AИUSEYE – Right Place Wrong Time (Go Down)

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Un giro intorno al mondo, da Odessa a Stoccolma, è quello che ci offrono gli Anuseye col loro nuovo album. Se però state pensando a qualcosa di connotato etnicamente, non potreste essere più lontani dalla verità: il gruppo pugliese continua infatti imperterrito nel suo, di viaggio. Che è quello attorno ad un nucleo incandescente di stoner-rock fortemente connotato da un tocco deciso di psichedelia pesa.

Il risultato è stavolta strabiliante sia per compattezza che per focalizzazione con pezzi come Churchofchrist (che è in realtà un non-luogo che potrebbe rappresentare ogni colonia espugnata dalla repressione cristiana, quindi epitome per eccellenza del “posto giusto nel momento sbagliato” evocato dal titolo, NdLYS) o Stockholm a trascinare l’avanzata dei panzer e le visionarie Medellin e Kyoto a nasconderne i movimenti aspergendo una fitta coltre di nebbia purpurea, in una sorta di apparente dissimulazione del rischio che invece resta tangibile e pronto a colpire anche quando la temperie viene camuffata.

Siamo nel posto giusto.

Nel momento giusto.

In pericolo perenne.      

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ANANDA MIDA – Reconciler (Go Down)

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Che gli Ananda Mida stessero gradatamente diventando una band mostruosa credo fosse apparso chiaro a chiunque ne abbia seguito le uscite o a chi si è trovato per caso intrappolato fra le reti delle mie recensioni, ma siccome spesso siete distratti da tanto pattume che non riuscite più a fare la differenziata dei vostri dischi, eccomi qui a portare a testimonianza il loro nuovo Reconciler, punto di approdo della trilogia inaugurata con Anodnatius in epoca pre-pandemica e completata ora che con la fine della pandemia si è tornati ad uccidersi con le bombe a grappolo e ad uranio impoverito, come ai vecchi tempi.

Quello degli Ananda Mida è uno stoner-rock “liquido”, un’enorme nuvola di mercurio a cui restare appesi mentre comincia a colare metallo.

La musica di Reconciler sceglie di non essere mai una ed una cosa soltanto: il gruppo veneto-romagnolo intercetta la chiave di volta dove space-rock, heavy-psichedelia, folk fumogeno e hard-rock si incrociano e lì si installano, vivi, come una Medusa con le sue serpi ancora aggrovigliate e sibilanti. Che poi questa chiave di volta coincida nella lettura mistico-filosofica degli Ananda Mida al polo della Santa Riconciliazione della visione tripolare di Gurdjeff non fa che rendere il progetto ancora più affascinante e pregno di significato esoterico. Perché il viaggio non è mai solo corporeo.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

THELEGATI – Senza paura (Urtovox)

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L’esperimento è metalinguistico. Un disco “in dialetto” e non “dialettale” che si veste di abiti appartenenti ad una cultura tipicamente anglofona, usando due codici simbolici e semantici e trasferendoli su un binario unico. Un azzardo, in qualche modo, visto che per la sua struttura fonetica e la sua divisione sillabica la lingua napoletana potrebbe adattarsi ad un facile ruolo ancillare rispetto a musiche allogene ma tutto sommato limitrofe dal punto di vista umorale oppure facilmente adattabili alla metrica partenopea, dal blues al reggae, dall’hip-hop al raggamuffin. Più difficile e rischioso affidare invece l’espressività del rock all’idioma napoletano, come sperimentato anni fa dai 24 Grana quando decisero di switchiare dall’una all’altra modalità espressiva.

Un’operazione che, descritta in questi termini, sembrerebbe roba da intellettuali e che invece si rivela in tutta la sua viscerale incoscienza in questo lavoro dei Thelegati che dovrebbe “zittire chi sape ‘o juoco”, come suggerivano loro nel loro primo album e di cui invece ci troviamo a parlare.

Il suono del gruppo campano è solidissimo, con un impianto chitarristico saturo e compatto che a tratti assume dimensioni proto-stoner, spezzettato però dentro un rifferama che ha dinamiche più sciolte di derivazione punk o, quando il gruppo lo ritiene opportuno, sfilacciandosi in appendici psichedeliche come nella bella Luntano o lungo lo sfintere corroso dall’acido della conclusiva Terra nera. Il risultato è meno “esotico” di quanto si poteva immaginare e mostra invece un efficace lavoro di innesto che non pregiudica il risultato finale, nemmeno nei termini dell’esportabilità. Loro non hanno avuto paura, non abbiatene voi.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

BLACK SABBATH – Vol 4 (Vertigo)

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Bocciata dalla Vertigo l’idea di intitolare il quarto album dei Black Sabbath alla cocaina, la band inglese optò per un sibillino ringraziamento alla “COKE-Cola company” di Los Angeles nascosto fra i titoli di coda. La stessa “azienda” in cui la band ha investito più di metà del budget assegnatole per la registrazione del quarto album, che di cocaina è pieno fino all’orlo.

Vol 4 è il disco che fonda, venti anni prima, lo stoner-rock dei Kyuss. I riff di Iommi rimangono ben definiti e scolpiti ma il lavoro di produzione sull’”ambiente” li rende meno ossianici e freddi, ampliandone invece la massa sonora. Wheels of Confusion, Snowblind, Cornucopia, Under the Sun, Supernaut, Tomorrow’s Dream sembrano così enormi massi pronti a sfondare il suolo col loro peso, ad assordarci con il loro cupo rimbombo. Ma le bellezze dell’album sono quelle che, a sorpresa, affiorano da questa enorme cappa di lava bollente: Laguna Sunrise è un vero bocciolo che si schiude fra le acque, decidendo di sopravvivere all’inferno e di sfidarlo mentre Changes è un raggelante brano sulla solitudine che dilania la pelle fino ad innestare il suo seme pericoloso dentro il nostro torace. Una spina che penetra fino a toccare le ossa, aspettando che il tempo la calcifichi. I Black Sabbath, abbandonati al piacere più sfrenato, sanno che hanno un cuore che non si sazia di cocaina. E adesso, lo mettono a nudo.     

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE HEADS – Relaxing with… (Headhunter)

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Verso la metà degli anni Novanta gli Heads di Bristol tornarono a seminare il campo di erbacce abbandonato troppo presto dagli Hypnotics e dagli Spacemen 3, calando il secchio dentro un pozzo artesiano colmo di fango stoogesiano e di avanzi decomposti degli Hawkwind e tirando su questo abbeveratoio immondo fatto di stoner e space-rock che in America vedeva nei primi Monster Magnet i maestri viventi indiscussi. Ne viene fuori una babele di lamiere contorte, un tripudio di distorsioni cataclismiche che raramente cede il passo a qualche riff sfrondato dagli eccessi (Television, Taken Too Much), solo per accanirsi subito dopo con maggior veemenza. Mentre la loro città diventa capitale del suono elettronico e delle contaminazioni delle sue tribù urbane, gli Heads riscoprono la forza dell’elettricità brada dell’epoca analogica, dell’esibizione virile del cock rock e del rumore bianco e innalzano attorno a Bristol un’invalicabile recinzione di cavi elettrici.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

ENDLESS BOOGIE – Admonitions (No Quarter)

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Mi sono addormentato al primo pezzo, lo ammetto. Che la senilità non fa sconti. E ai ventitre minuti ci arrivo ormai a fatica, in tutti i sensi. Tanto più che l’interminabile The Offender prova a dire per un’intera facciata quello che gli ZZ Top dicevano in un quinto del tempo, senza peraltro argomentare efficacemente quel che è un semplice ritmo boogie. Il latrato alla Captain Beefheart di Disposable Thumbs però mi rapisce dal torpore, preparandomi allo Stones-sound di Bad Call che con i suoi cinque minuti abbondanti è l’unica traccia “snella” di un disco che abbonda di minutaggi infiniti, specialità in cui Paul Major e i suoi guardaspalle eccellono. Jim Tully, la traversata psichedelica che occupa per intero la terza facciata del disco supera per minutaggio il brano inaugurale. Ma anche in bellezza, con la sua docile carezza fuzz che si muove languida e rassicurante come l’abbraccio di mamma. The Conversation è appena un flebile soffio morente, un funereo mantra dove anche gli strumenti vengono inghiottiti dal buco nero dell’anima pronta all’ultimo volo e che ci introduce al budello afflitto dal morbo crauto di The Incompetent Villains of 1968, completando la facciata più greve dell’intero lavoro. Che è vivo per metà, agonizzante per l’altra.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TY SEGALL – Harmonizer (Drag City)

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C’è un clima di solenne austerità che pervade il nuovo disco di Ty Segall, il che però non ne delegittima lo stile, rendendolo tuttavia vicino ad una sorta di versione “sferica” del carburatore dei Kyuss/Queens of the Stone Age. Una sorta di scudo termico, di scorza d’uovo, di capsula ermetica dentro cui si muove la solita glassa glam nipotastra di Marc Bolan e sempre più figliastra delle contorsioni chitarristiche di Jack White. I graffi da unghie laccate di Waxman, Harmonizer, Feel Good (cantata dalla moglie Denée, NdLYS), la sonnolenta virata di Ride sono l’epitome di questo stile che si avvicina molto a quello degli ultimi Royal Trux. Whisper, Play e Pictures preferiscono invece imbottirsi di chitarre sature come nella miglior tradizione stoner del deserto californiano, pur riverberandosi dentro un che di peccaminoso e sfuggente.

Che è quel che am(iam)o del glam.

Che è quel che am(iam)o di Ty.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

ANANDA MIDA – Karnak (Go Down)

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Il viaggio stavolta dura appena una ventina di minuti ed è solo un’appendice ai due album sin qui pubblicati dagli Ananda Mida, tanto per leccarsi le orecchie in attesa di Reconciler. Si tratta di tre brani registrati dal vivo ovviamente in epoca pre-COVID di cui due strumentali (una versione senza voce di Anulios più una jam-session con Mario Lalli degli Yawning Man/Fatso Jetson.

Un EP per i fanatici della formazione veneta, che a questo punto dovrebbero essere già un bel po’: anodo e catodo hanno fatto il loro dovere e fatto scoccare una scintilla che si è presto trasformata in una fiamma ben più vigorosa e duratura dei tanti fuochi di paglia che infiammano i cuori per qualche stagione o dei fuochi fatui che vaporizzano sopra gli amabili resti di chi ha già affidato ai vermi la sua dimora terrena. Karnak, pur non esibendo alcuna sorpresa, serve a tenere viva quella fiamma portandoci a casa un po’ del calore delle torrenziali esibizioni live degli Ananda Mida. Musica dai polmoni d’acciaio. E Dio sa quanto questo voglia dire adesso. Respirate…    

Franco “Lys” Dimauro 

WASTED SHIRT – Fungus II (Famous Class)  

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Il primo funghetto probabilmente lo hanno ingoiato, dunque eccoci al secondo.

I Wasted Shirt non sono altri che Ty Segall e Brian Chippendale dei Lightning Bolt, qui alle prese con una parete mobile di stoner rock che si muove fra noise e doom/death metal. Con le sue tonnellate di distorsione vomitate addosso, ingranaggi meccanici e a propulsione che sembrano ingolfarsi e poi tornano a muoversi minacciosi Fungus II sembra portarci indietro alla furia caotica dei Motorpsycho di Lobotomizer, alle officine di lamiere piegate dal maglio operaio delle industrie dei soviet, alle radicali colate di rumore con cui proteggevamo la nostra adolescenza dall’assalto conformista degli adulti. Ora che siamo ad un passo dalla vecchiaia e alle sottili pareti di zinco che ci separano dagli altri più giovani di noi.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro