THE CLASH – Rat Patrol from Fort Bragg

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Dopo i pasti abbondanti di London Calling e Sandinista! i Clash non sono ancora sazi. Quando è il momento di mettere mano a quello che diventerà l’ultimo album dei Clash “storici” decidono che sarà ancora un album doppio.

I Clash sono, in quel momento, una balena dalla bocca gigantesca che ingoia qualunque cosa. Musica sudamericana, rock ‘n’ roll, jazz, musica western, rap, swing, reggae, punk-rock, dub, garage, calypso, bluegrass, protest-songs, funky, disco-music. Una babele che permette loro di poter dire qualunque cosa, e sempre in forme diverse.

Già da qualche anno non sono più una punk-band ma un’intera orchestra, sono i Beatles dentro gli Abbey Road, sono Phil Spector dentro i Gold Star Studios.

A metterci le mani c’è lo stesso Mick Jones.

Ma i rapporti tra Joe e Mick non sono più quelli di cinque anni prima.

Joe storce il naso un po’ troppo quando si parla del vecchio amico. Si dichiarerà insoddisfatto del suo lavoro al mixer, prima di cacciarlo fuori dalla band a lavoro ultimato. Alla produzione viene chiamato Glyn Johns, una porzione del disco viene definitivamente cestinata, un’altra fetta viene ristrutturata, un’altra costituirà l’ossatura di quello che invece diventa un album singolo con il titolo di Combat Rock.

Un disco che è sempre stato offuscato da quello che c’è stato prima. Come quando stai per troppo tempo affacciato al balcone, arrendevole alla luce e al calore di un sole troppo bello per starsene da solo e poi rientri repentinamente. Gli occhi faticano a riadattarsi e quello che ti salva da quell’improvvisa muta tenebrosa è la familiarità col posto, con l’ambiente. Riesci ad evitare abilmente il salotto e il tavolo, probabilmente inciamperai in una sedia riposta malamente. Difficilmente sbatterai il grugno su qualche porta.

Combat Rock è invece un disco bello, irrequieto, anche se la sua seconda parte lascia trapelare uno spirito ammansito, come di un leone che dopo la sua battuta di caccia torna a godersi il torpore. Perché i Clash a quel punto possono nutrirsi di tutto e questo, se da un lato incute rispetto e timore, è una consapevolezza che ne ha ormai attutito l’effetto-sorpresa. Possono ancora sprofondarci le zanne al collo, ma ora abbiamo l’accortezza di saperne stare alla larga.

Loro sono sempre i Re della foresta. Ma noi sappiamo essere cauti.  

È il prezzo da pagare per essere ammessi alla “classicità” del rock-system, per avere le loro figurine sull’album delle stelle del rock.

Ma Rat Patrol, la minaccia di aborto che lo precede, è molto più bello.

Ha lo stesso carico di merci buttate un po’ alla rinfusa che stava sul TIR di Sandinista! ma qui è tutto stipato in un furgone.

The Beautiful People Are Ugly Too è un pezzone pieno di groove nero, con le voci di Joe e Mick in perfetta sintonia su un tappeto di percussioni sudamericane. Verrà escluso dal disco e sostituito con le epilessie di Overpowered By Funk.

Kill Time è uno degli altri esclusi dalla versione definitiva. Un reggae solare e proletario, come quelli che Strummer riprenderà molti anni dopo con i Mescaleros.

Il primo pezzo conosciuto è Should I Stay or Should I Go, ovvero il pezzo più minchione mai inciso dai Clash, con quell’orribile riff rubato a Farmer John.

Ma la sua versione originale, che è quella racchiusa qui dentro, gli da una dignità nuova, pur mantenendone la forma. I versi in spagnolo (quelli cantati da Strummer, NdLYS) hanno un’esuberanza che la versione di Combat Rock sacrificherà e l’assolo di trombone gli da quest’aria un po’ zigana che l’avvolge di un calore nuovo. Rock the Casbah è quella cosa straordinaria che tutti sappiamo: una danza multirazziale tra le sabbie del deserto, sotto le ombre dei Phantom F-4 e i MiG-21 che si scambiano occhiate di fuoco nei cieli sauditi. Know Your Rights verrà scelta per aprire il disco ufficiale. Ha questo tono barricadero delle cose migliori dei Clash. Fiera e incalzante, come un cane da combattimento.

La versione di Rat Patrol indugia un po’ di più sull’eco e sull’aria da proclama che avvolge la canzone.

Joe non canta, declama.

Tutte le tracce restanti sono per molti versi simili a quelle ufficiali, ma pensate per un disco doppio, quindi allungate (come l’intro di Sean Flynn, per esempio), meno “costrette”. Ci sono leggere variazioni nei volumi che ne esaltano le parti vocali o ne colorano meglio le sfumature (l’organo di Red Angel Dragnet, i cori e il vero e proprio tappeto di voci che sono un po’ la vera caratteristica del disco, quello che lo distingue da quanto fatto in precedenza dai Clash, NdLYS).

Inoculated City è imbevuta di effetti e dilatata rispetto alla versione mutilata che finirà su Combat Rock, con la lunga “suppellettile” dello spot per il lavacessi.

Walk Evil Walk è uno strumentale jazz che poi non avrebbe avuto nessuno sbocco e che avrebbe potuto suonare chiunque. Non vi stessi dicendo che sono i Clash, vi sareste pure sucati che era il quartetto di Dave Brubeck.

First Night Back in London e Cool Confusion sperimentano col dub e col reggae, un vezzo che i Clash si concedono sempre volentieri. Finiranno disperse sui singoli, prima di essere amorevolmente raccolte su Super Black Market Clash.

Da lì a breve della più bella rock band del mondo resterà solo qualche briciola di rancore e qualche muso lungo, un’appendice di storia intitolata Cut the Crap che vale quanto il sequel di Psycho, ovvero meno che niente. E un’altra bara da seppellire. Con buona pace per quanti non avevano loro mai perdonato di non aver sacrificato i propri martiri sull’altare pagano della rivoluzione punk.

Ora il debito è saldato. Potete finalmente aggiornare i vostri merdosi libri di storia con gli aggettivi che gli avete sempre negato.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro 

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THE CHESTERFIELD KINGS – Fossils (Living Eye)

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Un bootleg che avrebbe meritato una pubblicazione ufficiale, non fosse per il suono un po’ troppo piatto e per niente dinamico.

Sono i Chesterfield Kings migliori. Quelli che affrontano impavidamente la missione per cui sono nati: infilare le mani nel beat-punk degli anni Sessanta e soffiare la polvere da quelle pepite per restituircele intatte nel loro splendore primordiale.

Diciannove pezzi in parte registrati in studio (alcuni addirittura nel 1979) e in parte dal vivo (New York e Washington, anno 1982), tutte cover, come era nella primissima tradizione della band di Rochester. Primates, Seeds, Flamin’ Groovies, Alarm Clocks, Sonics, Syndicate of Sound, Chessmen, Grodes passati attraverso il setaccio del più fenomenale juke-box garage punk degli anni Ottanta.  

Un carburatore intasato di benzina sixties che spruzza petrolio come fosse una trivella nel deserto sahariano.

I Re. E i loro fossili.

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro