Not a Motel devastata da un finale hendrixiano o Live and Let Live o laddove viene preservato il gusto per una musica sofficemente lambita dai richiami alla tradizione folk e country (la troppo spesso dimenticata Bummer in the Summer, la fragilità estatica di Andmoreagain, la stramba The Daily Planet che sembra scivolata fuori dallo scatolone folle di A Quick One dei Who). Forever Changes pur nella sua ambizione inesplosa rimane uno dei vertici della storia della musica americana, polvere pirica infilata sotto il prato verde del folk/rock, pioggia acida sopra i campi di cotone degli Stati Uniti d’America.

Un disco assurdamente bello Four Sail dei Love, ricompattati con line-up totalmente rinnovata da un Arthur Lee che ha un contratto con la Elektra da rispettare e un bisogno creativo da soddisfare. Non necessariamente in questo ordine. Una band con i controcazzi, val la pena dirlo. In grado di assecondare le smanie del leader, fosse anche quella di praticargli una fellatio mentre accende la sua chitarra degli stessi lampi della Fender di Hendrix.

Un gigantesco teapot da cui la scrittura sempre più smaliziata di Lee sgorga in mille rigagnoli difformi e straripanti. Jazz, bossanova, fusion, folk, acid-rock, psichedelia, hard-rock si rincorrono alternando vertigini allucinatorie a sogni rassicuranti in una giostra musicale capricciosa ed esaltante. In roba come August, I’m With You, Always See Your Face, Good Times e Singing Cowboy Arthur Lee si conferma non solo come il detentore di un folk-rock barocco e mai dimesso, di un ambrato quasi tropicale ma anche come uno dei musicisti più talentuosi e visionari della sua epoca, nonostante sia stato messo “in svendita” dalla sua etichetta.

Curioso che la traccia più lineare e solare del disco, sorta di incrocio fra i Beatles e i Lovin’ Spoonful, sia quella dedicata al loro roadie Neil Rappaport, morto per overdose durante il tour di Forever Changes e che a confronto con la vecchia Signed D.C. qui non traspaia nessuno sconforto, nessuno strazio ma solo l’ombra nostalgica di un passato che sfaldandosi comincia a mostrare il suo volto peggiore.

Four Sail è la fine dei Love, in qualche modo.

Tutto quanto verrà prodotto successivamente, nonostante il grandissimo valore, subirà la chiusura di ogni canale commerciale, dalla posizione sugli scaffali nei record store ai passaggi in radio totalmente inesistenti, finendo per bruciare il sogno di gloria di uno dei più grandi artisti neri che mai abbiano avuto a che fare col rock.

Quando si presenta alla firma del contratto con la Blue Thumb Arthur Lee porta una cornucopia di canzoni, nonostante fossero passate poche settimane dalla pubblicazione di Four Sail. Il materiale è talmente tanto che l’etichetta decide per un album doppio, probabilmente senza neppure ascoltare attentamente. L’avessero fatto si sarebbero accorti che quello che stavano per pubblicare era un disco dispersivo e scollato. Un disco che cerca di raccogliere la sfida del blues-rock pirotecnico di quegli anni (basti pensare allo straripante e noioso solo di batteria di Doggone che pesta ben altro che le pelli per più di otto minuti o alle mostruose divagazioni chitarristiche di Love Is More Than Words or Better Late Than Never, NdLYS) ma che si porta anche il fardello di musiche vecchie e stantie come il country-rock, l’R&B e addirittura il gospel e il doo-wop senza curarsi di omogeneizzare le due (e più) anime. Ma è forse anche vera un’altra ipotesi, ovvero che Bob Krasnow e Tommy LiPuma, le menti dietro la Blue Thumb, i provini li avessero ascoltati eccome. E che li avessero trovati in sintonia con un catalogo ancora minuscolo ma che aveva già stampato dischi come Stricly Personal di Capt. Beefheart, Political Pornography dei Credibility Gap o l’esordio della Aynsley Dunbar Retaliation. Dischi dove la sottigliezza estetica, come nel caso del nuovo corso dei Love, non è contemplata. Dischi, ancora una volta come questo Out Here, sfibranti. Come un viaggiatore nel deserto Arthur Lee sembra correre dietro cento miraggi diversi, perdere il fiato, cercare di tornare da dov’era partito e poi smarrirsi di nuovo. Lo fa forse consapevolmente, ma lo fa. E noi facciamo fatica a stare al suo passo e a suggerirgli che forse quel che sta inseguendo è qualcosa che alla fine lo sfiancherà.

Per il secondo album su Blue Thumb Arthur Lee tenta il colpaccio, invitando agli Olympic Studios dove sta registrando False Start il suo amico Jimi Hendrix.

Arthur e Jimi si sono conosciuti cinque anni prima, quando entrambi sono ancora dei signor nessuno che girovagano per Los Angeles: il primo è uno stanziale che sbarca il lunario scrivendo canzoni, il secondo sta girando l’America assieme a Little Richard quando viene invitato a prestare i suoi servigi su un singolo di una piccola stella locale chiamata Rosa Lee. Uno dei due pezzi è scritto da un tale Arthur Lee, che si trova in studio per assistere alla registrazione e per prenderne parte come corista proprio quando Hendrix varca la soglia. L’amicizia tra i due è immediata e continuerà anche quando entrambi diventeranno delle stelle di prima grandezza e un intero oceano li separerà. La collaborazione fattiva si realizza però solo nel 1970, proprio col pezzo scelto come apertura di False Start dove la chitarra di Jimi disegna gli svagati arabeschi che sono caratteristici del suo stile e che sono anche uno dei marchi di fabbrica del nuovo stile di Arthur Lee e dei suoi Love. L’album è meno prolisso del suo predecessore e rappresenta una sorta di tributo all’Era dall’Acquario, con la sua versatile e forse un po’ forzata scelta di apparire colorato ed ottimista ad ogni costo (Gimi a Little Break, Anytime, Keep on Shining, Love Is Coming, Feel Daddy Feel Good, Flying), impregnandosi di umori caraibici e di soul psichedelico alla stregua di quello della Family di Sly Stone.

