A ridosso degli anni Novanta, quando esplode il fenomeno hip-hop e il linguaggio rap assurge a slang di massa, Mark Griffin si diverte a creare musica che a nessuno sembra interessare, elaborando gli stessi elementi cari alla cultura hip-hop: piatti, scratching, sampling, pattern ritmici, valanghe di parole messe a servizio di un suono scuro ed obliquo che mi è sempre piaciuto definire come l’anello imperfetto e molto stiloso fra The The e Beck.
Tre album passati quasi inosservati ma opportunamente intercettati da gente come gli U2 ad esempio che ne ruberanno qualche idea per mettere su un disco trendy come Zooropa (per tacere degli agenti pubblicitari della Levi‘s, NdLYS).
Poi Mark si rompe le balle e abbandona il mercato discografico, lavorando saltuariamente come DJ nella sua Dallas.
Welcome to My Dream, il più bello dei tre, è una lunga striscia di asfalto e plexiglass metropolitano lungo la quale scorrono ombre funky, soul e jazz.
Schegge di Gil Scott-Heron, Miles Davis, Tower of Power, Flash and The Pan, Kurtis Blow, un tappeto di percussioni digitali o afro-jazz (Falling Elevators, Dali‘s Handgun), le dita di DJ Zero (il collaboratore della “star” del rap bianco Vanilla Ice, NdLYS) che scratchano come fossero le lame delle dita di Freddy Krueger e la voce filtrata di Mark “MC 900 Ft. Jesus” Griffin che costruisce fonemi e sintassi su un immaginario da cinema noir.
Un disco cibernetico, un piccolo mostro bionico che ci piove addosso come le lacrime di Roy Batty.
Franco “Lys” Dimauro