Un giro intorno al mondo, da Odessa a Stoccolma, è quello che ci offrono gli Anuseye col loro nuovo album. Se però state pensando a qualcosa di connotato etnicamente, non potreste essere più lontani dalla verità: il gruppo pugliese continua infatti imperterrito nel suo, di viaggio. Che è quello attorno ad un nucleo incandescente di stoner-rock fortemente connotato da un tocco deciso di psichedelia pesa.
Il risultato è stavolta strabiliante sia per compattezza che per focalizzazione con pezzi come Churchofchrist (che è in realtà un non-luogo che potrebbe rappresentare ogni colonia espugnata dalla repressione cristiana, quindi epitome per eccellenza del “posto giusto nel momento sbagliato” evocato dal titolo, NdLYS) o Stockholm a trascinare l’avanzata dei panzer e le visionarie Medellin e Kyoto a nasconderne i movimenti aspergendo una fitta coltre di nebbia purpurea, in una sorta di apparente dissimulazione del rischio che invece resta tangibile e pronto a colpire anche quando la temperie viene camuffata.
Che gli Ananda Mida stessero gradatamente diventando una band mostruosa credo fosse apparso chiaro a chiunque ne abbia seguito le uscite o a chi si è trovato per caso intrappolato fra le reti delle mie recensioni, ma siccome spesso siete distratti da tanto pattume che non riuscite più a fare la differenziata dei vostri dischi, eccomi qui a portare a testimonianza il loro nuovo Reconciler, punto di approdo della trilogia inaugurata con Anodnatius in epoca pre-pandemica e completata ora che con la fine della pandemia si è tornati ad uccidersi con le bombe a grappolo e ad uranio impoverito, come ai vecchi tempi.
Quello degli Ananda Mida è uno stoner-rock “liquido”, un’enorme nuvola di mercurio a cui restare appesi mentre comincia a colare metallo.
La musica di Reconciler sceglie di non essere mai una ed una cosa soltanto: il gruppo veneto-romagnolo intercetta la chiave di volta dove space-rock, heavy-psichedelia, folk fumogeno e hard-rock si incrociano e lì si installano, vivi, come una Medusa con le sue serpi ancora aggrovigliate e sibilanti. Che poi questa chiave di volta coincida nella lettura mistico-filosofica degli Ananda Mida al polo della Santa Riconciliazione della visione tripolare di Gurdjeff non fa che rendere il progetto ancora più affascinante e pregno di significato esoterico. Perché il viaggio non è mai solo corporeo.
L’esperimento è metalinguistico. Un disco “in dialetto” e non “dialettale” che si veste di abiti appartenenti ad una cultura tipicamente anglofona, usando due codici simbolici e semantici e trasferendoli su un binario unico. Un azzardo, in qualche modo, visto che per la sua struttura fonetica e la sua divisione sillabica la lingua napoletana potrebbe adattarsi ad un facile ruolo ancillare rispetto a musiche allogene ma tutto sommato limitrofe dal punto di vista umorale oppure facilmente adattabili alla metrica partenopea, dal blues al reggae, dall’hip-hop al raggamuffin. Più difficile e rischioso affidare invece l’espressività del rock all’idioma napoletano, come sperimentato anni fa dai 24 Grana quando decisero di switchiare dall’una all’altra modalità espressiva.
Un’operazione che, descritta in questi termini, sembrerebbe roba da intellettuali e che invece si rivela in tutta la sua viscerale incoscienza in questo lavoro dei Thelegati che dovrebbe “zittire chi sape ‘o juoco”, come suggerivano loro nel loro primo album e di cui invece ci troviamo a parlare.
Il suono del gruppo campano è solidissimo, con un impianto chitarristico saturo e compatto che a tratti assume dimensioni proto-stoner, spezzettato però dentro un rifferama che ha dinamiche più sciolte di derivazione punk o, quando il gruppo lo ritiene opportuno, sfilacciandosi in appendici psichedeliche come nella bella Luntano o lungo lo sfintere corroso dall’acido della conclusiva Terra nera. Il risultato è meno “esotico” di quanto si poteva immaginare e mostra invece un efficace lavoro di innesto che non pregiudica il risultato finale, nemmeno nei termini dell’esportabilità. Loro non hanno avuto paura, non abbiatene voi.
Bocciata dalla Vertigo l’idea di intitolare il quarto album dei Black Sabbath alla cocaina, la band inglese optò per un sibillino ringraziamento alla “COKE-Cola company” di Los Angeles nascosto fra i titoli di coda. La stessa “azienda” in cui la band ha investito più di metà del budget assegnatole per la registrazione del quarto album, che di cocaina è pieno fino all’orlo.
Vol 4 è il disco che fonda, venti anni prima, lo stoner-rock dei Kyuss. I riff di Iommi rimangono ben definiti e scolpiti ma il lavoro di produzione sull’”ambiente” li rende meno ossianici e freddi, ampliandone invece la massa sonora. Wheels of Confusion, Snowblind, Cornucopia, Under the Sun, Supernaut, Tomorrow’s Dream sembrano così enormi massi pronti a sfondare il suolo col loro peso, ad assordarci con il loro cupo rimbombo. Ma le bellezze dell’album sono quelle che, a sorpresa, affiorano da questa enorme cappa di lava bollente: Laguna Sunrise è un vero bocciolo che si schiude fra le acque, decidendo di sopravvivere all’inferno e di sfidarlo mentre Changes è un raggelante brano sulla solitudine che dilania la pelle fino ad innestare il suo seme pericoloso dentro il nostro torace. Una spina che penetra fino a toccare le ossa, aspettando che il tempo la calcifichi. I Black Sabbath, abbandonati al piacere più sfrenato, sanno che hanno un cuore che non si sazia di cocaina. E adesso, lo mettono a nudo.
Verso la metà degli anni Novanta gli Heads di Bristol tornarono a seminare il campo di erbacce abbandonato troppo presto dagli Hypnotics e dagli Spacemen 3, calando il secchio dentro un pozzo artesiano colmo di fango stoogesiano e di avanzi decomposti degli Hawkwind e tirando su questo abbeveratoio immondo fatto di stoner e space-rock che in America vedeva nei primi Monster Magnet i maestri viventi indiscussi. Ne viene fuori una babele di lamiere contorte, un tripudio di distorsioni cataclismiche che raramente cede il passo a qualche riff sfrondato dagli eccessi (Television, Taken Too Much), solo per accanirsi subito dopo con maggior veemenza. Mentre la loro città diventa capitale del suono elettronico e delle contaminazioni delle sue tribù urbane, gli Heads riscoprono la forza dell’elettricità brada dell’epoca analogica, dell’esibizione virile del cock rock e del rumore bianco e innalzano attorno a Bristol un’invalicabile recinzione di cavi elettrici.
Un suono denso e pesante, rabbioso ed elettrico, quello di Queens of the Stone Age, con cui la nuova band di Homme si candida a diventare la versione californiana degli ZZ Top.
È dunque ancora roccia e polvere desertica, il dopo-Kyuss. Un suono che, a dispetto del moniker scelto da Josh Homme e suggerito da Chris Goss per la sua nuova avventura (dopo aver dovuto abbandonare il più inflazionato Gamma Ray), è invece fortemente virile e mascolino. Rispetto al gruppo madre c’è un più deciso dirottamento del groove ipersaturo verso una struttura-canzone più definita.
Il debutto dei QotSA rappresenta la sterzata definitiva che potrebbe fare dello stoner il nuovo fenomeno rock americano di massa, dopo l’inaridimento del filone aureo del grunge, con canzoni come If Only e Walkin on the Sidewalks già pronte a risucchiare in un unico vortice di chitarre compresse quello che resta dei Nirvana e dei Soundgarden. Il suono, qui come altrove, si contorce ancora nelle tipiche spirali ossessive ed acide tanto care ai Kyuss ma lungo il disco viene fuori anche il gusto per certo suono robotico e meccanico (You Would Know e I Was a Teenage Hand Model) che potrebbe rappresentare uno dei prossimi approdi del gruppo americano. Ma a fare la figura del leone sono i pezzi che spingono fuori il magma fuzz che ribolle all’interno del gruppo: Avon, How to Handle a Rope, Mexicola, Regular John (un refuso dalle Desert Sessions suonate assieme all’ex-Monster Magnet John McBain), la gommapiuma di piombo di You Can‘t Quit Me Baby (un incrocio tra i Masters of Reality del giardino blu e i Pearl Jam di Ten), la baraonda strumentale di Hispanic Impressions.
Con un muro di suono su cui si staglia il timbro vocale limitato e forse proprio per questo sempre imperturbabile e distaccato di Josh Homme, il cavaliere dell’apocalisse stoner prossima ventura.
Riparatevi gli occhi dalla sabbia, che il vento promette tempesta.
Nonostante i nomi coinvolti (Mark Lanegan, Chris Goss, Mario Lalli, Gene Trautmann, Barrett Martin, Rob Halford, Nick Oliveri che finalmente, dopo la telefonata di annunciazione di I Was a Teenage Handmodel, prende il suo posto ufficiale tra le fila dei QotSA) promettano sfaceli, Rated R è un disco molto distante dal fenomenale debutto di due anni più vecchio.
Un album appesantito da un tedio letale, Rated R. Che, nel tentativo di tagliare definitivamente il cordone ombelicale che legava Josh Homme ai Kyuss e creare “spazio” all’interno del suono delle Regine, fa quasi tabula rasa della furia siderurgica del primo disco e che, quando tenta a fatica di emergere dalle sabbie mobili della noia post-grunge, si lascia plagiare dalle strizzatine d’occhio che il pubblico metallaro comincia a regalare alla band (Lightning Song, Quick and to the Pointless, Monsters in the Parasol).
C’è, urgente, il tentativo di dare una identità nuova alla band, scrollandosi di dosso ogni residuo minerario dell’ ormai franato monolite stoner, cercando a gomitate un posto nella balaustra del rock alternativo americano. Ma quello che emerge dalla disomogenea scaletta di Rated R è una immagine ancora sfocata che in qualche modo potremmo piazzare tra il rock acido degli Screaming Trees di Sweet Oblivion e il punk riottoso dei Foo Fighters dell’esordio. Anche la voce di Homme, da fredda ed impassibile, cerca adesso di agganciare qualche modulazione canora nel tentativo di dare calore/colore al suono dei nuovi Queens of the Stone Age.
E quando l’impresa si fa ardua, ecco venire in aiuto gli amici Mark Lanegan (voce solista su In the Fade, voce spalla su altri tre pezzi) e Nick Oliveri (microfono principale su Quick and to the Pointless, Tension Head, Auto Pilot, seconda voce in quasi tutto il resto del disco) e qualche corista sparso qua e là.
Salutato da più parti come uno dei primi dischi imprescindibili del nuovo secolo, in realtàRated R mette in mostra il tentativo fallito di Homme di travestirsi da rabdomante e trovare qualche vena d’acqua sotto la polvere della Death Valley.
Un piccolo manualetto sulle droghe classificato R quasi inutilmente.
Per il terzo album i Queens of the Stone Age sfoderano la loro migliore line-up di sempre: Josh Homme, Nick Oliveri, Mark Lanegan e Dave Grohl costituiscono la robusta ossatura del gruppo, col solito corollario di collaboratori che va da Chris Goss a Natasha Shneider e i cameo di Casey Chaos degli Amen e Lux Interior dei Cramps. Quello che ne esce è, ovviamente, il loro capolavoro. Un album pensato come disco da viaggio, per coprire le 168 miglia che separano Los Angeles dal parco di Joshua Tree riascoltando per tre volte di fila le canzoni che ci sono dentro.
Songs for the Deaf è un album parossisticamente schizofrenico, capace di toccare vertici di follia metal-core (le You Think I Ain’t Worth a Dollar, But I Feel Like a Millionaire e Six Shooter urlate da Oliveri con le dita affondate nella trachea) e fondali lagunari di dolcezza acustica (la Mosquito Song solcata da un bell’arpeggio di chitarra flamenco). Tra questi due estremi fluttuano alcune delle più belle cose mai scritte e suonate dai QotSA. Dalla No One Knows che scolpisce il bassorilievo di Cold Sore Superstar dentro un monolite di granito a colpi di scure e di clavi, con la chitarra inesorabile di Homme, il basso rantolante di Nick Oliveri e il drumming di Dave Grohl possente come non mai alla melma grungedelica di Hangin’ Tree con la voce di Mark Lanegan che cola come resina dalle pale spinose di un cactus del deserto passando per le meccaniche di First It Giveth e Song for the Dead, per il pop di Go with the Flow e Gonna Leave You, il blues di God Is On the Radio, il sixties-sound di Another Love Song (e, per il pubblico inglese e giapponese, della cover del classico beat Everybody‘s Gonna Be Happy dei Kinks) e per il compressore kyussiano della lunga Song for the Deaf dove tutto assume i contorni spaventosi di una doomedelia abissale che si sposta tra profili sabbathiani e aperture memori dell’hard-rock malinconico degli Screaming Trees.
Disordine e stupore.
Quando già si era detto tutto e sembrava non ci fosse più nulla da dire, la Bestia partoriva pensieri mostruosi.
Guardare l’orologio per vedere quanto manca al termine è un brutto segnale, se stai ascoltando un disco di rock music. A me è successo spesso durante l’ascolto diLullabies to Paralyze. Che, nonostante duri quanto il disco che l’ha preceduto, sembra di una durata infinita.
Segno che qualcosa non funziona, nel dialogo emozionale tra me e i Queens of the Stone Age o quel che ne resta (Nick Oliveri e Dave Grohl hanno ufficialmente deposto la corona). Se la paralisi accennata nel titolo non viene raggiunta, poco ci manca, visto che il meccanismo creativo di Homme pare essersi inceppato da qualche parte. Man mano che il quarto album dei QotSA scorre col suo minutaggio interminabile si fa fatica a capire quali siano i brani portanti e quali i riempitivi di un disco del quale ci si scorderà presto e senza molto rimpianto.
Gli spunti buoni non mancano ma sono come disinnescati forse nel tentativo di evitare le repliche a quanto di buono già fatto, cercando di spingere il suono delle Queens in territori più impervi (tentativo già chiaro nel trittico di apertura e poi via via con esiti sempre più sbiaditi lungo tutto il disco) pur salvaguardando la familiarità del “luogo” (Tungled Up in Plaid e Little Sister sono sintomatiche di questa necessità).
Il risultato è un disco enigmatico, prolisso, incapace di afferrare quel punto lontano che Josh Homme sembra indicare come nuova meta.
Granitico e possente ma pure in qualche modo bizzarro Era Vulgaris suona come un mammuth afflitto dalle articolazioni a scatto o un’enorme nave cargo che imbarca acqua e che tuttavia rimane pesantemente a galla spostando senza posa il carico da una parte all’altra della stiva, portando in salvo i silos arrugginiti di Battery Acid, Misfit Love, I’m a Designer, Sick Sick Sick, Turnin’ on the Screw, 3’s & 7’s portandole al largo dalle acque paludose del vecchio stoner in cui sembrerebbero a tratti voler affondare. Da questo enorme magnete seppellito cui il vascello dei QotSA tuttavia continua a venire calamitato sembrano immuni, alla fatta dei conti, solo Into the Hollow e il sincopato blues Make It wit Chu in una nuova versione orfana della voce di PJ Harvey mentre le tracce conclusive ne tratteggiano una deriva post-industriale, come di ferro accartocciato che grugnisce sotto il tormento delle macchine. Trascinandosi fuori dall’età della pietra per affrontare l’era volgare i Queens of the Stone Age riaffiorano come l’Olandese Volante.
All’indomani di Era Vulgaris l’”orologio” dei QotSA si inceppa, col risultato che il disco che veniva annunciato come prossimo già nell’estate del 2008 esce infine solo in quella del 2013. Cinque anni in cui l’agenda della band si riempie di necrologi, operazioni chirurgiche, visite mediche, riabilitazioni e defezioni improvvise che impongono un riassetto del gruppo, costretto in qualche modo a riprendere a bordo Dave Grohl a sessions ormai avviate, e l’amato/odiato Nick Oliveri con lui. Tanto da riportare indietro le lancette ai tempi di Songs for the Deaf.
Sembra il presupposto perfetto per la replica di quel capolavoro ma il miracolo non avviene: laddove il primo era un album trascinante, …Like Clockwork si rivela un ascolto sfibrante, soprattutto nella seconda parte della sua scaletta. Perché è un album che ha un po’ la forma di una medusa, con la sua testa ad ombrello dentro la cui cavità ritroviamo i QotSA che conosciamo (I Sat by the Ocean, My God Is the Sun, If I Had a Trial, Keep Your Eyes Peeled) e un finale tentacolare dove il suono si sfilaccia disperdendosi come riflessi perlacei nell’acqua. Da lontano sembrano vuoti sacchetti di plastica sbranati dai pesci ma se provi a toccarli ti lasciano un urticante segno di velenosa diffidenza lungo il braccio.
Rientro dalle ferie estive e trovo il nuovo e tanto atteso Queens of the Stone Age ad attendermi a braccia aperte. La notizia della produzione affidata a Mark Ronson ha dominato il gossip musicale per tutta l’estate nonostante qui in Italia se la sia battuta con quella affidata a Rubin per il nuovo di Jovanotti e dunque c’era moltissima curiosità attorno a Villains, predestinato a diventare il Disco-Inferno della formazione californiana. Dunque, la domanda che ci ronzava in testa era: quanto Ronson troveremo dentro il nuovo QotSA? Tanto, tantissimo.
Peccato (o menomale che) non si tratti di Mark ma di Mick.
Villains è infatti una croccante, friabile fetta biscottata cosparsa di tanta marmellata bowiana. Che può anche voler dire trovarsi a tavola con i Muse, cosa che in effetti succede in chiusura del disco, ma che il più delle volte invece riesce a trovare una stilosa via di fuga dal classico, martellante hard-rock che ci si aspetta sempre debba venir fuori dalla chitarra di Josh Homme, così come da quella di Troy Van Leeuwen e da cui invece i due musicisti sembrano voler scappare sempre più sovente. La patina glam che gioca ai limiti col kitsch (i Muse, dicevo, ma anche gli ZZ Top degli anni Ottanta sembrano sempre dietro l’angolo) sempre più spessa con cui i QotSA hanno deciso di rivestire la loro musica ne rinnova, se non la vitalità, perlomeno la grinta e Villains è il prodotto perfetto per soddisfare un pubblico che si lascia accontentare da poco, che non ha più bisogno di stupirsi e che regala applausi a piene mani ai propri idoli, qualunque cosa facciano. Pur di avere un sogno in cui credere e non rinnegare il proprio tatuaggio.
“Sconsigliato ai deboli di cuore” non lo leggevo dai primi anni Novanta. L’ho riletto sul sito della Matador proprio in relazione al nuovo album dei Queens of the Stone Age ed è stato come piombare nel vecchio mondo di recensioni punk/HM di una vita fa. Dunque, ECG alla mano, il mio cardiologo mi ha permesso di accettare la sfida e saziare la mia curiosità.
In Times New Roman… riporta a spasso quel mollusco strappato dalla conchiglia stoner decenni fa e costretto a strisciare nudo per il mondo, rivestito appena da un piccolo ma tenace esoscheletro necessario per sopravvivere alle polveri del deserto che furono l’habitat primigenio e successivamente fondare colonie altrove, in posti meno inospitali. Facendo capolino da quelle tane, i QotSA non rischiano più di uscire dalla propria comfort zone, limitandosi a spostare di tanto in tanto il salotto e il pouf per i piedi cercando di evitare le piaghe da decubito. In Times New Roman… è l’ennesimo disco fatto di idee già sentite e ampiamente sfruttate, un taglia-e-cuci di tutto lo scibile caro al gruppo californiano e con il cui tutorial anche Manuel Agnelli riesce ormai a far meglio di loro, che si limitano a trascinare il loro stesso feretro lungo l’inutile prosopopea di Sicily e nell’interminabile boogie di Straight Jacket Fitting.
Come se il macellaio di fiducia, terminata da un pezzo la carne di qualità, si ostinasse a tenerci sul libro clienti vendendoci qualche scarto al prezzo del primo taglio. I Queens of the Stone Age, più che portarci ai tempi dei romani, sembrano far riaffiorare alla nostra memoria quelli meno gloriosi dei Tin Machine (Carnavoyeur). Il crepuscolo degli dei. E delle regine.
Mi sono addormentato al primo pezzo, lo ammetto. Che la senilità non fa sconti. E ai ventitre minuti ci arrivo ormai a fatica, in tutti i sensi. Tanto più che l’interminabile The Offender prova a dire per un’intera facciata quello che gli ZZ Top dicevano in un quinto del tempo, senza peraltro argomentare efficacemente quel che è un semplice ritmo boogie. Il latrato alla Captain Beefheart di Disposable Thumbs però mi rapisce dal torpore, preparandomi allo Stones-sound di Bad Call che con i suoi cinque minuti abbondanti è l’unica traccia “snella” di un disco che abbonda di minutaggi infiniti, specialità in cui Paul Major e i suoi guardaspalle eccellono. Jim Tully, la traversata psichedelica che occupa per intero la terza facciata del disco supera per minutaggio il brano inaugurale. Ma anche in bellezza, con la sua docile carezza fuzz che si muove languida e rassicurante come l’abbraccio di mamma. The Conversation è appena un flebile soffio morente, un funereo mantra dove anche gli strumenti vengono inghiottiti dal buco nero dell’anima pronta all’ultimo volo e che ci introduce al budello afflitto dal morbo crauto di The Incompetent Villains of 1968, completando la facciata più greve dell’intero lavoro. Che è vivo per metà, agonizzante per l’altra.
C’è un clima di solenne austerità che pervade il nuovo disco di Ty Segall, il che però non ne delegittima lo stile, rendendolo tuttavia vicino ad una sorta di versione “sferica” del carburatore dei Kyuss/Queens of the Stone Age. Una sorta di scudo termico, di scorza d’uovo, di capsula ermetica dentro cui si muove la solita glassa glam nipotastra di Marc Bolan e sempre più figliastra delle contorsioni chitarristiche di Jack White. I graffi da unghie laccate di Waxman, Harmonizer, Feel Good (cantata dalla moglie Denée, NdLYS), la sonnolenta virata di Ride sono l’epitome di questo stile che si avvicina molto a quello degli ultimi Royal Trux. Whisper, Play e Pictures preferiscono invece imbottirsi di chitarre sature come nella miglior tradizione stoner del deserto californiano, pur riverberandosi dentro un che di peccaminoso e sfuggente.
Il viaggio stavolta dura appena una ventina di minuti ed è solo un’appendice ai due album sin qui pubblicati dagli Ananda Mida, tanto per leccarsi le orecchie in attesa di Reconciler. Si tratta di tre brani registrati dal vivo ovviamente in epoca pre-COVID di cui due strumentali (una versione senza voce di Anulios più una jam-session con Mario Lalli degli Yawning Man/Fatso Jetson.
Un EP per i fanatici della formazione veneta, che a questo punto dovrebbero essere già un bel po’: anodo e catodo hanno fatto il loro dovere e fatto scoccare una scintilla che si è presto trasformata in una fiamma ben più vigorosa e duratura dei tanti fuochi di paglia che infiammano i cuori per qualche stagione o dei fuochi fatui che vaporizzano sopra gli amabili resti di chi ha già affidato ai vermi la sua dimora terrena. Karnak, pur non esibendo alcuna sorpresa, serve a tenere viva quella fiamma portandoci a casa un po’ del calore delle torrenziali esibizioni live degli Ananda Mida. Musica dai polmoni d’acciaio. E Dio sa quanto questo voglia dire adesso. Respirate…
Il primo funghetto probabilmente lo hanno ingoiato, dunque eccoci al secondo.
I Wasted Shirt non sono altri che Ty Segall e Brian Chippendale dei Lightning Bolt, qui alle prese con una parete mobile di stoner rock che si muove fra noise e doom/death metal. Con le sue tonnellate di distorsione vomitate addosso, ingranaggi meccanici e a propulsione che sembrano ingolfarsi e poi tornano a muoversi minacciosi Fungus II sembra portarci indietro alla furia caotica dei Motorpsycho di Lobotomizer, alle officine di lamiere piegate dal maglio operaio delle industrie dei soviet, alle radicali colate di rumore con cui proteggevamo la nostra adolescenza dall’assalto conformista degli adulti. Ora che siamo ad un passo dalla vecchiaia e alle sottili pareti di zinco che ci separano dagli altri più giovani di noi.