Una sequenza di piccoli mattoni e una porta malmessa, bruciata dal sole dalla cui maniglia ciondola un cartello con scritto Ingresso libero.
Così, graficamente il cantautore di Crotone Rino Gaetano fa il suo curioso ingresso nel mondo della musica.
Ma a ben guardare il ventiquattrenne Rino sta già lasciando l’edificio. È già entrato, si suppone. E ora sta andando via con passo deciso. Come se fosse appena uscito dopo aver incontrato qualcuno. La storia ci rivela che in effetti è andata proprio così: dietro quella porta Rino Gaetano ha appena incontrato Agapito Malteni, Crotonese anch’egli, ora di pianta a Manfredonia dove fa il macchinista ferroviere.
Il revisionismo complottista cui le straordinarie coincidenze e oscure citazioni dei testi di Gaetano inevitabilmente porteranno a rileggere la sua storia dopo la sua morte (anch’essa descritta con minuziosa precisione da lui stesso su una delle sue primissime canzoni) ci dirà che invece forse no, non è andato ad incontrare un proletario meridionale qualsiasi ma è appena uscito dopo essersi affiliato alla Massoneria, stringendo un patto laico col diavolo pur di scalare i gradini del successo.
Comunque sia, la storia di Agapito Malpeni è una delle prime storie di antieroi sociali che Rino Gaetano ci racconterà nella sua brevissima carriera. Uno dei suoi più viscerali atti di amore per quel Sud che egli stesso sarà costretto a tradire per inseguire un sogno, ché a sud di Roma i sogni fanno fatica ad attecchire. Al di là dei facili e voluti rimandi di Agapito Malteni il ferroviere a due canzoni come La locomotiva di Guccini e Il bombarolo di De André, Ingresso libero è accostabile per temi ed ispirazione a quel capolavoro che è Il giorno aveva cinque teste scritto da Roberto Roversi e musicato da Lucio Dalla. Se l’occhio puntato a Sud di Rino Gaetano è un occhio velato dalla cataratta della malinconia, l’altro occhio è libero di esorcizzare tutto con filastrocche e giochi lessicali ineguagliabili, che già si ravvisano qui in A Khatmandu e che saranno sempre presenti nella sua scrittura (Glu glu, Nuntereggaepiù, Standard, Su e giù), usando un linguaggio libero dalle prigioni ideologiche del cantautorato italiano classico e mediato da un’ironia e una satira giullaresca. È questo strabismo artistico a rendere Rino Gaetano sin da subito un personaggio atipico, istrionico, sfuggente (come nello scatto di copertina) nel panorama italiano.
Ad un passo dal cantautorato impegnato ed uno dalla canzonetta, come dimostrerà da lì a breve il grandissimo successo di Ma il cielo è sempre più blu, carosello definitivo del neo-realismo in musica di cui Rino Gaetano diventerà a breve il più alto esponente. Sotto un cielo che alla fine se ne frega delle ingiustizie sociali, una processione di poveri cristi che vivono di speranze e di espedienti, cavalcano una giostra dove per cinque minuti possono fingere una felicità posticcia.
Libero Rino Gaetano, proprio come l’ingresso del portone dietro cui vive e lavora Agapito Malteni, ferroviere.
Qual’era la dote più grande di Rino Gaetano? Quella di raccontare cose serissime nascondendole dietro un apparente, svagato e dissacratorio non-sense.
Raccontare la vita pubblica e privata degli italiani farcendola con una glassa di ironia pungente: questa era l’arte di Rino Gaetano. Descrivere l’amarezza delle vite comuni fotografando la loro ovvietà dentro una cornice di accadimenti storici che le sfiorano o a volte le trascinano con se, travolgendole. La normalità che diventa eroica senza compiere nessun atto eroico, proprio per la consuetudine e la piccolezza che usano come esile scudo. Vite fatte di poco, amori “fatti di niente”, feste di paese, lavori salariati. Cantati con la facilità che piace alla gente normale. Evitando come la peste la retorica militante, i suoni e il linguaggio ricercato, le ambasciate dalle segreterie del partito. Riadattando se stesso al livello dei protagonisti delle sue canzoni e mettendo queste allo stesso livello del suo pubblico, Rino Gaetano compie la sua piccola grande rivoluzione. Scende dal piedistallo cantautoriale degli anni Settanta e si dona alla pari.
Canta l’emarginazione dell’amore e del lavoro e la solitudine che ne deriva, la delusione per le promesse non mantenute, per i sogni mai raggiunti, per i pensieri non pensati che poi ti vengono a cercare in sogno e si sfaldano con la luce del giorno o diventano spettri alla luce itterica di qualche pensilina della stazione, mentre aspettiamo il solito treno su cui ancora una volta non saliremo.
I protagonisti di Mio fratello è figlio unico sono emarginati per vocazione o per destino. Eroici sfollati senza avere bisogno dello sfollagente. Gente del Sud spaesata dall’emigrazione imposta tacitamente come unica alternativa a un futuro color marrone. Costretti a lasciare le case popolari della Calabria per abitare le cooperative grigie degli appaltatori del Nord.
Costretti a vedersi derubati del sole ma ancora capaci di farsi abbagliare da una contadina bianco vestita. Ancora custodi di una purezza difficile da raschiare via.
Aida è nome di donna ed è nome di patria. Figlie entrambe, pur senza volerlo, dell’epoca fascista. Aida è il titolo dell’opera di Verdi che ha come teatro il Corno d’Africa che saranno predate dai sogni espansionistici mussoliniani e Aida è il titolo e la protagonista del terzo album di Rino Gaetano, seduta di spalle accanto alla bandiera italiana e a quelle dei suoi vecchi e nuovi alleati, a guardare un mare che, come il cielo, è “sempre più blu”, un disco pubblicato nel giugno del ’77, esattamente a ridosso di quella famosa stretta di mano fra Berlinguer e Aldo Moro che avrebbe sottoscritto formalmente il “compromesso storico” tra “Cristo e Stalin” cui Rino Gaetano, nell’ennesimo, inquietante, inspiegabile presagio del futuro di cui amava infarcire le sue canzoni accenna fra le righe del testo del pezzo che, proprio citando la marcia trionfale dell’opera di Verdi, ci introduce al suo terzo album in una serie di istantanee e di doppi sensi allegorici che riassumono la storia italiana dal ventennio fascista fino allo scandalo Lockheed dell’”antilope” Andreotti. La storia dell’Aida del cantautore calabrese è la storia di un’Italia che va in frantumi mentre cammina sui cocci della sua storia passata, la storia di un grande circo dove i cantautori (Guccì(ni), Vendì(tti), Vecchiò(ni), Dallà) sono chiamati a tenere alto il valore morale di una penisola schiacciata dalle malefatte dei nuovi pirati in doppiopetto o in abito corale Juan Lyon (Giovanni Leone), July Andreotten (Giulio Andreotti), Halde Moore (Aldo Moro), Emyle Coulombe (Emilio Colombo), Maryanne Roumorh (Mariano Rumor), Donaccatten (Carlo Donat-Cattin), Fanfonfanfan (Amintore Fanfani), Papammontin (Paolo IV), la storia di un paese che cerca di galleggiare sul suo fallimento affogando nel mare del consumismo più sfrenato o affidandosi alla Dea bendata, la storia di un paese in cui dagli errori passati si finisce per non imparare mai ma vengono anzi tramandati come regole di vita da padre in figlio, perpetuando quel rosario di stereotipi e di luoghi comuni snocciolati ad esempio su Ok papà e che, molto più dei libri di scuola, formano le nuove generazioni sul qualunquismo delle generazioni precedenti formando quella società borghese che ne costituisce la fetta sociale più numerosa e più influente. La storia, per ultimo, di un paese dove gli indizi sono sempre troppo pochi per poter costituire una prova chiara di colpevolezza, restando nell’ambito del sospetto, del chiacchiericcio giornalistico, delle sentenze mai passate in giudicato, delle arringhe basate su “Rare tracce” di qualsiasi cosa.
Musicalmente Aida è un disco sicuramente più avventuroso ed elaborato dei precedenti, con autentici grovigli strumentali come Rare tracce e Spendi spandi effendi, l’aria svagatamente medievale di Sei ottavi, le divagazioni un po’ leziose di La festa di Maria e Fontana chiara. Perché Rino è uno che vuole fare le cose per bene, nonostante voglia salvaguardare il suo linguaggio semplice ma ricco di allusioni e di riferimenti all’attualità che saranno l’archetipo taciuto ed inconscio su cui si fonderà gran parte del linguaggio dei rapper che nel ’77 non erano ancora nati e che avranno proprio in Gaetano uno dei pochi padri spirituali di pelle chiara.
Che Rino Gaetano abbia avuto un “canale preferenziale”, diciamo così, che gli abbia permesso di conoscere in anteprima o in esclusiva gli attori degli scandali italiani attraverso un’affiliazione alla loggia massonica, come avanzato da qualche giornalista (che per lo stesso motivo avanza dubbi sulla sua morte dichiarandola per nulla accidentale, NdLYS) non è dato sapere. Ma al di là dell’audace e intrigante ipotesi, resta il fatto che la sfilza di nomi e allusioni di molti suoi testi ha un che di divinatorio seppur mascherato dietro una tracotanza popolare che si riannoda alla tradizione dei cantastorie e delle filastrocche infantili che ne fa un cantautore di denuncia senza in realtà alcun punto di contatto con quello che è considerato, alla fine degli anni Settanta, il “cantautorato impegnato”. Rino Gaetano preferisce invece vestire i panni di un saltimbanco o di rinnovare la tradizione delle macchiette ormai desuete di Petrolini (massone anch’esso, se vogliamo stare al gioco fino in fondo, NdLYS) coltivando la curiosità tipica dei grandi artisti satirici che sono tali solo se affondano i denti nell’attualità. Un investimento che produce stavolta il succoso scioglilingua di Nuntereggaepiù, dove allinea uno dopo l’altro i “pupari” italiani: politici, industriali, personaggi televisivi, opinionisti, grandi firme della moda, sportivi e cantautori che manovrano in qualche modo le fila dell’opinione pubblica, lanciando qualche altro sasso nel lago degli scandali e degli insabbiamenti italiani citando, en passant, il caso Montesi. Ai palazzinari e i loro affari loschi in odor di santità è riservato il “girone” degli avidi di Fabbricando case mentre i politici che rivendicano il loro ruolo di protettori della razza operaia sono raccontati nel canto di Capofortuna. Ma, proseguendo nelle analogie dantesche, il ruolo del Rino Gaetano di Nuntereggaepiù non è tanto quello del poeta toscano quanto quello di Virgilio, ovvero quello di guida apparentemente imparziale. Si limita a raccontare i fatti senza compiacersi per la pena inflitta. Un cronista delle sopraffazioni che cerca il riscatto nel vizio, nella fuga, nella contemplazione della bellezza non potendo arrampicarsi su quella scala sociale i cui pioli sono stati spezzati dagli scarponi di chi sta sempre in alto. Il disco mostra pure però un preoccupante calo di ispirazione musicale evidente in canzoni sfocate come Dans le chateau, Cerco e nelle compiacenti marcette di Stoccolma e Gianna, preludio al grande successo e alla perdita di verginità che farà di Rino Gaetano un artista pronto per essere azzannato da un pubblico pronto a guardare il dito mentre questo indicava la Luna.
Il passaggio dalla sussidiaria It alla casa madre RCA in seguito al successo sanremese di Gianna ha come prima tangibile conseguenza lo spiacevole sospetto, alimentato dalla terribile copertina in cui ai corpi perfetti e al bacio ammiccante delle modelle fa da contrasto la superficialità grammaticale con cui Ahi Maria si trasforma in Hai Maria e un titolo che, orfano di punteggiatura, si trasforma in un piatto Resta vile maschio dove vai, di una speculazione superficiale, sommaria e di cattivo gusto.
Una volta realizzato che quella che ha in mano è la nuova gallina dalle uova d’oro, la RCA “spedisce” Rino Gaetano tra Miami e Messico, pagando fior fiori di musicisti e tecnici del suono locali, sborsando profumatamente per delle sale di registrazione che Rino Gaetano ha visto fino a quel momento solo su foto e affiancando per la prima volta un autore esterno per “perfezionare” quella che dovrebbe essere la canzone-traino del disco e che, non solo per l’ingerenza di Mogol, finisce per essere una roba a metà strada tra il Battisti più stucchevole e Pino D’Angiò. Un successo perseguito a lungo e che, ora che è stato raggiunto, sembra non dare nessuna gioia a Rino. Chi lo conosce bene giura che la sua espressione ha perso quel guizzo, quel sorriso, quella luce che lo aveva sempre contraddistinto. Sembra diventato di stucco come parte del suo nuovo materiale musicale che, come nel disco precedente, è buono solo per metà (Nel letto di Lucia, Io scriverò, la muzak da sombreri e trombe mariachi di Ahi Maria riproposta in maniera meno efficace e già meno convincente sulla conclusiva Su e giù) e nel quale anche lo stesso cantautore stenta a riconoscersi, finendo per promuovere il disco in tv cantando delle stupide canzonette messicane smascherando il suo malcontento per un disco che non sente suo e che venderà meno della metà di quanto aveva fatto con Nuntereggaepiù. Il nuovo Rino Gaetano piace a meno gente del previsto e, quel che è peggio, non piace più neppure a sé stesso.
Non essendo riuscita a fare di Rino Gaetano il nuovo Battisti e cercando di rientrare dall’enorme investimento per Resta vile maschio, dove vai?, la RCA si chiude in mega-riunioni e incontri ai vertici al termine dei quali decide che, forse, può farne un cantautore rock come aveva fatto con Ivano Fossati. Ecco dunque che impone a Rino Gaetano un disco dai tratti più marcati. Un disco tosto, pieno di chitarre al seguito del quale lavorerà addirittura a fianco dei Perigeo per un tour che sarà l’ultimo della sua vita. E che forse sarebbe stato tale in ogni caso, anche senza la tragedia che si sarebbe consumata in circostanze da pelle d’oca in quel giugno 1981 in cui Rino Gaetano avrebbe “messo in scena” quanto scritto anni prima su La ballata di Renzo. Seguendo il copione passo passo, senza margine di improvvisazione.
E io ci sto è dunque un disco dall’impronta più robusta, più “da band che suona il rock” (e il reggae), alle prese con canzoni come E io ci sto, Jet Set, Sombrero e quel furbo plagio di E Berta filava che è Michele ‘o pazzo è pazzo davvero, autentiche stranezze come La donna mia e quell’Ufo a ufo che verrà poi scartata assieme all’enorme, bellissima parata de Le beatitudini (pubblicata postuma solo nel 1990) che concede ai perdenti de Ma il cielo è sempre più blu perlomeno il riscatto biblico degli ultimi e riserva uno spicchio di quel cielo anche ai critici e agli esegeti di questa e di tutte le sue canzoni diventati miopi a furia di cercare tra le righe delle sue canzoni e delle sue magliette indossate sotto il frac.
Franco “Lys” Dimauro