Imperfetto come le imperfezioni che caratterizzano le belle donne rendendole fascinose ed uniche ed osteggiato dalla critica che invece vuole le donne solo mansueti animali da copertina, False Start è invece disco che quando passa merita ben più di un furtivo sguardo al fondoschiena.

L’ultimo atto d’”amore” dei Love è una vertigine funky/soul come mai avremmo potuto immaginare ai tempi di Forever Changes, che pur di cambiamenti era foriero. Un disco da aggiungere alla collezione di Otis Redding o degli Ohio Players, con fiati gonfi come zampogne e ritmi grassi come lardo di maiale.

Reel to Real è il tentativo estremo di rientrare in un mercato che non ha dato ad Arthur Lee, musicista ed autore dal talento inimmaginabile, quanto avrebbe meritato. Ma è anche un disco con una dignità che spesso gli è stata negata dai libri di storia. Magari, se proprio siete allergici alla propulsione dei fiati black, arpionate l’album spostando la puntina sulla seconda facciata del disco: You Said You Would e Busted Feet proiettano il suono dei Love vicino a quelle galassie che Hendrix sognava di esplorare una volta rinchiuso il baule psichedelico. Sono due pezzi carnali e sensualissimi che esplodono in una incontrollata colata di chitarre prima di lasciare spazio alla bella, acustica e altrettanto liberatoria Everybody’s Gotta Live.

Ma prima, per almeno tutta la prima facciata, Arthur Lee ci obbliga ad infilare le dita in un vasetto di miele funk. With a Little Energy, Good Old Fashion Dream, Who Are You?, Time Is Like a River sono come i sogni bagnati ed osceni di Tina Turner e del marito Ike. O del marito Ike con le Ikettes, se preferite fare le cose con tanta gente.

Siamo davvero a molte miglia dalle malinconie folk-rock dei primi due album, alla deriva in balia delle onde sussultorie del groove più lascivo degli anni Settanta. Reel to Real è decisamente, consapevolmente figlio di un altro decennio, di un’altra epoca, di altri Love, di un altro sogno d’amore, stavolta più fisico che simbiotico. Se voi siete rimasti seppelliti sotto le macerie di Da Capo o Love, non è un problema di Mr. Lee.

Il disco che avrebbe dovuto rilanciare il nome di Arthur Lee e dei Love dopo la “falsa partenza” di False Start e che invece a causa dell’improvvisa bancarotta dell’etichetta cui era stato affidato il master rimarrà a lungo il Sacro Graal della band californiana verrà pubblicato solo moltissimo tempo dopo, cinque anni dopo la morte di Arthur Lee.

Black Beauty dunque.

Orgogliosamente nero nel titolo e nella line-up che Arthur ha messo in piedi dopo essere stato per anni alla guida di un gruppo multirazziale. Se qualcuno ci vede dei paragoni con la storia di Hendrix, sappia che non sono gli unici, visto che dopo le vertigini folk-rock dei primi anni è proprio ai lampi hard-blues del mancino di Seattle (che aveva collaborato proprio con i Love di False Start) che Lee guarda, diventandone in qualche modo erede, dando alle fiamme sul palco non la sua sei corde ma la sua parrucca. La morte dell’amico non farà che accelerare questa sorta di processo di trasmutazione dell’uno nell’altro.

Un pezzo come Midnight Sun, la sua progressione armonica, la timbrica dei fraseggi (che sono comunque opera quasi esclusiva di Melvan Whittington) e l’approccio vocale di Lee sono indizi sin troppo evidenti.

Il lavoro di rimasterizzazione degli acetati operato dalla High Noon di J.D. Martignon che ne pubblicherà per prima in veste ufficiale il contenuto è, rispetto alle versioni bootleg che per anni sono circolate clandestinamente, MOSTRUOSO e riporta Black Beauty alla sua purezza originaria, facendone deflagrare la bellezza nera, nerissima.

All’interno di questa torcia di orgoglio nero in cui Arthur Lee non manca di fare denuncia politica e sociale citando Malcolm X (Young & Able) o denunciando i modi non proprio super-partes della Polizia di Los Angeles (Lonely Pigs) fa specie sentire una cosa leggera come il calypso di Beep Beep, autentico dissipatore di energia ficcato nel cuore del disco. Ma Arthur Lee amava essere imprevedibile. E così è stato fino alla fine.

Le bonus aggiunte per l’occasione sono tre tracce “rubate” (lo capirete ascoltando la resa audio) ad un concerto scozzese del maggio ’74, una intervista realizzata da Steven Rosen di Rolling Stone (se non masticate bene l’inglese potete leggerla qui: https://www.loudersound.com/features/interview-love-s-arthur-lee), una L.A. Blues registrata insieme ai Ventilator di Matt Devine poco prima di essere arrestato con una condanna a sei anni per possesso illegale di armi (in realtà la prima condanna ne prevedeva dodici, ma deduco che se state leggendo queste righe perché amate Arhur e i Love sappiate come sia andata la vicenda, NdLYS) e la Thomasine & Bushrod scritta per l’omonimo film cult, trasposizione in chiave western della blaxploitation che sta dilagando nelle sale in quegli anni.  

Una pioggia d’amore. Una pioggia elettrica d’amore.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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