THE ROAD RUNNERS – Judgement Day (Dangerhouse Skylab)

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Non incisero molto, i Road Runners, nei loro cinque anni di vita. E quel poco che incisero, rimane ancora oggi nel cuore di pochi appassionati.

Siamo nella Svezia a cavallo fra i due secoli e i Road Runners suonano come un gruppo di vecchi beatnik inglesi invasati per l’R ‘n B. Come i Pretty Things, per intenderci. O come, prima di loro da quelle parti, come gli Highspeed V. Della vecchia gloriosa scena neo-sixties svedese non resta nulla e l’unico derby che si può giocare è quello con gli Strollers. Che potete immaginare come uno scontro fra i Crawdaddys e i Miracle Workers, all’incirca.

L’arsenale è quello tipico delle band di maximum R ‘n B bianco, armonica a bocca e maracas comprese e il materiale, nonostante sembri registrato nel 1965, è autoctono, bruciante, ispido, fanatico. Aggiungete voi qualche aggettivo a vostro piacimento ma non toglietevi il piacere di ascoltare ora, per intero e con due inediti strepitosi, tutto quello che i Road Runners ebbero da dire prima di disperdersi fra le fila dei Maharajas, degli Spiders, dei Dead Man e degli Strollers medesimi.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE AFGHAN WHIGS – How Do You Burn? (Royal Cream)

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Lo spacchetti, lo metti sul piatto e ti sembra di ascoltare i Queens of the Stone Age. Il nuovo degli Afghan Whigs si apre così, nel segno di Mefisto. O di Huggy Wuggy, fate voi.

Subito dopo però The Getaway ti circuisce sfoggiando un tappeto di violini che manco gli XTC di Grass e imprigionandoti in una boccia di vetro come le mosche degli Alice in Chains di Jar of Flies.

Una carezza come per fare pace.

Come chi ha qualcosa da farsi perdonare.

E forse qualcosa da farsi perdonare gli Afghan Whigs di How Do You Burn? ce l’hanno veramente, siccome quella propensione per il sontuoso già manifestata in precedenza qui arriva a lambire gli U2 di The Unforgettable Fire (A Life of Shots) quando non addirittura i Coldplay. Che non sono il male assoluto ma che a molti stanno sui coglioni e dunque, per onestà intellettuale dovrebbero far sputare veleno ai fans di Greg Dulli ma che più verosimilmente il pubblico (e la critica che continua a sentirci dentro della soul music, figuratevi un po’, NdLYS) gli perdonerà, cercando quanto di buono c’è sul disco. Che non è tantissimo ma che c’è sempre, negli album degli Afghan Whigs. Ogni volta sempre meno, a dimostrazione che anche loro sono ossidabili, ma c’è.

Io ne ho trovate solo due, una a forma di valzer, un’altra a forma di hoedown. Entrambe maestose e divorate da qualche demone interiore. Il resto lo lascio a chi ha l’applauso facile.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PASTELS – ‘Up for a Beat with The Pastels’ (Glass)

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Ai Pastels, quattro ragazzini di Glasgow, piaceva scendere in strada col motorino, accelerare, lasciarsi spogliare dal vento e poi rallentare per essere sorpassati.

Così, nelle numerose scorribande che dal 1981 al 1987 vengono ancora ricordate dalla cronaca locale (ma anche, vedi il caso clamoroso passato alla storia come l’episodio del Truck Train Tractor, da quella nazionale, NdLYS), i Pastels vennero sorpassati da tutti. Bobby Gillespie addirittura quasi due volte, prima con i Jesus and Mary Chain e poi con i Primal Scream: Up for a Bit with The Pastels, l’atteso taglio del traguardo della motoretta strombazzante dei Pastels uscì quando mediamente una indie-band è già sull’orlo del collasso.

Sei anni di attesa che vennero ripagati con un disco tutto sommato ordinario, evitando il capolavoro come si fa con un ostacolo, per il gusto di far ancora rimbalzare il culo sulla sella alla prossima buca. Non che mancassero canzoni sofficemente divine (Up for a Bit, Baby Honey, il passo abbioccato di Hitchin’ (a Ride), Automatically Yours con le sue campanelline spectoriane) ma la sensazione era quella che vi dicevo all’inizio: i Pastels erano arrivati in ritardo all’appuntamento con un pubblico che fino a due/tre anni prima si sarebbe genuflesso ai loro piedi, come certi studenti svogliati però brillanti che amano sciupare il tempo ed assecondare un’idea del tempo che è in asincrono con quello del resto del mondo, rimandando gli impegni a quel tempo infinito che è la post-adolescenza. Eppure, ancora oggi quel disco da “età adulta” resta a vessillo della musica da adolescenti, dell’indie-pop che prendeva sculacciate dalla mamma e per uno scatto d’orgoglio le rispondeva che gli aveva fatto una carezza.

La carezza dei Pastels.  

   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE HUMAN BEINZ – Nobody but Me (Capitol)

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Prima erano state solo covers.

Dopo, fondamentalmente, pure.

Però, che figata le cose suonate dagli Human Bein(g)z, progenitori di quella folle schiera di band dell’Ohio e dediti ad un garage rock imperlato di psichedelia, soffice hard rock e soul music. La cover più famosa era, e sarà per sempre, Nobody but Me, l’ennesima canzone degli Isley Brothers che, come Shout! prima di lei, verrà trasformata nello standard beat che poi avrebbe mantenuto per sempre e legato indissolubilmente il nome, già storpiato, della band a quel successo.

Gli originali della band sono in maggior parte scritti dal produttore Alexis De Azevedo e a parte un solo caso non brillano certo per grinta e sfruttano quasi sempre il canovaccio della ballata. Il meglio sta dunque chiuso nella prima facciata del disco, nelle deliziose cover di Nobody but Me, Foxey Lady, Turn On Your Love Light, nella bubblegum da party di Dance on Through e nel sinistro giro alla Cream di The Shaman. Il resto, con rammarico per il siparietto alla Beach Boys di It’s Fun to Be Clean, è roba trascurabile, tanto che la band va presto ad ingrassare le fila delle one-hit wonders. Che in realtà avrebbero potuto essere almeno un paio, come per altre formazioni del medesimo rango. E invece no.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE ADVERTS – Cast of Thousands (RCA)

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Gli Adverts avevano gli occhi tristi.

Li fasciavano con una linea di rimmel, per farli sembrare più luminosi.

E così, finivano per sembrare dei Pierrot.

Quando la RCA li mette in posa per lo scatto di copertina del loro secondo album dice loro di fissare un punto indefinito, lontano, distante. Immaginando di guardare una stella, un pianeta, un corpo celeste. E invece loro hanno ancora gli sguardi inchiodati alle iridi di ghiaccio di Gary Gilmore.  

Cheeeeese. Ma nessuno dei cinque sorride.

E T V Smith si gira verso il fotografo con uno sguardo severo che si imprime sul negativo per sempre più o meno nello stesso momento in cui sul panetto di vinile viene impresso Cast of Thousands, il disco che li vede prendere il volo dal punk per planare sul nido del cuculo realizzando un lavoro che non piacque a nessuno e che invece a me suona come bello e disperato come le poesie di Verlaine e Cortázar. Canzoni senza padri putativi, avvolte nei pastrani invece che nei giubbotti di pelle che la band si ostina ad indossare. Canzoni ripudiate da Dio e dal Diavolo. Canzoni che sono stracci su cui inciampare nel tentativo di correre lontano da casa, rendendo goffa la corsa verso l’età adulta. Canzoni che sembrano affogare nella placenta che le ha generate.

Voi avete mai raccolto quello che pensavate di meritare? Gli Adverts no.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MAGAZINE – The Correct Use of Soap (Virgin)

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La severa produzione di Martin Hannett “rimette in riga” i Magazine sottoponendoli ad una disciplina artistica di cui sarebbe stato orgoglioso per anni ritenendo quello fatto per The Correct Use of Soap il suo miglior lavoro di produzione di sempre. Non ne sono certo ma sicuramente il terzo album dei Magazine è il migliore della loro intera discografia.

Per spiegare meglio ai ragazzi cosa intende fare con la loro musica, quale taglio austero vuole darle, si siede al mixer ed elabora la vecchia The Light Pours Out of Me rendendola un blocco di granito simile a quelli dei Joy Division. L’obiettivo di Hannett non è tanto quello di fare dei Magazine degli epigoni dell’altra band di Manchester: sa che Howard Devoto ha una storia (del resto è stato lui stesso a produrre il primo singolo dei Buzzcocks) e che a quella devono, ENTRAMBI, portare rispetto. La sfida è spurgare il suono dalle pesanti schiume prog che hanno decretato il flop del disco precedente e ricondurlo ad una dottrina new-wave bidimensionale risucchiando l’aria in eccesso, lasciando che ogni suono mostri le sue spine, le sue punte, le sue guglie anche quando cerca di tentare rifugio nella musica black (e qui succede in diverse occasioni) ricalibrando l’insieme in modo da farlo apparire non il suo corpo funky ma il suo spettro, il suo Wayang Kulit, trasformandola da musica da ballo in vezzo intellettuale.

The Correct Use of Soap ripulisce il gruppo di Devoto dalla ruggine.  

I Magazine imparano finalmente ad usare il sapone.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SIMPLE MIИDS – Empiяes and Daиce (Zoom)

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Se scomponete Empiяes and Daиce nelle sue parti essenziali, scoprirete che il suo corpo è fatto di piccole microstrutture tenute assieme da una sutura elettronica che forma il tessuto connettivo di quello che è il primo disco essenziale dei Simple Minds, quello che definisce lo stile che verrà poi elaborato nei dischi chiave della band scozzese e che si disfa delle ultime zavorre prog per legittimarsi come album iconico della new-wave, divampando di tutte le livide fiamme del post-punk.

Quello di abbandonare le sovrastrutture verbose dei primi due dischi in favore di un’essenzialità e di una ripetitività che si coordina con il kraut-rock (Twist/Run/Repulsion) rielaborandolo in chiave dance (I Travel) o in una cupa deriva dark (This Fear of Gods) è un ribaltamento di prospettiva rifondante che crea lo scarto necessario per abbandonare i fardelli che ancora tengono il gruppo legato agli anni Settanta e per proiettarlo nel futuro.

I Simple Minds sembrano finalmente un gruppo moderno e in grado di affrontare il nuovo decennio.

Gli stadi sono ancora oltre l’orizzonte ma le piste da ballo delle discoteche alternative sono già state conquistate.      

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE HYDROMATICS – Parts Unknown (White Jazz)

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Scott Morgan, Tony Slug, Nicke Andersson, Theo Brouwer con in mano le macchinine a frizione della Sonic’s Rendezvous Band e degli MC5. Che sgommano e fanno fumo davvero, come nei film d’azione. E anche quando non sono automobiline prestate (come in quel capolavoro alla Dark Carnival che è Calling LWA), potete immaginare la polvere che sollevano, quando non addirittura le pietre.

Parts Unknown è un disco di rawk ‘n roll furioso e compatto, dentro cui le energie di ognuno non vengono lesinate e ogni singolo accordo, ogni singolo colpo di tamburo concorre a creare un assordante e corroborante rumore di pattume r ‘n’ r.

A cinquant’anni suonati, Scott Morgan ve le suona davvero e vi sputa in faccia dall’inferno.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CHELSEA – Chelsea (Step-Forward)

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Nel 1979 i Chelsea sono ancora in cerca di lavoro. Anzi no, perché dopo Right to Work qualche lavoro saltuario lo avevano pure trovato, qualcuno addirittura nel mondo del cinema. Del resto fra quel bellissimo singolo e l’album di debutto sarebbero passati due anni pieni, tanto che della line-up originale erano rimasti solo Gene October e James Stevenson a tirare le fila dei Chelsea e a vedersi costretti ad assistere al sorpasso degli ex compagni, riorganizzatisi in tempi record e già fuori con il loro disco a nome Generation X.

Rispetto a loro, i Chelsea mantenevano un suono più stradaiolo e qualche eco clashiana, tenendo fede a quel nome che ne era un involontario anagramma spurio. La vetta di Right to Work, uno dei più bei pezzi di tutto il punk inglese, resta inviolata e ottime canzoni come I’m on Fire, Free the Fighters, Fools and Soldiers, All the Downs, Twelve Men pagano il pegno di soluzioni già abusate tanto che alla fatta dei conti sono la crepuscolare invettiva di Government con il suo tappeto di tastiere e il suo canto velenoso e singhiozzante e l’”ordinaria” ballata di Many Rivers trafugata dalla valigia di Jimmy Cliff durante il lungo soggiorno londinese del cantante giamaicano a distinguersi dal resto del repertorio. Che a quel punto è “ordinario” punk inglese. E che tuttavia è ancora capace di brillare come una bomba-carta.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

HOLE – Pretty on the Inside (Caroline)

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Urlato dalla prima all’ultima nota, Pretty on the Inside è l’album di debutto di Courtney Love e dei suoi Hole, versione californiana ed impura del rock già impuro dei Sonic Youth, con la Kim Gordon impegnata al servizio di colei che presto sarebbe diventata la reginetta del grunge, senza mai essere grunge.

Courtney Love spinge le corde vocali fino all’esasperazione, con una collerica fame che il gruppo fatica ad assecondare e noi a placare. Sarà in primis questo atteggiamento sguaiato a fare degli Hole un’attrazione e a calamitare l’attenzione del pubblico e dei media cui la Love promette pruriginose delizie. Che arriveranno.

L’idea di base è rubare se non la maternità del foxcore almeno la popolarità all’ex-amica Kat Bjelland giocando sullo stesso campo d’azione delle sue Babes in Toyland ma offrendone una versione ancora più spietata, sfatta e disperata, oltre che velenosamente glamour come solo in California è possibile fare. Il sound è una abrasiva commistione del glam ferroso dei primi Bauhaus e i canali di spurgo del noise-rock americano di marca Sonic Youth e tutto suona come provaste a tirar via la merda dal culo con la spugnetta d’acciaio che usate per rimuovere la ruggine dal pentolame. Con tutte le urla e bestemmie che l’atto comporta.

Pretty on the Inside è l’Histoire d’O della città degli angeli.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro