R.E.M. – And I Feel Fine… (Capitol)

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Il meglio degli anni su I.R.S..

Ovvero, i migliori anni dei R.E.M., quelli in cui il sogno prende forma, in un angolo remoto della provincia americana. Gli anni migliori anche per noi, a pensarci bene, che scorrendo la track-list, proviamo un brivido ad ogni titolo, come se ogni brano fosse uno di quei distributori dove ci siamo fermati a far benzina quando avevamo tredici, quindici, diciassette anni e avevamo già sete di petrolio: Fall on Me, Begin the Begin, Radio Free Europe, Pilgrimage, Sitting Still, It’s the End of the World (as We Know It), These Days, Finest Worksong, I Believe, Welcome to the Occupation, Cuyahoga, Talk About the Passion, 7 Chinese Bros., Can’t Get There from Here, Driver 8, Sitting Still e tutte le altre che sapete a memoria, per un totale di quaranta, al netto di un paio di “repliche”. E pure qualcuna che non sapete o che conoscete con addosso un altro vestito, a volte anche migliore (è il caso di Bad Day, qui ancora in una versione acerba tanto da restare fuori dall’album cui era destinata).

Cinque album e un mini-Lp fondativi per tutto il college rock. Larve che diventano farfalle sotto i nostri occhi. Bachi da seta che ci cingono in un abbraccio di arpeggiata tenerezza.

La prateria americana si spopola di bufali e diventa il regno alle antilopi.

Welcome back to Rockville.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

YUNG WU – Shore Leave (Coyote)

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Gli Yung Wu sono i Trypes che tornano a suonare come i Feelies, dietro un separé da ombre cinesi. Però quando passa una cosa come Spinning le riconosci eccome quelle sagome, anche se adesso la voce narrante dello spettacolo è quella di Dave Weckerman.

Shore Leave è a tutti gli effetti una costola strappata a The Good Earth, anche se la scelta della “mascherata” giapponese permette al gruppo di smarcarsi dalle aspettative che il ritorno in scena di quell’altro si era trascinate dietro.

Sempre che ai Feelies, ai Trypes, ai Willies, agli Yung Wu o come diavolo vogliono farsi chiamare interessi qualcosa, cosa di cui non sarei tanto certo.

Però Shore Leave appare più votato al disimpegno rispetto a The Good Earth, alla divertita jam da cantina, con adeguata scelta di cover di circostanza (Big Day, Child of the Moon, Powderfinger) col dito indice che indica la luna e quello medio che indica voi.

Neil Young li guarda dalla spiaggia.

Di spalle.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE WEATHER PROPHETS – Mayflower (Elevation/WEA)

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Nel 1986 Lenny Kaye viene invitato in Inghilterra per dare una mano ad un nugolo di band indie in odore di major: i James, i Microdisney e i Weather Prophets sono gli ingaggi che decide di accettare.

Per i Weather Prophets, nati dallo scioglimento dei Loft, è Alan McGee (primo bassista, estemporaneo, del gruppo) ad esporsi in prima persona e chiedere a Kaye di produrre il loro album di debutto, quello che lì catapulterà dalla Creation alla WEA, attraverso la sussidiaria Elevation, nata e morta nel 1987 dopo un paio di album e una mezza dozzina di singoli. Le “previsioni meteo” della band londinese però non erano del tutto corrette: al momento in cui il fiore di maggio sarebbe sbocciato sarebbe seguito un lunghissimo inverno in termini di vendita, col gruppo inceppata nello stato di cult-band che Almost Prayed gli aveva garantito (rimarcato dalla lunga Five Minutes in the Life of Greenwood Goulding dedicata al loro bassista dai Biff Bang Pow! NdLYS), senza riuscire a varcare la soglia del grande successo e finendo per chiudere l’avventura nel volgere di un anno.

A voler essere obiettivi, il guizzo migliore dell’album viene proprio da Almost Prayed. Il resto, eccezion fatta per il rockabilly di Swimming Pool Blue e la contagiosa melodia di The Key to My Love Is Green, scorre via come acqua piovana, senza inzuppare i pastrani.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

fIREHOSE – “fROMOHIO” (SST)

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Su “fROMOHIO” il suono dei fIREHOSE diventa ancora più scintillante, quasi fosse una versione placcata funky dei Meat Puppets. Tutta ondulata ed irsuta la musica del terzetto diventa archetipica di quel modo trasversale di intendere la musica che è propria della SST, finendo per sconfinare anche nella musica tradizionale (Liberty for Our Friend, il breve sipario di Vastopol rubato all’amatissima Elizabeth Cotton) e raschiare il culo come mai prima d’oro al nuovo power-rock (Time with You, che vede la neo-sposa di Watt Kira Roessler nel team di autori, sacrifica l’anarchia per vestire la tuta sintetica da supereroe dell’instant-hit) acquisendo in qualche modo l’eredità dei Replacements (oltre che riscattare, nel giro di basso di Whisperin’ While Hollerin’ e in quello funambolico di What Gets Heard che nasconde sotto la sua spessa gomma pneumatica i riff della Rio duraniana, la paternità IN TOTO dei Red Hot Chili Peppers, NdLYS) e accaparrandosi il diritto di finire dritti nella storia della musica americana.  

If you don’t believe me you can ask John Doe

’Cause his heart is made of glory, his voice is made of gold

He’ll tell you in a minute about the men he knows

He’ll tell you about a band called fIRE-HOOOOOOSE!                                                                        

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE REPLACEMENTS – Tim (Let It Bleed edition) (Rhino)

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Sto davanti a Tim. Di nuovo.

La prima volta avevo quindici anni, adesso più del triplo.

Intorno tutto è cambiato ma Tim riesce ancora a riportarmi all’età sciagurata dell’adolescenza, agli anni delle “prime volte”. Ora che Ed Stasium ci ha messo le mani sopra e rimettere ordine fra i volumi, ancora di più, ancora meglio, ancora più forte.

Sono i Replacements col fiocco (il nuovo missaggio di Stasium), senza fiocco (la versione “corretta” in digitale del disco originale), con la camicia sbottonata (le versioni alternative e spesso implumi del terzo disco) e ancora quelli coi pantaloni slacciati e a torso nudo (quelli del set live che occupa un intero disco).

Siamo noi abbigliati e svestiti allo stesso modo. Siamo noi che ce ne sbattiamo del mondo, siamo noi feriti a morte eppure imbattibili, bersagli ignudi con la corazza. Noi stravaccati su un autobus che si affaccia sul precipizio. Noi coi libri sotto il braccio, in mancanza d’altro.  

Sto davanti ad un Tim che sanguina, di nuovo.

E sanguina soprattutto quando, sul quarto dei dischi presenti nella reissue della Rhino, la band accende gli ampli sul palco del Cabaret Metro di Chicago in una notte d’inverno del 1986 e dopo averli accesi, li bruciano fino a ridurli in cenere con una scaletta che vede pezzi come Johnny’s Gonna Die, I Will Dare, Tommy Gets His Tonsils Out, Unsatisfied, Jumpin’ Jack Flash, Borstal Breakout e poi quelle Bastards of Young, Kiss Me on the Bus, Dose of Thunder, Little Mascara che da quel disco provengono e che hanno ancora i tagli sulla carne, non ancora ricuciti, non ancora cicatrizzati.  

Young, young, young, young. Take it, it’s yours, take it. It’s yours.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GAME THEORY – Lolita Nation (Enigma)

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Ormai conscio delle possibilità offerte da un rinnovato giro di musicisti, Scott Miller realizza il lavoro più ambizioso dei Game Theory: un doppio album che resterà il primo e unico lavoro in studio a godere di quel formato nel catalogo della Enigma. Il disco è un pregevole guazzabuglio di suoni neo-psichedelici (il piccolo diadema di Nothing New), piccoli sketch sonori (fra cui, anni prima dei R.E.M., quello riguardante il giornalista Dan Rather di Kenneth-What’s the Frequency?), frenesie power-pop, assalti chitarristici (Dripping with Looks, Little Ivory, il rumorismo lo-fi di The Waist and the Knees che sembra una previsione meteo dei dEUS, NdLYS), country filiformi (Toby Ornette), siparietti alla Robyn Hitchcock come One More for Saint Michael e un paio di numeri scritti e cantati dalla neo-assunta Donnette Thayer che avvicinano il suono del gruppo a quello delle Bangles.

Non è tutto oro colato, ma Lolita Nation celebra i Game Theory come una band eccentrica e con una grande curiosità e ambizioni da sfamare. E in parte, già sfamate.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE YOUNG FRESH FELLOWS – The Men Who Loved Music (Frontier)

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La musica la amano per davvero, gli Young Fresh Fellows. E, apparentemente, l’amano tutta. The Men Who Loved Music conferma quanto la band di Seattle sia una versione appena appena più seria e musicalmente molto più preparata dei They Might Be Giants con i quali condividono il morbo onnivoro per qualsiasi cosa sia riproducibile musicalmente, tenendo il buonumore come unica discriminante e collante fra i generi. Power pop trionfale alla stregua degli Hoodoo Gurus, ritmi ska, sorridente musica da rodeo le vie più praticate lungo il lunghissimo percorso del loro terzo album.

Una babele che la band governa sprigionando una perizia tecnica mastodontica da rock band navigata (si ascolti l’assolo di My Friend Ringo o i dialoghi strumentali di I Don’t Let the Little Things Get Me Down).

Fulmini e saette su una festa di paese, fino a che tutto non venga bruciato nella più grande epifania della contea di Seattle.       

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

fIREHOSE – San Pedro Fire Department

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Ed Crawford si faceva chiamare fROMOHIO perché era da lì che proveniva, dall’Ohio. Appena ventenne era arrivato a San Pedro solo per un motivo: incontrare Mike Watt e convincerlo del fatto che il miglior modo per elaborare il lutto di D. Boon era continuare quello che i Minutemen avevano fatto per sei anni, ovvero trovare una casa ai margini della foresta punk e appiccarle fuoco.  

Era già sulla via del ritorno quando Mike Watt lo richiamò per dirgli che la notte, oltre ai brutti sogni che da qualche mese gli regalava, gli aveva anche portato consiglio: in quel preciso momento nascono i fIREHOSE, progettati per tenere accesa quella vampa, per coprire di fuliggini funk l’alternative rock degli anni Ottanta. Ecco allora che il basso nudo che Mike Watt aveva esibito sul bel disco dei Dos assieme alla compagna Kira (e che qui collabora come quarto membro scrivendo assieme al marito la metà dei pezzi, NdLYS) torna a coprirsi su “Ragin’, Full On” con il completo che già vestiva ai tempi dei Minutemen e a lanciarsi in una cornucopia di canzoni funamboliche eppure sobrie come quelle dei Meat Puppets cui dichiarano apertamente stima, con il nuovo arrivato che pennella e scrive le ballate meno cervellotiche del disco, figlie tanto dei R.E.M. (come la bellissima Choose Any Memory) quanto del più classico cantautorato folk (la debole This…) e che tuttavia si diverte da matti ad alternare il suo strimpellio alle pulsanti catene ritmiche di Watt e Hurley, come su Brave Captain, Locked-in, Relatin’ Dudes to Jazz e Chemical Wire. Come faceva D. Boon quando il sole era ancora alto nel cielo della California.

                                                                                   

Conclusa l’avventura degli Hüsker Dü e sigillata dentro il disco-capolavoro dell’alternative rock degli anni Ottanta, c’è ancora una foto del trio di Minneapolis a far capolino tra le novità dei negozi di dischi. Il 1987 inaugurato da Warehouse: Songs and Stories non si è ancora spento quando arriva nelle vetrine “if’n”, il disco dove in qualche modo tutto un certo modo di intendere la musica trova la sua dimora finale e allestisce forse il suo ultimo capolavoro prima di cedere il passo ai giovani eroi del grunge che decreteranno la precipitosa eclissi della SST.

Le esasperazioni funk-core dei Minutemen sono definitivamente placate, anche se le sincopi nere del basso di Mike Watt e le rullate fuori schema di George Hurley permangono in buona parte del repertorio (Backroads, From One Cums One). Ma a compiere il miracolo e ad emancipare i fIREHOSE dalla pesante eredità della band di D. Boon sono le canzoni dal taglio più diretto e orecchiabile, come Honey, Please, Making the Freeway, Anger, Operations Solitare, In Memory of Elizabeth Cotton, Soon. Piccoli capolavori messi lì a ricordarci che siamo stati adolescenti quando sulle college radio passavano Meat Puppets, Replacements, Thin White Rope, X. E che dunque la nostra era stata un’adolescenza che ci avrebbe regalato il dono del rimpianto.

Proprio come quella dei nostri padri che invece l’avevano trascorsa cantando le canzoni dei Creedence.  

E che dunque potevamo, noi e loro, andare insieme a consumare un frullato di banane dentro un qualche bar della città.

Un qualsiasi frullato.

In un qualsiasi bar.

In una città qualsiasi.    

Perché noi e loro, eravamo appartenuti a qualcosa di bellissimo.  

                                                                               

Su “fROMOHIO” il suono dei fIREHOSE diventa ancora più scintillante, quasi fosse una versione placcata funky dei Meat Puppets. Tutta ondulata ed irsuta la musica del terzetto diventa archetipica di quel modo trasversale di intendere la musica che è propria della SST, finendo per sconfinare anche nella musica tradizionale (Liberty for Our Friend, il breve sipario di Vastopol rubato all’amatissima Elizabeth Cotton) e raschiare il culo come mai prima d’oro al nuovo power-rock (Time with You, che vede la neo-sposa di Watt Kira Roessler nel team di autori, sacrifica l’anarchia per vestire la tuta sintetica da supereroe dell’instant-hit) acquisendo in qualche modo l’eredità dei Replacements (oltre che riscattare, nel giro di basso di Whisperin’ While Hollerin’ e in quello funambolico di What Gets Heard che nasconde sotto la sua spessa gomma pneumatica i riff della Rio duraniana, la paternità IN TOTO dei Red Hot Chili Peppers, NdLYS) e accaparrandosi il diritto di finire dritti nella storia della musica americana.  

If you don’t believe me you can ask John Doe

’Cause his heart is made of glory, his voice is made of gold

He’ll tell you in a minute about the men he knows

He’ll tell you about a band called fIRE-HOOOOOOSE!                                                                        

                                                                                

Come inebriati dal nuovo contratto con la Columbia, i fIREHOSE finiscono per cadere come mosche dentro quel calice di vino. E, proprio come i ditteri dai grandi occhi composti, per annegarci dentro.

A parte il vezzo di incorniciare il titolo con le virgolette e di dedicare un siparietto a qualche collega (i Meat Puppets e Michael Stipe sui dischi precedenti mentre qui è il turno di Dave Alvin), ben poco rimane della vecchia band SST. Non che “Flyin’ the Flannel” sia completamente privo di idee, ma certamente è povero di grinta ed è una mancanza che la band prova a dissimulare cadendo nel banale gioco della chitarra distorta e dei riff e dei solo elettrici di cui son pieni non solo gli scaffali dei dischi. Il vecchio funky, quando c’è, sembra inevitabilmente inquinato da una sorta di vena caraibica (Epoxy for Example) o pare volteggiare su una pista ghiacciata di jazz (Toolin’), senza reggersi all’impiedi. La sensazione è che i fIREHOSE ci siano scivolati dalle mani, che il loro sogno non sia più il nostro, tanto meno quello di D. Boon. Che guardandosi allo specchio, non trovino più alle loro spalle il pubblico che ne aveva fatto degli eroi. Che la flanella che in quel momento va per la maggiore li abbia costretti a vestire un guardaroba inadeguato.   

                                                                               

Alla fine, anche le virgolette sono saltate.

Mr. Machinery Operator segna il definitivo affrancamento dei fIREHOSE dal loro passato funk-rock e la resa incondizionata all’alternative rock americano che sta impazzando nella prima metà degli anni Novanta, Dinosaur Jr. in testa (con J Mascis a collaborare fattivamente a quattro brani e a produrre l’intero lavoro). L’identità della band risulta così seriamente compromessa e l’assalto alle nuove tendenze vanaglorioso e, nei fatti, privo di soddisfazioni tanto da decretare la fine del gruppo. Un pezzo come il seppur notevole Rocket Sled/Fuel Tank li porta addirittura in territori post-core, ad un passo dai Quicksand e dai Fugazi mentre Hell Hole è un episodio di contorsionismo che somiglia più ad un soundcheck di una terribile band da pub in fregola per Santana che a quello cui la band pensava, qualsiasi cosa fosse (e che comunque non ci è dato conoscere).

Le fiamme sono spente.

La casa è salva.

Ma disabitata.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE CLEAN – Compilation (Flying Nun)

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Chitarre sbrindellate come fosse il foglio stropicciato della scaletta di un concerto dei Velvet Underground o, ancora meglio, dei Modern Lovers. E poi un organetto sornione da festa di compleanno in ludoteca. E ancora una batteria di cartone. E un basso di legno. É l’indie-rock di Dunedin, Nuova Zelanda, che i Clean contribuiranno a definire (assieme ad altre minuscole realtà cittadine come i Verlaines, i Same e gli Enemy) e la Flying Nun ad istituzionalizzare.

Jangle-rock da buskers, fondamentalmente, eppure pieno di ambizioni arty che in effetti non verranno mai tradite ma pienamente raggiunte da molti di loro, i Clean in primis.

Compilation è la raccolta di vecchie registrazioni dei primi anni Ottanta che la Flying Nun pubblica mentre il gruppo è chissà dove, chissà a fare cosa, salvo poi ripresentarsi alla porta di Roger Shepherd agli inizi del decennio successivo per pubblicare, a dodici anni dalla nascita, il loro primo album. Trovandosi peraltro a sfidarsi a campo aperto, ma piovoso, con gli eredi diretti del loro stile: i Pavement. La partita terminerà con una vittoria schiacciante dei californiani, complice una tifoseria agguerrita che è sempre mancata dalla curva dei neozelandesi. Ma i Clean degli anni Ottanta non avevano rivali, nonostante alcune ascendenze simili in termini di “stilizzazione” rock fosse presente in maniera massiccia in Inghilterra e nel nord della Gran Bretagna.

I Clean però suonavano più naif, meno intellettualoidi, avevano meno filigrana esistenzialista e più spirito infantile. Erano, insomma, i Josef K ma alle scuole medie.

Con in repertorio un inno sfatto come Oddity che altri se lo sognavano e molti continuano a sognarselo ancora oggi.     

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

fIREHOSE – “Ragin’, Full-On” (SST)

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Ed Crawford si faceva chiamare fROMOHIO perché era da lì che proveniva, dall’Ohio. Appena ventenne era arrivato a San Pedro solo per un motivo: incontrare Mike Watt e convincerlo del fatto che il miglior modo per elaborare il lutto di D. Boon era continuare quello che i Minutemen avevano fatto per sei anni, ovvero trovare una casa ai margini della foresta punk e appiccarle fuoco.  

Era già sulla via del ritorno quando Mike Watt lo richiamò per dirgli che la notte, oltre ai brutti sogni che da qualche mese gli regalava, gli aveva anche portato consiglio: in quel preciso momento nascono i fIREHOSE, progettati per tenere accesa quella vampa, per coprire di fuliggini funk l’alternative rock degli anni Ottanta. Ecco allora che il basso nudo che Mike Watt aveva esibito sul bel disco dei Dos assieme alla compagna Kira (e che qui collabora come quarto membro scrivendo assieme al marito la metà dei pezzi, NdLYS) torna a coprirsi con il completo che già vestiva ai tempi dei Minutemen e a lanciarsi in una cornucopia di canzoni funamboliche eppure sobrie come quelle dei Meat Puppets cui dichiarano apertamente stima, con il nuovo arrivato che pennella e scrive le ballate meno cervellotiche del disco, figlie tanto dei R.E.M. (come la bellissima Choose Any Memory) quanto del più classico cantautorato folk (la debole This…) e che tuttavia si diverte da matti ad alternare il suo strimpellio alle pulsanti catene ritmiche di Watt e Hurley, come su Brave Captain, Locked-in, Relatin’ Dudes to Jazz e Chemical Wire. Come faceva D. Boon quando il sole era ancora alto nel cielo della California.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro