MONO MEN – Shut Up! (Ghost Highway)

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Torna con l’originale sottotitolo “un intero disco di pezzi strumentali per tutti quegli stronzi cui non piace come cantiamo” ma con titolo e copertina diversa quello Shut the Fuck Up! già pubblicato come 10” nel 1993 e subito ristampato in versione allungata e digitale dalla 1+2 Records con le medesime dodici tracce che trovate qui. La nuova versione in vinile è di quattrocento copie, da distribuire equamente fra gli stronzi cui non piace come cantano i Mono Men e gli stronzi cui non piacciono i Mono Men anche quando non cantano. La formazione di Washington si copre il pube con le foglie di fico cadute dagli alberi di Dick Dale e soprattutto Link Wray ma in realtà celando un’erezione che ricorda quella di Davie Allan, come succede quasi sempre nell’eden della musica strumentale di estrazione rock ‘n’ roll, aggiungendo un po’ di fogliame autoctono o di altra provenienza (come la conclusiva Cruster’s Theme degli Young Fresh Fellows). Magari non vi piaceranno neppure adesso. E non credo che ai Mono Men possa fregargliene di meno.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro  

1313 MOCKINGBIRD LANE – Unfinished Business – The Toilet Tapes (Cacophone)

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Tornare al 1313 di Mockingbird Lane per farsi prendere a calci in culo dai fantasmi.

Ormai disabitata da tempo, la vecchia dimora del gruppo di Albany continua a scricchiolare e friggere come un vecchio incensiere arrugginito che continua a bruciare vecchi stracci garage-rock.

Qualcuno lì dentro sembra aver usato il water non solo per le sue deiezioni corporali ma anche come discarica abusiva di vecchio ciarpame. Alla faccia dell’incorporeo di cui i fantasmi stessi sono rappresentazione gassosa e sfuggente.

Ad infilarci le mani, la stessa Cacophone che cinque anni fa ha ristampato in grande stile il loro album di debutto. Se allora o addirittura all’epoca della sua uscita vi piacque quello, vi piacerà anche questo, nonostante oltre le solite squinternate canzonacce sixties-punk come Teenage Frankenstein, Queen Bitch, Georgette o Things Aren’t Like They Were Before si respiri (avendo cura però di trattenere il fiato sulla sequenza di peti e scorregge di Laughing Gas, NdLYS) una maggiore adesione a certo trash-rock alla Cannibals (One Ugly Child, Bye Bye Johnny, Gonna Make You Mine, Road Runner) che puzzava alla fine dello stesso olezzo di garage punk acido e pungente.

Se siete vestiti eleganti e puliti come damerini, state lontani da Mockingbird Lane.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BOTANICA – With All Seven Fingers (AL!VE)

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Alla fine si sono un po’ persi per strada, i Botanica.

E anche noi abbiamo un po’ perso la nostra.

Ma all’epoca di With All Seven Fingers, quando ormai avevano deciso di esportare il male newyorkese fino in California nascondendo le ammaccature blues del loro furgone fatiscente con una bella patina di alternative rock che gli permettesse di non dare nell’occhio, erano ancora una band fantastica.

Certo, il rischio di farsi beccare c’era stato eccome. Soprattutto quando Kid Congo Powers aveva deciso di abbassare il finestrino e di intonare con la sua voce da bevitore di Godfrey’s Cordial la filastrocca ubriaca di Power ricordando i suoi giorni all’inferno con Lux Interior, Jeffrey Lee Pierce e Nick Cave.

Era stato, manco a dirlo, il momento più emozionante del viaggio.

Perché quando il gruppo sembrava accartocciarsi su se stesso e fare paragoni fra i loro testicoli e quelli di gente come Tom Waits e Leonard Cohen, come in TrappedDirty Little NeedMalediction, dava ancora il meglio di sé. Ma anche quando si sforzava di dimostrarsi inutilmente su di giri, come nell’arrangiamento alla Barry Adamson di Let’s Go o su Giacometti Hound, i Botanica sapevano il fatto loro. Che era, per un po’, anche il fatto nostro.  

Poi, ognuno è tornato a farsi i fatti suoi.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MANIAXXX – The Last Nightmare of Captain Mission (Beast)

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Musica per corvacci malefici, quella dei torinesi Maniaxxx.

L’ultimo incubo di Captain Mission è una visione intestinale e fecale dei sogni Melvilliani di un mare torbido, infestato e velenoso, che rumoreggia di catene e legno fradicio, stormi di uccelli malauguranti, sciabordio di acque stagnanti di plancton e stridori di sirene affamate di amore e di sangue.

Un suono fatto a brandelli, quello dei Maniaxxx, anche quando carica qualche riff a pallettoni prima di ingugitarne i proiettili e rimanerne soffocato oppure scegliendo di deviarne la traiettoria. Cosi che il garage-rock non è mai esattamente garage-rock, il blues è solo lo strascicato tormento del suo cadavere, il rockabilly si copre di un sudario noise e la psichedelia marcisce in fondo all’abisso assieme alle alghe e le spume surf si dileguano lasciando intravedere le carcasse degli zombie di The Walking Dead barcollanti su tavole dove vermi e tarme banchettano voraci.

Voi invece siete sempre quello che vi promettete di essere?       

                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

KILLING JOKE – What’s THIS for…! (EG)

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A furia di evocare i demoni, i demoni alla fine arrivano.

Ai Killing Joke bussano alla porta proprio dopo l’uscita di What’s THIS for…!, manifestandosi sotto forma di globi luminosi simili a quelli delle prime sequenze di Ultraman, annunciando la fine del mondo che Jaz Coleman andrà ad aspettare seduto su un ghiacciaio islandese salvo poi tornarsene a casa a spalle curve come i milleriti il 23 ottobre del 1844. Ossessioni che fanno pendant con la musica del quartetto inglese, sempre più pregna di cattivi presagi, sempre più martoriata dalle ruote dentate della perversione, schiacciata da nuvole apocalittiche, pervasa da un tribalismo soffocante in cui anche il canto diventa a volte (come nell’iniziale chiamata all’adunata di The Fall of Because) pura, straziante vertigine perpendicolare, in una sorta di trance che ricorda gli sciamani dei pow-wow pellirossa, fino alla fustigazione finale. Canzoni come Who Told You How?, Exit, Unspeakable, la formidabile corsa in pendio di Follow the Leaders ma anche gli interminabili corridoi da ospedale psichiatrico di Butcher e Madness dimostrano in maniera inequivocabile il gusto sadico per le stanze della tortura.   

Basso e batteria sono l’anima pulsante del disco, il cingolato su cui le chitarre strisciano come una scolopendra semi-meccanica.

L’opificio del diavolo ha ripreso la sua attività.

Noi da quassù lo sentiamo lavorare con dedizione mentre odoriamo il profumo sanguigno del fuoco.    

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE DEPRESSIONS – The Depressions (Barn)

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Bannati dalla storia per i loro testi pesantemente sessisti e scorretti al limite della denuncia per istigazione alla violenza sessuale, i Depressions erano forse la miglior punk band di Brighton. Nati come ossigenati epigoni dei maestri mod Small Faces e Who, i Depressions diventarono una punk band coi controfiocchi agli inizi del 1978, accendendo gli animi fino a creare incidenti finiti in tragedia come quello del 6 maggio del ’78 al Preston Polytechnic dove, proprio tra il set dei Deps e quello dei Vibrators, ci scappò il morto.  

L’unico album inciso dalla band (in realtà ce ne fu un secondo, sotto diverso nome e già lontano dalla bellezza furiosa del primo, NdLYS) contiene alcune delle più belle canzoni del punk britannico indipendente come Street AttackBasement DazeHigh Rise LivingChains and LeatherGet Out of This Town.

Roba suonata come Dio comanda e come i quattro ragazzi hanno imparato zappando sui riff di Townshend e Marriott e che ci fa essere clementi anche sulle misoginie da teppistelli di Screw Ya.   

Voi continuate pure a cercare il punk dove non c’è.

Io mi fermo qualche pomeriggio qui. 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RINO GAETANO – Cronaca vera

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Una sequenza di piccoli mattoni e una porta malmessa, bruciata dal sole dalla cui maniglia ciondola un cartello con scritto Ingresso libero.

Così, graficamente il cantautore di Crotone Rino Gaetano fa il suo curioso ingresso nel mondo della musica.

Ma a ben guardare il ventiquattrenne Rino sta già lasciando l’edificio. È già entrato, si suppone. E ora sta andando via con passo deciso. Come se fosse appena uscito dopo aver incontrato qualcuno. La storia ci rivela che in effetti è andata proprio così: dietro quella porta Rino Gaetano ha appena incontrato Agapito Malteni, Crotonese anch’egli, ora di pianta a Manfredonia dove fa il macchinista ferroviere.

Il revisionismo complottista cui le straordinarie coincidenze e oscure citazioni dei testi di Gaetano inevitabilmente porteranno a rileggere la sua storia dopo la sua morte (anch’essa descritta con minuziosa precisione da lui stesso su una delle sue primissime canzoni) ci dirà che invece forse no, non è andato ad incontrare un proletario meridionale qualsiasi ma è appena uscito dopo essersi affiliato alla Massoneria, stringendo un patto laico col diavolo pur di scalare i gradini del successo.

Comunque sia, la storia di Agapito Malpeni è una delle prime storie di antieroi sociali che Rino Gaetano ci racconterà nella sua brevissima carriera. Uno dei suoi più viscerali atti di amore per quel Sud che egli stesso sarà costretto a tradire per inseguire un sogno, ché a sud di Roma i sogni fanno fatica ad attecchire. Al di là dei facili e voluti rimandi di Agapito Malteni il ferroviere a due canzoni come La locomotiva di Guccini e Il bombarolo di De André, Ingresso libero è accostabile per temi ed ispirazione a quel capolavoro che è Il giorno aveva cinque teste scritto da Roberto Roversi e musicato da Lucio Dalla. Se l’occhio puntato a Sud di Rino Gaetano è un occhio velato dalla cataratta della malinconia, l’altro occhio è libero di esorcizzare tutto con filastrocche e giochi lessicali ineguagliabili, che già si ravvisano qui in A Khatmandu e che saranno sempre presenti nella sua scrittura (Glu glu, Nuntereggaepiù, Standard, Su e giù), usando un linguaggio libero dalle prigioni ideologiche del cantautorato italiano classico e mediato da un’ironia e una satira giullaresca. È questo strabismo artistico a rendere Rino Gaetano sin da subito un personaggio atipico, istrionico, sfuggente (come nello scatto di copertina) nel panorama italiano.

Ad un passo dal cantautorato impegnato ed uno dalla canzonetta, come dimostrerà da lì a breve il grandissimo successo di Ma il cielo è sempre più blu, carosello definitivo del neo-realismo in musica di cui Rino Gaetano diventerà a breve il più alto esponente. Sotto un cielo che alla fine se ne frega delle ingiustizie sociali, una processione di poveri cristi che vivono di speranze e di espedienti, cavalcano una giostra dove per cinque minuti possono fingere una felicità posticcia. 

Libero Rino Gaetano, proprio come l’ingresso del portone dietro cui vive e lavora Agapito Malteni, ferroviere.

 

Qual’era la dote più grande di Rino Gaetano? Quella di raccontare cose serissime nascondendole dietro un apparente, svagato e dissacratorio non-sense.

Raccontare la vita pubblica e privata degli italiani farcendola con una glassa di ironia pungente: questa era l’arte di Rino Gaetano. Descrivere l’amarezza delle vite comuni fotografando la loro ovvietà dentro una cornice di accadimenti storici che le sfiorano o a volte le trascinano con se, travolgendole. La normalità che diventa eroica senza compiere nessun atto eroico, proprio per la consuetudine e la piccolezza che usano come esile scudo. Vite fatte di poco, amori “fatti di niente”, feste di paese, lavori salariati. Cantati con la facilità che piace alla gente normale. Evitando come la peste la retorica militante, i suoni e il linguaggio ricercato, le ambasciate dalle segreterie del partito. Riadattando se stesso al livello dei protagonisti delle sue canzoni e mettendo queste allo stesso livello del suo pubblico, Rino Gaetano compie la sua piccola grande rivoluzione. Scende dal piedistallo cantautoriale degli anni Settanta e si dona alla pari.

Canta l’emarginazione dell’amore e del lavoro e la solitudine che ne deriva, la delusione per le promesse non mantenute, per i sogni mai raggiunti, per i pensieri non pensati che poi ti vengono a cercare in sogno e si sfaldano con la luce del giorno o diventano spettri alla luce itterica di qualche pensilina della stazione, mentre aspettiamo il solito treno su cui ancora una volta non saliremo.

I protagonisti di Mio fratello è figlio unico sono emarginati per vocazione o per destino. Eroici sfollati senza avere bisogno dello sfollagente. Gente del Sud spaesata dall’emigrazione imposta tacitamente come unica alternativa a un futuro color marrone. Costretti a lasciare le case popolari della Calabria per abitare le cooperative grigie degli appaltatori del Nord.

Costretti a vedersi derubati del sole ma ancora capaci di farsi abbagliare da una contadina bianco vestita. Ancora custodi di una purezza difficile da raschiare via.

 

Aida è nome di donna ed è nome di patria. Figlie entrambe, pur senza volerlo, dell’epoca fascista. Aida è il titolo dell’opera di Verdi che ha come teatro il Corno d’Africa che saranno predate dai sogni espansionistici mussoliniani e Aida è il titolo e la protagonista del terzo album di Rino Gaetano, seduta di spalle accanto alla bandiera italiana e a quelle dei suoi vecchi e nuovi alleati, a guardare un mare che, come il cielo, è “sempre più blu”, un disco pubblicato nel giugno del ’77,  esattamente a ridosso di quella famosa stretta di mano fra Berlinguer e Aldo Moro che avrebbe sottoscritto formalmente il “compromesso storico” tra “Cristo e Stalin” cui Rino Gaetano, nell’ennesimo, inquietante, inspiegabile presagio del futuro di cui amava infarcire le sue canzoni accenna fra le righe del testo del pezzo che, proprio citando la marcia trionfale dell’opera di Verdi, ci introduce al suo terzo album in una serie di istantanee e di doppi sensi allegorici che riassumono la storia italiana dal ventennio fascista fino allo scandalo Lockheed dell’”antilope” Andreotti. La storia dell’Aida del cantautore calabrese è la storia di un’Italia che va in frantumi mentre cammina sui cocci della sua storia passata, la storia di un grande circo dove i cantautori (Guccì(ni), Vendì(tti), Vecchiò(ni), Dallà) sono chiamati a tenere alto il valore morale di una penisola schiacciata dalle malefatte dei nuovi pirati in doppiopetto o in abito corale Juan Lyon (Giovanni Leone), July Andreotten (Giulio Andreotti), Halde Moore (Aldo Moro), Emyle Coulombe (Emilio Colombo), Maryanne Roumorh (Mariano Rumor), Donaccatten (Carlo Donat-Cattin), Fanfonfanfan (Amintore Fanfani), Papammontin (Paolo IV), la storia di un paese che cerca di galleggiare sul suo fallimento affogando nel mare del consumismo più sfrenato o affidandosi alla Dea bendata, la storia di un paese in cui dagli errori passati si finisce per non imparare mai ma vengono anzi tramandati come regole di vita da padre in figlio, perpetuando quel rosario di stereotipi e di luoghi comuni snocciolati ad esempio su Ok papà e che, molto più dei libri di scuola, formano le nuove generazioni sul qualunquismo delle generazioni precedenti formando quella società borghese che ne costituisce la fetta sociale più numerosa e più influente. La storia, per ultimo, di un paese dove gli indizi sono sempre troppo pochi per poter costituire una prova chiara di colpevolezza, restando nell’ambito del sospetto, del chiacchiericcio giornalistico, delle sentenze mai passate in giudicato, delle arringhe basate su “Rare tracce” di qualsiasi cosa.

Musicalmente Aida è un disco sicuramente più avventuroso ed elaborato dei precedenti, con autentici grovigli strumentali come Rare tracce e Spendi spandi effendi, l’aria svagatamente medievale di Sei ottavi, le divagazioni un po’ leziose di La festa di Maria e Fontana chiara. Perché Rino è uno che vuole fare le cose per bene, nonostante voglia salvaguardare il suo linguaggio semplice ma ricco di allusioni e di riferimenti all’attualità che saranno l’archetipo taciuto ed inconscio su cui si fonderà gran parte del linguaggio dei rapper che nel ’77 non erano ancora nati e che avranno proprio in Gaetano uno dei pochi padri spirituali di pelle chiara.

 

Che Rino Gaetano abbia avuto un “canale preferenziale”, diciamo così, che gli abbia permesso di conoscere in anteprima o in esclusiva gli attori degli scandali italiani attraverso un’affiliazione alla loggia massonica, come avanzato da qualche giornalista (che per lo stesso motivo avanza dubbi sulla sua morte dichiarandola per nulla accidentale, NdLYS) non è dato sapere. Ma al di là dell’audace e intrigante ipotesi, resta il fatto che la sfilza di nomi e allusioni di molti suoi testi ha un che di divinatorio seppur mascherato dietro una tracotanza popolare che si riannoda alla tradizione dei cantastorie e delle filastrocche infantili che ne fa un cantautore di denuncia senza in realtà alcun punto di contatto con quello che è considerato, alla fine degli anni Settanta, il “cantautorato impegnato”. Rino Gaetano preferisce invece vestire i panni di un saltimbanco o di rinnovare la tradizione delle macchiette ormai desuete di Petrolini (massone anch’esso, se vogliamo stare al gioco fino in fondo, NdLYS) coltivando la curiosità tipica dei grandi artisti satirici che sono tali solo se affondano i denti nell’attualità. Un investimento che produce stavolta il succoso scioglilingua di Nuntereggaepiù, dove allinea uno dopo l’altro i “pupari” italiani: politici, industriali, personaggi televisivi, opinionisti, grandi firme della moda, sportivi e cantautori che manovrano in qualche modo le fila dell’opinione pubblica, lanciando qualche altro sasso nel lago degli scandali e degli insabbiamenti italiani citando, en passant, il caso Montesi. Ai palazzinari e i loro affari loschi in odor di santità è riservato il “girone” degli avidi di Fabbricando case mentre i politici che rivendicano il loro ruolo di protettori della razza operaia sono raccontati nel canto di Capofortuna. Ma, proseguendo nelle analogie dantesche, il ruolo del Rino Gaetano di Nuntereggaepiù non è tanto quello del poeta toscano quanto quello di Virgilio, ovvero quello di guida apparentemente imparziale. Si limita a raccontare i fatti senza compiacersi per la pena inflitta. Un cronista delle sopraffazioni che cerca il riscatto nel vizio, nella fuga, nella contemplazione della bellezza non potendo arrampicarsi su quella scala sociale i cui pioli sono stati spezzati dagli scarponi di chi sta sempre in alto. Il disco mostra pure però un preoccupante calo di ispirazione musicale evidente in canzoni sfocate come Dans le chateau, Cerco e nelle compiacenti marcette di Stoccolma e Gianna, preludio al grande successo e alla perdita di verginità che farà di Rino Gaetano un artista pronto per essere azzannato da un pubblico pronto a guardare il dito mentre questo indicava la Luna.

 

Il passaggio dalla sussidiaria It alla casa madre RCA in seguito al successo sanremese di Gianna ha come prima tangibile conseguenza lo spiacevole sospetto, alimentato dalla terribile copertina in cui ai corpi perfetti e al bacio ammiccante delle modelle fa da contrasto la superficialità grammaticale con cui Ahi Maria si trasforma in Hai Maria e un titolo che, orfano di punteggiatura, si trasforma in un piatto Resta vile maschio dove vai, di una speculazione superficiale, sommaria e di cattivo gusto. 

Una volta realizzato che quella che ha in mano è la nuova gallina dalle uova d’oro, la RCA “spedisce” Rino Gaetano tra Miami e Messico, pagando fior fiori di musicisti e tecnici del suono locali, sborsando profumatamente per delle sale di registrazione che Rino Gaetano ha visto fino a quel momento solo su foto e affiancando per la prima volta un autore esterno per “perfezionare” quella che dovrebbe essere la canzone-traino del disco e che, non solo per l’ingerenza di Mogol, finisce per essere una roba a metà strada tra il Battisti più stucchevole e Pino D’Angiò. Un successo perseguito a lungo e che, ora che è stato raggiunto, sembra non dare nessuna gioia a Rino. Chi lo conosce bene giura che la sua espressione ha perso quel guizzo, quel sorriso, quella luce che lo aveva sempre contraddistinto. Sembra diventato di stucco come parte del suo nuovo materiale musicale che, come nel disco precedente, è buono solo per metà (Nel letto di Lucia, Io scriverò, la muzak da sombreri e trombe mariachi di Ahi Maria riproposta in maniera meno efficace e già meno convincente sulla conclusiva Su e giù) e nel quale anche lo stesso cantautore stenta a riconoscersi, finendo per promuovere il disco in tv cantando delle stupide canzonette messicane smascherando il suo malcontento per un disco che non sente suo e che venderà meno della metà di quanto aveva fatto con Nuntereggaepiù. Il nuovo Rino Gaetano piace a meno gente del previsto e, quel che è peggio, non piace più neppure a sé stesso.

 

Non essendo riuscita a fare di Rino Gaetano il nuovo Battisti e cercando di rientrare dall’enorme investimento per Resta vile maschio, dove vai?, la RCA si chiude in mega-riunioni e incontri ai vertici al termine dei quali decide che, forse, può farne un cantautore rock come aveva fatto con Ivano Fossati. Ecco dunque che impone a Rino Gaetano un disco dai tratti più marcati. Un disco tosto, pieno di chitarre al seguito del quale lavorerà addirittura a fianco dei Perigeo per un tour che sarà l’ultimo della sua vita. E che forse sarebbe stato tale in ogni caso, anche senza la tragedia che si sarebbe consumata in circostanze da pelle d’oca in quel giugno 1981 in cui Rino Gaetano avrebbe “messo in scena” quanto scritto anni prima su La ballata di Renzo. Seguendo il copione passo passo, senza margine di improvvisazione.

E io ci sto è dunque un disco dall’impronta più robusta, più “da band che suona il rock” (e il reggae), alle prese con canzoni come E io ci sto, Jet Set, Sombrero e quel furbo plagio di E Berta filava che è Michele ‘o pazzo è pazzo davvero, autentiche stranezze come La donna mia e quell’Ufo a ufo che verrà poi scartata assieme all’enorme, bellissima parata de Le beatitudini (pubblicata postuma solo nel 1990) che concede ai perdenti de Ma il cielo è sempre più blu perlomeno il riscatto biblico degli ultimi e riserva uno spicchio di quel cielo anche ai critici e agli esegeti di questa e di tutte le sue canzoni diventati miopi a furia di cercare tra le righe delle sue canzoni e delle sue magliette indossate sotto il frac.                                                 

Franco “Lys” Dimauro

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DAVID PEEL & DEATH – King of Punk (Orange)

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Ancora oggi, più di quarant’anni dopo, il testo di King of Punk, un’invettiva lunga oltre sette minuti in cui l’agitatore David Peel manda a fare in culo tutta l’intera scena punk di New York, spingendosi fino ai Sex Pistols che si sono appena liquefatti, il testo di King of Punk non lo trovate da nessuna parte se non in qualche fanzine ciclostilata in poche copie.

Ancora più ovvio è che in nessun libro “canonico” sul punk troviate il nome di David Peel, anche perché il saltimbanco della Grande Mela con quella scena non c’entrava e non voleva entrarci granché. Emerso come folksinger di protesta, poi diventato profeta della legalizzazione delle droghe leggere, quindi entrato nel turbinoso mondo di John Lennon e Yoko Ono, Peel non era mai esploso nonostante un contratto di tutto rispetto con la Apple. Alla fine degli anni Settanta, una volta essersi visto sorpassare da una sfilata infinita di finti rivoluzionari che marciano protetti da uno scudo chiamato punk-rock, ha covato ormai così tanto rancore che decide di autoproclamarsi Re del Punk, un po’ come il vandalo Goda.

Si infila due dita in gola, e vomita addosso al pubblico tutto il suo odio. Massacrando i loro beniamini, vestito come loro.

La progressione armonica, una paleolitica sequenza di accordi alla Be a Caveman viene replicata per l’altro anthem dell’album, Punk Rock, dove però viene fagocitata da una corrosiva e affamata chitarra capricciosa in stile Deviants/MC5. Una formula che, con poche varianti se non quella di raddoppiarne la durata, si apre un varco anche nella lunga arringa di Who Killed Brian Jones?.

Il parossismo musicale da depravati incapaci infetta tutto il disco e finisce per suonare alla stessa maniera impacciata ma bruciante delle garage band degli anni Sessanta in episodi come The Master Race, Murder Burgers, Uptight Manhattan o in quella non molto distante delle Mothers of Invention di Freak Out (He’s Called a Cop, Marijuana). In equilibrio fra parodia e nemesi, King of Punk tenta l’assalto ad un impero già distrutto, devastato da quello che il Re pensa sia solo uno stormo di cavallette.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LORETTE VELVETTE – Lost Part of Me (Veracity)

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Nel 1997, mentre voi eravate intenti a guardare le gambe di PJ Harvey e di Courtney Love (o forse no, quelle della Love avevate smesso di guardarle un paio di anni prima), io continuavo a guardare quelle di Lori Godwin, dai tempi dei Panther Burns ormai ribattezzata Lorette Velvette.

Non che le esibisse più di tanto, in realtà. Bastava la sua musica a renderla erotica. Quello struscio di ferraglia trascinata sul pavimento in gres porcellanato della cucina di Cherry Red, ad esempio. Oppure quel riff macilento ma ostinato alla Not Moving di Lost Part of Me che poi esplode in mille stelle filanti di chitarre sfilacciate. O ancora quel tunnel simile all’intestino colitico di Captain Beefheart che è Come On Over.

Oppure quel battipanni che picchia sulle natiche del 20th Century Boy amico di Marc Bolan. O ancora quelle belle chitarre cariche di elettricità glam che fanno capolino su Dirt degli Stooges e Boys Keep Swinging di Bowie. Che poi lei avesse (ce l’ha ancora, tranquilli, è viva e vegeta tra le fila di quei matti dei Kropotkins assieme a quella bertuccia di Moe Tucker, NdLYS) una voce da gazza, poco importava: il suo terzo album solista era una cannonata.

Senza bisogno di mostrare le gambe, peraltro. E canticchiando come se fosse a passeggio per le strade di Paperopoli.    

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

PORNO FOR PYROS – Good God’s Urge (Warner Bros.)

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Onirico fino a rasentare l’orto botanico dei Cure di The Top e Kiss Me Kiss Me Kiss Me (provate a sentire il funky distopico di Freeway, le tastiere subacquee di Porpoise Head, le buffe trombe messicane di 100 Ways o la superba, ascetica Thick of It All), il secondo album dei Porno for Pyros è un giardino d’inverno a strapiombo su qualche costa dell’America Centrale.

Al centro giganteggia un’enorme pianta carnivora che ha ormai completamente divorato quello che sul disco precedente era ancora masticato, ovvero il corpo dei Jane’s Addiction avvolto in un sonno che sembra perenne. La nuova barbarie rifiuta l’assalto frontale e sceglie di scorrere come un fluido carsico fino ad irretire le gambe del nemico, vomitando lentamente dalle sabbie mobili sottoforma di folk appena turbato da influssi tropicali, fiati mariachi e polveri di una qualche Atlantide che è venuta giù sotto i nostri piedi mentre sprofondando cercavamo di captare un qualche segnale dalle stelle, come Re Magi sperduti nella via.

Fuori il sole si allarga come la coda di un pavone che tra la pioggia ha individuato la sua pavonessa. E poi diventa cremisi come il mantello di un torero e nero come il ventaglio della sua dama che seduta in tribuna vedrà schizzare tra la polvere il rivolo disgustoso della morte.       

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro