CCCP FEDELI ALLA LINEA – Felicitazioni! (1984-2024) (Interno4 Edizioni) / CCCP FEDELI ALLA LINEA – Felicitazioni! (1984-2024) (Universal)

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Chi dovesse acquistarlo, a caro prezzo, pensandolo come un libro-confessione, resterà deluso nell’apprendere che Felicitazioni! non è altro che il catalogo dell’omonima mostra che celebra, alla soglia del loro quarantennale, la storia dei CCCP Fedeli alla Linea: foto, ritagli di giornali, reclame, copertine, costumi di scena e tutto l’arsenale di “propaganda” usato dalla band emiliana durante i suoi sei anni di produzione discografica, con un occhio particolare ai primi quattro, ovvero quelli in cui la componente visiva ed iconografica fu sfruttata come chiave d’accesso al loro mondo culturale che fondeva la storia padana con quella bolscevica, il Mediterraneo con il Mar Nero, il medio oriente con la Lapponia, astronauti e samurai, Togliatti con Majakovskij, la Fiat con le Trabant, falce, martello e salmi. Un azzardo, ma un azzardo riuscito, che è adesso il momento di festeggiare cercando da un lato di sanare dissidi lunghi un trentennio e dall’altra musealizzandone la storia.

L’omonimo cofanetto della Universal ne offre un compendio musicale, sfruttando l’occasione per vendere a prezzi da nababbi spillette, foto e cartoline a corredo di una selezione di diciotto brani che invece cercano una mediazione più equilibrata con la seconda fase del gruppo, dettata più dalle solite logiche commerciali che altro (e che, ci facevamo scappare il duetto con Amanda Lear, le pluridecorate Annarella e Amandoti, il corale cattolico di Madre?), con la band che si diverte addirittura, in uno scatto inedito, a vestire gli stessi cenci indossati all’epoca di Epica Etica Etnica Pathos.

I CCCP diventano merce da mettere nel carrello.

Il passato è afflosciato
Il presente è un mercato
Fatevi sotto bambini
Occhio agli spacciatori
Occhio agli zuccherini.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

MANO NEGRA – Puta’s Fever (Virgin)

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Puta’s Fever è Patchanka al quadrato.

E con un investimento sei volte superiore a quel debutto infetto che in Francia ha scatenato una pandemia. Che poi si rivelerà essere la sifilide, la febbre delle prostitute. Come quelle che ammiccano sulla copertina e come i Mano Negra medesimi, accusati di essersi venduti al miglior offerente e pronti per essere sgozzati nei templi della nuova Gerusalemme come i capri nel giorno dell’espiazione. Così, per partito preso. Come era successo ai Clash anni prima.

In realtà la ricetta musicale dell’ensemble francese rimane la medesima.

Qualcosa cambia davvero però. Cambia l’idea rivoluzionaria di mettere sotto scacco il dominio anglo-americano in maniera totale. Perché se è vero che la musica dei Mano Negra sta conquistando più di una nazione e per di più con un suono “globalista”, è vero che il veicolo di diffusione del loro messaggio torna in mano a chi gestisce, capitalizzando, il mercato musicale.

Il successo artistico di Puta’s Fever è dunque bilanciato da una sconfitta sul piano morale. E a far la morale siamo sempre bravi in tanti. A far musica come i Mano Negra un po’ meno, anche se la loro baldoria euforica continua a piacerci. Ci fa sentire meno yankee, anche con addosso i pantaloni Levi’s®, anche con addosso la sifilide, che è spesso l’unica cosa che importiamo dai paesi poveri. Ci piace immaginarci giocolieri tenendo la sfera del mondo in una mano sola. Al limite con due, visto che siamo incapaci.
La Mano Negra, dal canto suo, continua ad essere un tritatutto. Una pancia vorace che accoglie gli avanzi di un mondo cui proprio gli avanzi sono destinati, a volte senza metabolizzarli nemmeno. La sensazione, già evidente nel primo album, è però che i solchi del disco rappresentino un po’ degli steccati che arginano le performance live del gruppo, che sono feste di popolo e concerto punk assieme. Danze popolari e pogo, baraonda folkloristica e stage diving. E che qui fatica a venire fuori con tutta la potenza che in molti giurano di aver visto deflagrare dal palco. King Kong Five, il pezzo che spopola ovunque, è in realtà la cosa più banale dell’album. Un rap che il flow del nuovo asso dell’hip-hop francese Mc Solaar spegnerebbe come una candelina sulla torta di un compleanno. Il meglio galleggia sottopelle, e sono cose come The Rebel Spell, Pas assez de toi, Guayaquil City, Peligro. Canzoni torve sulla vita del barrio, sulle anime ribelli, sulla repressione.

300.000 copie vendute solo in patria sono il passaporto per Babilonia.

La Mano Negra è pronta a menar ceffoni.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

MANO NEGRA – Casa Babylon (Virgin)  

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La Caravane, il Cargo 92, il treno del ghiaccio e del fuoco. All’alba degli anni Novanta la Mano Negra diventa una festa nomade ed inebriante. Si reinventano sarti, fabbri, saldatori, falegnami, imbianchini. Non un giorno di riposo. L’impegno fisico ed artistico è al limite. La delusione seguita ai concerti di spalla ad Iggy Pop che accentuano la persuasione che forse il carrozzone su cui sono saliti è quello sbagliato, accende in Manu Chao la convinzione che quel carrozzone la Mano Negra se lo deve costruire da sé. E allora ecco un tendone da circo, scenografie fantastiche allestite con gli scarti della società moderna, una chiatta rattoppata con dentro una Parigi riprodotta in scala, un serpente di vagoni autocostruiti che si muovono sul regno dei narcos portando un po’ di follia e di festa dove di festa non ce n’è e l’unica follia, in quella terra ridisegnata da Escobar (che morirà proprio mentre il treno si sposta da Aracataca a Bosconia, NdLYS) è quella dei sicari dei cartelli di Medellìn, di Calì e di Norte del Valle.

Prima sono le periferie di Parigi, quelle dove l’unico eroe è femmina e si chiama eroina, ad essere preda della Mano Negra, poi la band si infila negli intestini del Sud America, seguendo le rotte sconsigliate da ogni ambasciata, a bordo di un treno che arriva avvolto dalle fiamme e si ferma ad ogni stazione dove ci sia una donna, un bambino, un uomo disposto a sventolare una bandiera giusta o a deporre un sogno (uno dei ventuno vagoni proprio a questo è dedicato). E diventano ambasciatori essi stessi, portando la buona novella di uno spettacolo che rimarrà nella memoria collettiva.

Sono vagoni male in arnese. Vagoni che perdono pezzi, come la Mano Negra stessa. Però è un momento magico, il momento tanto sognato da Manu in cui l’idea di “gruppo” si sfalda e la sua band, diventata segretamente Radio Bemba, è un collettivo di gente e ospiti che entrano ed escono. Fanno quel che possono, per il tempo che lo vogliono. Lasciano una voce, una firma, un suono. E vanno via.

Babilonia è stata conquistata.

A fatica ma è stata conquistata. Adesso Manu Chao può innalzare la sua torre dove suonano tutte le lingue e tutte le musiche del mondo.   

Il risultato di questa torre che frana mentre sta raggiungendo il cielo è Casa Babylon, il capolavoro assoluto della Mano Negra o di quel che ne rimane. Dentro c’è Cuba, l’Argentina, il Brasile, l’Ecuador, il Messico, la Colombia, c’è la lista di Paesi che Manu ha visitato e che vengono elencati nella bellissima Sueño de solentiname. C’è il calcio e ci sono i contrabbandieri. C’è tribalismo e combat-rock reso finalmente deflagrante dal missaggio ad opera della Kwaanza Posse. Il Chiapas e la Santeria. Poesia, mistero e ribellione. C’è la vita che passa veloce e che bisogna correre per acciuffarla, bisogna trovare il proprio vagone. Che per Manu Chao non è più quello dei concerti per conquistare chi ha soldi da spendere in concerti ma quello che può portare la musica dove i rumori sono altri, lapidari, implacabili. C’è il dub, il rock ‘n’ roll, la rumba, c’è il reggae e c’è un’energia viva, incontenibile che sommerge tutto fra i clangori di mille tamburi, dei fischietti, di voci che vanno e che vengono, si sovrappongono, si sommano, si dileguano come se quella torre fosse stata costruita sulle sabbie mobili. E un po’ lo è. Non è sabbia, in realtà, ma la polvere stessa di quella mano che ad una ad una ha ormai chiuso tutte le sue dita, lasciando un patrimonio di idee e di energie che non potranno mai più essere replicate da altra mano, di qualunque colore essa sia.   

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

MAU MAU – Acustica tribù

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Poi sarebbero venuti la To.Sse e i Mau Mau.

Poi.

Ma prima erano i Loschi Dezi, ragazzi delle langhe innamorati del Maghreb e del meticciato musicale.

Siamo nel 1991 e Torino, come gran parte dello stivale, si sta scrollando di dosso la malinconia esistenzialista della stagione dark e soffocando i rigurgiti psichedelici che l’avevano caratterizzata. Lo fa ripudiando in toto le musiche anglosassoni che hanno dominato il vecchio decennio e prendendo dalla Giamaica, dall’Africa, dal Medio Oriente, dalle banlieue parigine, dal Montenegro, dalla Spagna, dalla Bolivia, dall’Irlanda.  

Le nuove tribù avanzano portando in dote un concetto di musica multietnica e un rinnovamento linguistico che abbandona gradualmente la lingua inglese e approda alla lingua e ai dialetti autoctoni. Detto così e soprattutto detto adesso suona un po’ banale ma non lo fu per niente, anche perché fu questo riannodo alle radici lessicali nostrane a permettere successivamente a far filtrare il patrimonio cantautoriale nella musica indipendente, generando un vero e proprio cataclisma inarrestabile ed epocale.  

I Loschi Dezi questo arrembaggio lo tentarono fra i primi, con risultati strepitosi.

Quello di Cabala è un suono da piccola tribù, che paga pegno a certe idee di Paolo Conte ed evoca certe arie da festa gitana tanto care a Pogues, Mano Negra e Negresses Vertes così come pare a tratti una versione amatoriale, artigianale dei Beastie Boys (Megafonico ad esempio) ma che mostra già i tratti “caratteriali” del suono dei Mau Mau. E non solo quelli che debutteranno da lì a breve.

Ai bordi di Via Mirafiori i Loschi Dezi raccattano incrociano gli sguardi e i bisogni degli emigrati abbagliati dal sogno industriale italiano. Raccolgono i cocci di quel sogno. E poi li portano a ballare.

 

Fabio Barovero e Luca Morino incrociano il loro destino in quella che più che una meteora si rivela essere la stella cometa che annuncia la nascita dei Mau Mau. Siamo proprio all’alba degli anni Novanta e i Loschi Dezi, senza saperlo, hanno innescato una piccola rivoluzione. La rivendicazione fiera delle proprie radici lessicali e culturali, che è la stessa propugnata in meridione dal Sud Sound System, è una scelta di identità che il grande mercato del disco non si sente ancora di propugnare, tanto che la EMI si rifiuterà di mettere il proprio marchio sul primo singolo dei Mau Mau, cercando di convincere il gruppo ad esordire in lingua italiana. La forza dei Mau Mau è però impetuosa e pandemica. Non tanto su disco, che i tre pezzi di Soma la macia sono ancora divagazioni folk dalle forme incerte, ma in virtù di un esplosivo impatto quando l’”acustica tribù”, armata di chitarre acustiche, djambè, fisarmonica e violino, prende d’assalto il pubblico e lo costringe alla resa in maniera talmente naturale e persuasiva da contagiare l’intero stivale piegando anche i “problemi tecnici” dovuti all’amplificazione in un cavallo di troia che permette loro di sfondare ogni porta con un set acustico che, anche con pochi watt a disposizione, riesce ad accendere il pubblico.

Quando nel 1992 i Mau Mau presentano alla casa discografica Sauta rabel, la EMI il marchio decide di mettercelo eccome. Il supporto degli amici Africa Unite (Madaski, Paolo Parpaglione, Papa Nico e Max Casacci sono coinvolti a vario titolo nella realizzazione del disco) è fondamentale ancora una volta nella definizione dello stile del gruppo piegandolo a volte alle proprie influenze (la forte impronta di Madaski su Singh sent ani, ad esempio, con l’uso di echi dub e di campionamenti, come quello dei Funkadelic in seguito usato dai Sangue Misto, NdLYS) ma è soprattutto quando l’affinata consapevolezza nelle proprie capacità riesce ad emergere che i Mau Mau danno il meglio di sé, come nei vortici gitani di Mostafaj, Traversado e di Ël mat che saranno proprio le matrici stilistiche utilizzate per mettere in piedi quel capolavoro che sarà il secondo disco.

 

L’aroma mediterraneo latente su Sauta rabel si sprigiona in tutta la sua magica, avvolgente fragranza su Bàss paradis, capolavoro meticcio realizzato a Torino e completato ai Real World Studios di Peter Gabriel nel 1994 e con cui i Mau Mau firmano uno dei capolavori più sottovalutati della musica italiana. Se il disco di debutto rivelava, nella sua discontinuità, delle crepe destinate a rendere friabile l’impianto acustico del combo torinese, Bàss paradis svela una rotondità, una pastosità sonora incredibile e prodigiosa che lo rendono inattaccabile, come se la formazione piemontese avesse voluto proteggere la sua musica con una placcatura che le facesse da scudo e, insieme, ne aumentasse la lucente bellezza. L’area mediterranea compresa fra le coste africane, spagnole, francesi ed italiane e il movimento nomade delle popolazioni apolidi che le attraversano diventano il paesaggio-chiave della musica dei Mau Mau.

Nacchere, fisarmoniche, chitarre acustiche, percussioni (cuore vibrante del disco, ora incalzanti ora ribollenti come acque sfidate dalla lava), violini scorrono senza posa a raccontare storie di pellegrinaggi e di zuffe etniche tra popolazioni che faticano ad integrarsi, pur respirando della stessa aria, pur guardando allo stesso mare. I Mau Mau realizzano un disco di world music mezzosangue appassionante e moderna, ballabile, creativa, speziata ed imbastardita con tutto quanto puoi sentire infilando l’orecchio dentro una conchiglia trasportata dal Mediterraneo e destinata a farsi tromba di carbonato di calcio sulle nostre spiagge di rena e pietre marine.           

 

Se Bàss paradis era un cuore a forma di Mar Mediterraneo, per Viva Mamanera il binocolo dei Mau Mau si sforza di guardare oltre lo stretto di Gibilterra, allungando lo sguardo sull’Oceano Atlantico. Terre in verità già “esplorate” con occhio critico nei primi dischi, attaccando con opportuno taglio revisionista la sanguinosa conquista del continente americano da parte di Colombo.

Ma stavolta l’impeto critico è sopraffatto da tutta l’amarezza, la solitudine ma anche la cocciuta tenacia degli italiani abbagliati, a cavallo dei due secoli, dal grande sogno americano che tracimano dai testi di canzoni come Ellis Island e Union Pacific, mitigata dalla volontà di lasciarsi trafiggere dal sole tropicale, di adeguare il proprio orologio biologico e geografico a quello delle latitudini sudamericane, dai colori del carnevale brasiliano, dalla travolgente febbre calcistica che con Pelè e Maradona ha dominato per decenni l’immaginario degli emigranti ma anche di chi era rimasto ad attenderli al di qua del mare. È un disco di profonda transizione, il terzo Mau Mau, che subisce la necessità di tirarsi fuori dal “luogo comune” della loro musica sperimentando strumentazioni ed ambientazioni alternative (l’utilizzo della chitarra elettrica ma anche le sperimentazioni con l’elettronica, l’uso di neologismi esasperati e divaganti, l’abbandono discutibile nelle ragioni e prevedibile nei risultati al corteggiamento e alle lusinghe  delle musiche caraibiche) e riscuotendo successo più per luce riflessa (la propulsione ritmica de La ola, profondamente debitrice all’impetuoso uragano di tamburi de L’ombelico del mondo di Jovanotti) che per le qualità intrinseche di un’opera per la prima volta troppo lunga e dispersiva.   

 

L’andatura a stantuffo di Eldorado ci introduce al nuovo viaggio dei Mau Mau, nomadi stanziali di Piemonte. Il quarto album del gruppo torinese fa “tesoro” di quanto già sperimentato nei tre dischi che l’hanno preceduto, innestando la tenera marza folk degli esordi con le ricerche più elaborate della produzione recente. Come per Viva Mamanera siamo pertanto davanti ad un disco frammentario, dove le emozioni si accumulano e si sommano le une sulle altre e gli scenari geografici e musicali mutano di canzone in canzone, toccando le coste sudamericane, le erranti tribù d’Africa, l’occhio oceanico della Galizia e, come sempre, le langhe subalpine che sono dimora loro e dei loro padri. Tra le cose migliori si registrano stavolta Griot, Pueblos de langa, Nozze mentre stentano a decollare le derive “Caposseliane” (Fabio Barovero e Roy Paci, adesso in pianta stabile nella formazione, hanno registrato assieme a Capossela un disco di marce funebri ed inni religiosi sotto il nome di Banda Ionica appena prima di mettere mano al nuovo disco) in cui sembrano a volte precipitare alcuni passaggi di Vagamundo, l’intera baraonda di Per amor e la terribile Solo sfiorando affidata alla voce austera di Mauro Ermanno Giovanardi, già impostata sui canoni da crooner alla Massimo Ranieri dell’età adulta.

Eldorado conferma dunque i Mau Mau come una delle migliori realtà nazionali in ambito di musica “meticcia” anche se per la seconda volta quei quattro/cinque minuti delle loro canzoni che prima ci sembravano durare un battito d’ali adesso rivelano davvero un gran senso di fatica, più che di allegria.

Come se alla fine, arrivati ad Eldorado, i Mau Mau avessero trovato che l’antico oro fosse già stato rubato.

                                                                               

Safari Beach (micasa tucasa) consuma l’ultimo saluto di Roy Paci alla ciurma Mau Mau, ormai pronto per lanciare sul mercato la sua nuova creatura siculo-caraibica Aretuska.

Un abbraccio caloroso, sotto il sole tropicale che infiamma le nuove canzoni della formazione torinese. Piccole spezie elettroniche farciscono una musica pluralista che è tuttavia sempre fatta di carne e sudore, di suggestioni esotiche e di miraggi da fata morgana che qui esplodono in tutta la loro vivacità nell’aria da carnevale brasiliano di Micasa Tucasa, nel calypso di Venus Nabalera, nella batucada di Una lunga estate calda, farcita di ronzii di fastidiosi insetti, il cocktail di Latte Più, tequila e Batida de Coco di Gwami Moloko. L’idea di viaggio, di esplorazione, di meticciato resta ben salda nell’immaginario del gruppo. Si aggiunge semmai una critica sottesa, pungente, al turismo “vampiresco” che con superficialità affonda i denti nella carne viva di paesi, spiagge e città e ne succhia sangue scambiandolo con una dose avvelenata di denaro.

I Mau Mau si confermano i tuareg della musica italiana. Una carovana nomade dalla pelle che odora di salsedine e di sabbia in cammino perenne.

 

L’inizio degli anni zero è tempo di festeggiamenti e celebrazioni per molte formazioni storiche italiane. Anni spesi a tirarsi fuori dalle cantine, passando per gli angusti sotterranei delle produzioni underground e poi, di colpo, la luce. Non popolano ancora le classifiche, forse mai lo faranno e del resto poco importa ma i loro nomi ormai li conosce anche mia mamma. E così dopo il doppio live degli Afterhours, le celebrazioni marleyane degli Africa Unite, il tronfio epilogo dei C.S.I., ecco i Mau Mau davanti alle loro dieci candeline che diventano ben 25 sul doppio live pubblicato per l’occasione. Un disco che pesca in tutta l’ampia storia del più credibile gruppo meticcio italiano e che è un egregio compendio all’ottima discografia in studio che Luca Morino e Fabio Barovero ci hanno regalato in questi anni. Marasma general non traballa, è un’orgia di colori e sapori, è la festa paesana di tutti i paesi del mondo, è la musica per ogni festa del Santo Patrono, da Bahia a Cipro. Chi ha assistito ai concerti del gruppo piemontese sa a quale livello di coinvolgimento si può arrivare, e questo sin dai tempi della gloriosa acustica tribù che ricordo ciondolante e baraccona tra il pubblico dell’ormai sepolto Magna Grecia Festival, tanti anni fa. Tutto viene qui documentato, con queste istantanee scattate lungo il loro peregrinare da griot piemuntesi, che aggiunge tra l’altro un paio di nuove, ottime foto al già voluminoso album di famiglia. Anzi, della tribù. 

 

La coloratissima ara macao della copertina e le divise da ufficiali mercantili sfoggiate da Luca Morino, Fabio Barovero e Bienvenu Tatè Nsongan ci rivelano che la nuova rotta dei Mau Mau è quella dei mari tropicali del Sud America. Un approdo cui in realtà il ridotto equipaggio (ma in realtà al disco collaborano almeno una trentina fra musicisti e coristi) a bordo della Dea non giunge mai, smarrendo la rotta durante la navigazione, naufragando non si sa bene dove. Ideale proseguimento del discorso intrapreso con Safari Beach in realtà Dea non ne replica la vitalità e mostra un’impasse creativa mai così nitida e preoccupante. Per la prima volta alla festa organizzata dai Mau Mau sembra non divertirsi nessuno, neppure loro.

Il carnevale brasiliano allestito dalla coppia Barovero/Morino somiglia ad una qualunque pagliacciata allegorica nostrana. Sono tutti brani riusciti solo a metà, anche quando ad accendere i toni viene chiamato il Sud Sound System e l’innesto tra piccoli arnesi etnici e marchingegni elettronici in realtà sembra una delle tante incompiute per cui la nostra Italia è tristemente celebre.

 

I cappelli sono quelli dei briganti. Con le falde tese, a seccare sotto uno spicchio di sole italiano. Sotto quel cono d’ombra ci sono Fabio, Luca e Tatè, zingari stanziali piemontesi, che quegli ottomila chilometri di costa italiana li conoscono uno per uno. Li hanno percorsi in tribù e in solitario. In carovana nomade e in furgone. Impigliati fra i cavi elettrici o con le dita ad uncino su corde che sembrano filo spinato. Sudati, annoiati, entusiasti, sfiniti, abbracciati o coi musi lunghi, facendo la ola o agghindati come il Rei Momo.

Per un tempo così lungo che sembra quasi siano stati sempre con noi.

E noi, con loro. Libando nei lieti calici.

Eppure, tra l’ultimo lavoro della band torinese e l’8000 Km appena caldo di tostatura passano dieci anni. Dieci anni in cui l’Italia è cambiata senza in realtà cambiare mai. Tanto che alla fine le canzoni dei Mau Mau finiscono per rotolarsi nel medesimo fango senza suonare per niente fuori posto.

Abbandonando la deriva tropicale del precedente album e certe piccole cromature elettriche e le lievi piste di silicio che affioravano su Viva Mamanera o Safari Beach, i Mau Mau ridirigono la prua verso il vecchio suono dell’acustica tribù, recuperando quel tipico suono “a stantuffo” dei primi anni, riattingendo ancora una volta dalla semplicità di una fisarmonica, di un kit di tamburi, di una chitarra acustica e di una tromba mariachi e ridefinendo un “perimetro” che è sì geografico, ideologico ma anche stilistico.

Un disco prezioso che ritrova quell’energia che ha sempre mosso l’avventura dei Mau Mau e che ridisegna con un pizzico di cinismo e un’occhiata di ammirazione i tratti di questa terra meravigliosa dilaniata dalle contraddizioni, pressata da un Mediterraneo sempre più piccolo eppure ancora piena di mille risorse.

Per ripartire in modo dignitoso ci vuole quel talento di cui i Mau Mau parlano con sottile occhio critico alla fine del disco. Loro, dimostrano di averne.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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MANO NEGRA – King of Bongo (Virgin)  

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Cantato per tre/quarti in lingua inglese, King of Bongo è il figlio americano della Mano Negra, concepito durante il tour mondiale del 1990 ma anche assistendo alla prima guerra trasmessa in diretta tv. Il disco, come la tournée, è il tentativo (fallito) di conciliare la musica della band con le aspettative del pubblico d’oltreoceano che ama pochissimo le alchimie con le musiche terzomondiste (la chiamano world music, ma in realtà lasciano intendere che quel “world” si riferisce a un mondo altro, ma inferiore. Terzo. Forse addirittura quarto. NdLYS) ma vuole rumore, distorsione, potenza di fuoco. Un pubblico che ama i film di Rambo. King of Bongo è stretto in una morsa fra la tentazione di piacere a quello che è nei fatti il vero pubblico davanti cu si sentono stranieri e la cupa rassegnazione davanti alla guerra in Iraq. L’ironia e la baldoria del gruppo vengono smorzate dai notiziari della CNN fino a venire soffocata, sommersa piuttosto da un’onda di rabbia che si abbatte sui muri elettrici di Letters to the Censors e Bring the Fire. C’è una consapevolezza amara, che si agita dentro il terzo album della Mano Negra.

E c’è pure, forse meno consciamente, la sensazione che a furia di rincorrerla (o di essere spinti a rincorrerla: ricordiamoci che la band è adesso sotto le ali della Virgin, NdLYS) l’America abbia conquistato anche loro. Che siano diventati in qualche modo un’altra colonia dell’impero dello Zio Sam. Il “bongo” che si portano dietro, come lo scimpanzé della canzone che intitola il disco, è l’unico souvenir che è loro concesso per ricordare la loro tribù di appartenenza. Come quei peruviani che ai bordi dei marciapiedi dei figli dei conquistador si ostinano a suonare El Condor Pasa con il flauto di Pan. Triste e paradossale.

La Mano Negra fa un tuffo nell’Oceano che li separa dal primo mondo. E in qualche modo, ne viene inghiottita.  

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

JOE STRUMMER & THE MESCALEROS – Streetcore (Hellcat)

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Barry “Scratchy” Myers, il dj che aveva aperto i tour dei Clash per Give ‘em Enough Rope e che viene accreditato come “il deejay n. 1” sulla copertina interna di London Calling torna a lavorare con Strummer per l’ultimo tour dei Mescaleros. Sarà lui a dichiarare che Joe aveva fatto in cinquant’anni quello che molti non avrebbero mai potuto fare neppure se avessero avuto a disposizione cinquanta vite.

A noi piace davvero pensare che, si, Joe Strummer era riuscito a vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, spremendolo fino all’ultima goccia. Purtroppo però quell’ultimo giorno arrivò per davvero. È il 22 dicembre del 2002 e Strummer sta lavorando a Streetcore con i modi che gli sono congeniali in quegli anni ovvero vivendo praticamente dentro lo studio di incisione, dormendo su un giaciglio di fortuna assieme ai suoi appunti, alla sua chitarra, ad un mangianastri dove può fermare su nastro le idee che passano come stormi dentro la sua testa, colpendoli prima che scompaiano all’orizzonte o che stramazzino a terra. Non sa ancora che toccherà a Martin Slattery e Scott Shields, i Mescaleros di vecchia data, l’onere di completare quel che lui ha iniziato e che la sorte non gli consentirà di completare (Midnight Jam è infatti orfana del suo testo, anche se la voce di Strummer compare con degli intercalari del suo programma radio).  

Streetcore è il disco dove Strummer torna a parlare di una Londra che torna a bruciare, il disco dove per ironia del destino decide di reincidere quella Redemption Song che era già stata testamento di uno dei suoi eroi, il disco dove Strummer compie finalmente il suo nostos, il suo ritorno a casa che è anche un po’ il nostro. È il suono meticcio dei Clash e anche un po’ di quello dei Big Audio Dynamite, c’è il reggae, il country & western, il combat-rock. C’è Strummer e con lui gran parte della nostra vita.      

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro 

I HATE MY VILLAGE – I Hate My Village (La Tempesta Dischi)  

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Adriano Viterbini, Marco Fasolo, Alberto Ferrari e Fabio Rondanini sono i protagonisti di questo spin-off che, complice la penuria di uscite italiane di un certo livello e un battage promozionale capace di spingerlo ben oltre il suo perimetro di pertinenza, pare destinato a diventare sin da subito un disco di culto nonostante poco o nulla conceda al facile ascolto.

I Hate My Village sono, è, una sorprendente e complessa macchina tribale. Di quelle di cui nessuno sentiva il bisogno ma, ora che c’è, tutti ci vorrebbero salire sopra a farsi in giro per sentirsi come dei tuareg con in cuffia i primi elleppì di Peter Gabriel. Un disco etnico per universitari con Blow Up sottobraccio. Senza alcuna mira offensiva ne’ per gli universitari ne’ tantomeno per Blow Up, me ne guarderei bene. Il disco che “ci suona questo e quest’altro” e che fa figo ascoltare, che “fa tendenza”. Un po’ come quando Robert Plant ci legittimò all’ascolto della musica berbera dei Tinariwen, con la cui anima blu il suono degli I Hate My Village ha peraltro ben più di un legame.

Prima di aizzarmi i pruriti litigiosi dei polpastrelli degli “haters” (che a questo punto, per uso traslato, potrebbe essere un termine rivendicato di diritto dai fan del gruppo, NdLYS) è opportuno però precisare che il debutto degli I Hate My Village è un affascinante lavoro di blues e funky suonati con radici di baobab e pietre focaie, un cous cous carico di spezie africane che ci fa ben sperare sulla vendetta dell’intelligenza della vecchia guardia nei confronti dell’Itpop buono per le piadinerie.

La rivincita degli uomini coi peli sulle palle sui ragazzini con la barba.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

MANO NEGRA – O bella Chao, bella Chao, bella Chao Chao Chao  

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La Bastiglia l’avrebbero presa l’8 luglio del 1989, ficcando la loro bandiera nella piazza antistante la fortezza parigina davanti a 200.000 spettatori in delirio. Ma la Mano Negra avrebbe conquistato, durante i suoi cinque anni di vita, ben altre piazze, ben altre fortezze, scavalcando confini, dogane, frontiere, imponendo la musica francese come nuovo (ultimo?) baluardo di musica antagonista. Una musica che era pattumiera di tutte le musiche del mondo o di buona parte di esse. E che rivendicava appartenenza a tutte le geografie del mondo. Come fosse un’ambasciata del terzo mondo tutto ficcata nel cuore della Francia.     

Patchanka, il debutto della più influente band francese della storia moderna, è il risultato, piro-tecnico negli intenti e ipo-tecnico nei risultati, dell’applicazione del System D (l’equivalente del DIY divulgato dal punk inglese, NdLYS) al situazionismo musicale. I Mano Negra sono, all’epoca, ancora dei buskers, dei musicisti che nelle gallerie della metropolitana impattano con le altre culture, ne attingono energia ed ispirazione. Si chiedono, soprattutto, cosa muova enormi masse di persone da un posto all’altro del globo, cosa le metta in fuga. Spagna, Irlanda, Giamaica, Cuba, medio-oriente, nord-Africa, sud-America, est-Europa entrano nel cestello della lavabiancheria della band, già pieno di panni francesi, di elastici zigani, di copricapi baschi, di biancheria punk inglese. Centrifugate assieme, fanno capolino dall’oblò a volte in un indistinguibile ammasso di cenci bisognosi di detersivo, altre volte invece in un susseguirsi circolare e sfilacciato di colori che fanno capolino tra la schiuma, inseguendosi l’un l’altro senza posa: è l’aggiornamento di quel crogiuolo di influenze che fu Sandinista!, il disco che dimostrava definitivamente che il futuro negato dei Sex Pistols invece esisteva eccome ma che andava riscritto partendo proprio dalla fusione tra le diverse culture e che il combo francese ribattezza, appunto, Patchanka.

L’accostamento con i Clash, che immaginiamo lusinghiero per Manu Chao (all’epoca, ancora, Oscar Tramor) e compagni, è nell’approccio globale, trasversale alla musica, rispetto alla paralizzante eredità anglosassone di gran parte della musica continentale.

La musica della Mano Negra è stracciona, terzomondista, fumettistica e punk. Tanto che quando arriva nei negozi, finisce che lo trovi sotto dieci scaffali diversi (punk, rock francese, ska, world music, cabaret, folk) o che non lo trovi affatto. Che sia un disco d’assalto è chiaro sin dal siparietto iniziale che porta lo stesso nome della band e che frana addosso come se qualcuno avesse aperto le paratoie di una diga. Trombe, percussioni, pianole Bontempi, bandoneón, chitarre, sintetizzatori, rullanti e contrabbassi arrivano a turno a cercare il loro spazio nella mezz’ora di spettacolo che segue, cercando di farsi largo nella giungla di liane della Mano Negra, a mettere l’accento ai racconti di Manu Chao, autore di tutti i testi e di quasi tutte le musiche, orgogliosamente antifascisti ed apolidi i primi, bizzarramente accostate le une alle altre le seconde fino a sconfinare nel rap (Rock Island Line e Killin’ Rats sono attigue alle soluzioni dei Beastie Boys e dei Big Audio Dynamite) e nel rockabilly (Tackin’ It Up o la Darling Darling che sembra tirata fuori da un disco dei King Kurt). Ma i pezzi che danno contezza del meticciato che è cifra stilistica della band si intitolano però Indios de Barcelona, Ronde de Nuit, Baby You’re Mine, Noche de accion, Mala vida. Inni alla gioia balorda e ai vizi che da sempre accompagnano gli sfrattati dagli spassi di lusso, a Parigi come altrove. La mano nera che sporcava i muri della città prende vita e allunga le dita a prendersi una fetta di mondo. Una grande fetta di mondo.

 

Puta’s Fever è Patchanka al quadrato.

E con un investimento sei volte superiore a quel debutto infetto che in Francia ha scatenato una pandemia. Che poi si rivelerà essere la sifilide, la febbre delle prostitute. Come quelle che ammiccano sulla copertina e come i Mano Negra medesimi, accusati di essersi venduti al miglior offerente e pronti per essere sgozzati nei templi della nuova Gerusalemme come i capri nel giorno dell’espiazione. Così, per partito preso. Come era successo ai Clash anni prima.

In realtà la ricetta musicale dell’ensemble francese rimane la medesima.

Qualcosa cambia davvero però. Cambia l’idea rivoluzionaria di mettere sotto scacco il dominio anglo-americano in maniera totale. Perché se è vero che la musica dei Mano Negra sta conquistando più di una nazione e per di più con un suono “globalista”, è vero che il veicolo di diffusione del loro messaggio torna in mano a chi gestisce, capitalizzando, il mercato musicale.

Il successo artistico di Puta’s Fever è dunque bilanciato da una sconfitta sul piano morale. E a far la morale siamo sempre bravi in tanti. A far musica come i Mano Negra un po’ meno, anche se la loro baldoria euforica continua a piacerci. Ci fa sentire meno yankee, anche con addosso i pantaloni Levi’s®, anche con addosso la sifilide, che è spesso l’unica cosa che importiamo dai paesi poveri. Ci piace immaginarci giocolieri tenendo la sfera del mondo in una mano sola. Al limite con due, visto che siamo incapaci.
La Mano Negra, dal canto suo, continua ad essere un tritatutto. Una pancia vorace che accoglie gli avanzi di un mondo cui proprio gli avanzi sono destinati, a volte senza metabolizzarli nemmeno. La sensazione, già evidente nel primo album, è però che i solchi del disco rappresentino un po’ degli steccati che arginano le performance live del gruppo, che sono feste di popolo e concerto punk assieme. Danze popolari e pogo, baraonda folkloristica e stage diving. E che qui fatica a venire fuori con tutta la potenza che in molti giurano di aver visto deflagrare dal palco. King Kong Five, il pezzo che spopola ovunque, è in realtà la cosa più banale dell’album. Un rap che il flow del nuovo asso dell’hip-hop francese Mc Solaar spegnerebbe come una candelina sulla torta di un compleanno. Il meglio galleggia sottopelle, e sono cose come The Rebel Spell, Pas assez de toi, Guayaquil City, Peligro. Canzoni torve sulla vita del barrio, sulle anime ribelli, sulla repressione.

300.000 copie vendute solo in patria sono il passaporto per Babilonia.

La Mano Negra è pronta a menar ceffoni.

 

Cantato per tre/quarti in lingua inglese, King of Bongo è il figlio americano della Mano Negra, concepito durante il tour mondiale del 1990 ma anche assistendo alla prima guerra trasmessa in diretta tv. Il disco, come la tournée, è il tentativo (fallito) di conciliare la musica della band con le aspettative del pubblico d’oltreoceano che ama pochissimo le alchimie con le musiche terzomondiste (la chiamano world music, ma in realtà lasciano intendere che quel “world” si riferisce a un mondo altro, ma inferiore. Terzo. Forse addirittura quarto. NdLYS) ma vuole rumore, distorsione, potenza di fuoco. Un pubblico che ama i film di Rambo. King of Bongo è stretto in una morsa fra la tentazione di piacere a quello che è nei fatti il vero pubblico davanti cu si sentono stranieri e la cupa rassegnazione davanti alla guerra in Iraq. L’ironia e la baldoria del gruppo vengono smorzate dai notiziari della CNN fino a venire soffocata, sommersa piuttosto da un’onda di rabbia che si abbatte sui muri elettrici di Letters to the Censors e Bring the Fire. C’è una consapevolezza amara, che si agita dentro il terzo album della Mano Negra.

E c’è pure, forse meno consciamente, la sensazione che a furia di rincorrerla (o di essere spinti a rincorrerla: ricordiamoci che la band è adesso sotto le ali della Virgin, NdLYS) l’America abbia conquistato anche loro. Che siano diventati in qualche modo un’altra colonia dell’impero dello Zio Sam. Il “bongo” che si portano dietro, come lo scimpanzé della canzone che intitola il disco, è l’unico souvenir che è loro concesso per ricordare la loro tribù di appartenenza. Come quei peruviani che ai bordi dei marciapiedi dei figli dei conquistador si ostinano a suonare El Condor Pasa con il flauto di Pan. Triste e paradossale.

La Mano Negra fa un tuffo nell’Oceano che li separa dal primo mondo. E in qualche modo, ne viene inghiottita.

 

La Caravane, il Cargo 92, il treno del ghiaccio e del fuoco. All’alba degli anni Novanta la Mano Negra diventa una festa nomade ed inebriante. Si reinventano sarti, fabbri, saldatori, falegnami, cuochi, imbianchini. Non un giorno di riposo. L’impegno fisico ed artistico è al limite. La delusione seguita ai concerti di spalla ad Iggy Pop che accentuano la persuasione che forse il carrozzone su cui sono saliti è quello sbagliato, accende in Manu Chao la convinzione che quel carrozzone la Mano Negra se lo deve costruire da sé. E allora ecco un tendone da circo, scenografie fantastiche allestite con gli scarti della società moderna, una chiatta rattoppata con dentro una Parigi riprodotta in scala, un serpente di vagoni autocostruiti che si muovono sul regno dei narcos portando un po’ di follia e di festa dove di festa non ce n’è e l’unica follia, in quella terra ridisegnata da Escobar (che morirà proprio mentre il treno si sposta da Aracataca a Bosconia, NdLYS) è quella dei sicari dei cartelli di Medellìn, di Calì e di Norte del Valle.

Prima sono le periferie di Parigi, quelle dove l’unico eroe è femmina e si chiama eroina, ad essere preda della Mano Negra, poi la band si infila negli intestini del Sud America, seguendo le rotte sconsigliate da ogni ambasciata, a bordo di un treno che arriva avvolto dalle fiamme e si ferma ad ogni stazione dove ci sia una donna, un bambino, un uomo disposto a sventolare una bandiera giusta o a deporre un sogno (uno dei ventuno vagoni proprio a questo è dedicato). E diventano ambasciatori essi stessi, portando la buona novella di uno spettacolo che rimarrà nella memoria collettiva.

Sono vagoni male in arnese. Vagoni che perdono pezzi, come la Mano Negra stessa. Però è un momento magico, il momento tanto sognato da Manu in cui l’idea di “gruppo” si sfalda e la sua band, diventata segretamente Radio Bemba, è un collettivo di gente e ospiti che entrano ed escono. Fanno quel che possono, per il tempo che lo vogliono. Lasciano una voce, una firma, un suono. E vanno via.

Babilonia è stata conquistata.

A fatica ma è stata conquistata. Adesso Manu Chao può innalzare la sua torre dove suonano tutte le lingue e tutte le musiche del mondo.

Il risultato di questa torre che frana mentre sta raggiungendo il cielo è Casa Babylon, il capolavoro assoluto della Mano Negra o di quel che ne rimane. Dentro c’è Cuba, l’Argentina, il Brasile, l’Ecuador, il Messico, la Colombia, c’è la lista di Paesi che Manu ha visitato e che vengono elencati nella bellissima Sueño de solentiname. C’è il calcio e ci sono i contrabbandieri. C’è tribalismo e combat-rock reso finalmente deflagrante dal missaggio ad opera della Kwaanza Posse. Il Chiapas e la Santeria. Poesia, mistero e ribellione. C’è la vita che passa veloce e che bisogna correre per acciuffarla, bisogna trovare il proprio vagone. Che per Manu Chao non è più quello dei concerti per conquistare chi ha soldi da spendere in concerti ma quello che può portare la musica dove i rumori sono altri, lapidari, implacabili. C’è il dub, il rock ‘n’ roll, la rumba, c’è il reggae e c’è un’energia viva, incontenibile che sommerge tutto fra i clangori di mille tamburi, dei fischietti, di voci che vanno e che vengono, si sovrappongono, si sommano, si dileguano come se quella torre fosse stata costruita sulle sabbie mobili. E un po’ lo è. Non è sabbia, in realtà, ma la polvere stessa di quella mano che ad una ad una ha ormai chiuso tutte le sue dita, lasciando un patrimonio di idee e di energie che non potranno mai più essere replicate da altra mano, di qualunque colore essa sia.

                                                                                       Franco “Lys” Dimauro

 

MANO NEGRA.jpg

MANO NEGRA – Patchanka (Boucherie Productions)  

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Patchanka, il debutto della più influente band francese della storia moderna, è il risultato, piro-tecnico negli intenti e ipo-tecnico nei risultati, dell’applicazione del System D (l’equivalente del DIY divulgato dal punk inglese, NdLYS) al situazionismo musicale. I Mano Negra sono, all’epoca, ancora dei buskers, dei musicisti che nelle gallerie della metropolitana impattano con le altre culture, ne attingono energia ed ispirazione. Si chiedono, soprattutto, cosa muova enormi masse di persone da un posto all’altro del globo, cosa le metta in fuga. Spagna, Irlanda, Giamaica, Cuba, medio-oriente, nord-Africa, sud-America, est-Europa entrano nel cestello della lavabiancheria della band, già pieno di panni francesi, di elastici zigani, di copricapi baschi, di biancheria punk inglese. Centrifugate assieme, fanno capolino dall’oblò a volte in un indistinguibile ammasso di cenci bisognosi di detersivo, altre volte invece in un susseguirsi circolare e sfilacciato di colori che fanno capolino tra la schiuma, inseguendosi l’un l’altro senza posa: è l’aggiornamento di quel crogiuolo di influenze che fu Sandinista!, il disco che dimostrava definitivamente che il futuro negato dei Sex Pistols invece esisteva eccome ma che andava riscritto partendo proprio dalla fusione tra le diverse culture e che il combo francese ribattezza, appunto, Patchanka.

L’accostamento con i Clash, che immaginiamo lusinghiero per Manu (all’epoca, ancora, Oscar Tramor) e compagni, è nell’approccio globale, trasversale alla musica, rispetto alla paralizzante eredità anglosassone di gran parte della musica continentale.

La musica della Mano Negra è stracciona, terzomondista, fumettistica e punk. Tanto che quando arriva nei negozi, finisce che lo trovi sotto dieci scaffali diversi (punk, rock francese, ska, world music, cabaret, folk) o che non lo trovi affatto. Che sia un disco d’assalto è chiaro sin dal siparietto iniziale che porta lo stesso nome della band e che frana addosso come se qualcuno avesse aperto le paratoie di una diga. Trombe, percussioni, pianole Bontempi, bandoneón, chitarre, sintetizzatori, rullanti e contrabbassi arrivano a turno a cercare il loro spazio nella mezz’ora di spettacolo che segue, cercando di farsi largo nella giungla di liane della Mano Negra, a mettere l’accento ai racconti di Manu Chao, autore di tutti i testi e di quasi tutte le musiche, orgogliosamente antifascisti ed apolidi i primi, bizzarramente accostate le une alle altre le seconde fino a sconfinare nel rap (Rock Island Line e Killin’ Rats sono attigue alle soluzioni dei Beastie Boys e dei Big Audio Dynamite) e nel rockabilly (Tackin’ It Up o la Darling Darling che sembra tirata fuori da un disco dei King Kurt). Ma i pezzi che danno contezza del meticciato che è cifra stilistica della band si intitolano però Indios de Barcelona, Ronde de Nuit, Baby You’re Mine, Noche de accion, Mala vida. Inni alla gioia balorda e ai vizi che da sempre accompagnano gli sfrattati dagli spassi di lusso, a Parigi come altrove. La mano nera che sporcava i muri della città prende vita e allunga le dita a prendersi una fetta di mondo. Una grande fetta di mondo.               

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

MAU MAU – Bàss paradis (Vox Pop)

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L’aroma mediterraneo latente su Sauta rabel si sprigiona in tutta la sua magica, avvolgente fragranza su Bàss paradis, capolavoro meticcio realizzato a Torino e completato ai Real World Studios di Peter Gabriel nel 1994 e con cui i Mau Mau firmano uno dei capolavori più sottovalutati della musica italiana. Se il disco di debutto rivelava, nella sua discontinuità, delle crepe destinate a rendere friabile l’impianto acustico del combo torinese, Bàss paradis svela una rotondità, una pastosità sonora incredibile e prodigiosa che lo rendono inattaccabile, come se la formazione piemontese avesse voluto proteggere la sua musica con una placcatura che le facesse da scudo e, insieme, ne aumentasse la lucente bellezza. L’area mediterranea compresa fra le coste africane, spagnole, francesi ed italiane e il movimento nomade delle popolazioni apolidi che le attraversano diventano il paesaggio-chiave della musica dei Mau Mau.

Nacchere, fisarmoniche, chitarre acustiche, percussioni (cuore vibrante del disco, ora incalzanti ora ribollenti come acque sfidate dalla lava), violini scorrono senza posa a raccontare storie di pellegrinaggi e di zuffe etniche tra popolazioni che faticano ad integrarsi, pur respirando della stessa aria, pur guardando allo stesso mare. I Mau Mau realizzano un disco di world music mezzosangue appassionante e moderna, ballabile, creativa, speziata ed imbastardita con tutto quanto puoi sentire infilando l’orecchio dentro una conchiglia trasportata dal Mediterraneo e destinata a farsi tromba di carbonato di calcio sulle nostre spiagge di rena e pietre marine.           

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro