JOHN ZORN – Naked City (Elektra Nonesuch)

0

La “naked city” è quella, violenta, mostrata da Weegee nel suo libro del 1945, il fotografo della Lower East Side che si catapultava sulla scena del crimine prima della polizia, per immortalare sangue fresco e teste spappolate non ancora coperte dalle lenzuola della squadra anticrimine. La faccia violenta e allo stesso tempo cinematograficamente noir della New York che John Zorn esibisce nel suo album del 1990 che ne porta il medesimo nome. La New York dove i marciapiedi sono palcoscenici di morti efferate, vetrine del crimine, giardini di tortura, musei del macabro.

Su Naked City lo sferragliare dei mitra e dei fucili a pompa è “filmato” attraverso una pioggia di proiettili grind-core dall’effetto dirompente, controbilanciato da placide pause notturne come quella della Chinatown di Gershwin e inframmezzate dall’arrivo degli “eroi” e degli anti-eroi del cinema: Batman, James Bond, il Clan dei Siciliani, la Pantera Rosa, Barbara Graham.

La musica di John Zorn è come un grande palazzo di Manhattan con le finestre aperte a tutte le ore del giorno e della notte, a raccogliere tutto quanto arrivi dalle strade che si dipanano come una grande ragnatela dal suo seminterrato. Un mondo di spie, gangsters, prostitute, supereroi, spacciatori, uomini e donne in carriera, senzatetto, jazzisti, chicani, indios, punk, soubrette del cinema, mostri della finanza, serial killer visti attraverso la diottra di un cecchino. Dall’alto di qualche terrazza di New York.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RIP RIG + PANIC – God (Virgin)

3

Due dischi in grande formato ma alla velocità di quelli piccoli, in modo che la dinamica audio rendesse giustizia alle acrobazie dei funamboli che hanno teso una corda fra la fusion e l’avant-funk e ci si sono messi a ballare sopra.

God è l’apice assoluto di quello che Battiato definì, tra le musiche insopportabili, il “free-jazz punk inglese”. Un disco dove giungle spontanee ed antropiche convergono per rendere lode a Dio, che si muove nel caos primordiale e ne cattura il disordine rifrangendone i suoni in una sequenza infinita di specchi concavi e convessi creando una sorta di fusion universale.

Uomini e donne primitive che esplorano le terre emerse create da Dio e che non conoscendo ancora la parola, le indicano descrivendole con dei suoni.

Uomini e donne che già a guardarli ci vedi dentro tutta la tassonomia genetica che la loro musica si porta dentro.

God è un’opera multiforme dove jazz, minimalismo, musica etnica, funky, fusion, crossover, avanguardia tentano l’assalto al cielo costruendo la torre di Babele definitiva. E, Cristo, come appare piccolo il mondo da quassù!    

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

FRANTI – Il giardino delle quindici pietre (Blu Bus)

0

Il Franti che ride del Re, nel Cuore deamicisiano. E pure il Franti del Diario minimo di Umberto Eco che “esercita” sotto falso nome e che lo uccide per davvero, il Re.

Entrambe le due vite di Franti sono quelle che i Franti di Torino scelgono di rappresentare, quando scelgono di non rappresentare altro che non sia la dissidenza. Null’altro che questo, perché musicalmente i Franti sono invece inafferrabili e inquieti. Imparano da tutto e di tutto si fanno burla. Nuotando nell’incoerenza stilistica con al collo il salvagente della coerenza ideologica più intransigente.

Marxismo e situazionismo, pensiero anarchico e meditazione zen, jazz, reggae, hardcore, folk, tradizione e avanguardia, l’arte cartesiana del lancio perfetto delle bombe-carta, la bellezza dei nidi della sterpazzola, fatta di rovi e di ortiche, l’architettura che svela la bellezza delle cose invisibili e quella che invece riesce a celarla agli occhi pur senza nasconderla disponendo a cerchio quindici pietre che a contarle sembrano sempre una di meno. I Franti abitano una terra di confine. Partono ricordando i Bisca e vanno via come un’orchestrina delle banlieue marsigliesi e lungo il viaggio incontrano poeti, attori, musicisti, lavoratori, libertari, punkabbestie e cantastorie. A tutti stringono una mano, offrono una carezza o un bicipite per alzare insieme una bandiera, ammainare una vela, serrare un tornio. Contare le pietre.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

KING KHAN – Il Re è (semi)nudo

0

Canada, metà anni Novanta.

Quello che sarebbe diventato King Khan si fa ancora chiamare Blacksnake e colui che diventerà Mark Sultan invece suona col viso completamente coperto, sotto il nomignolo di Creepy. Suonano un punk innestato su vaghe influenze sixties e con devozione assoluta per gente come Bo Diddley, Chuck Berry, Joey Ramone e Johnny Thunders. Un classico blend che non può sfuggire alla Sympathy for the Record Industry che su quelle polveri ha costruito la sua santabarbara.  

Il debutto della band canadese esce infatti per l’etichetta di Long Beach. Titolo e grafica di copertina sono rubate al famoso tour invernale di Big Bopper, Ritchie Valens e Buddy Holly durante il quale i tre eroi del rock ‘n’ roll persero le loro vite e noi la loro musica. È tuttavia un’eredità che si consuma solo nella scelta iconografica, perché Winter Dance Party è per il resto una sequenza interminabili di riff a manetta.

15 colpi tutti a segno, guardando il bersaglio per non più di due minuti alla volta. Spesso per molto meno.

Nessuno sparo a salve.   

Nessun tentennamento.  

I canadesi hanno mira buona.

 

Se il disco di esordio era tutto sommato un classico album punk-rock, Misbehavin’ volge lo sguardo degli Spaceshits verso gli anni Sessanta e Cinquanta in maniera più netta e decisa, utilizzando alcuni cliché tipici del periodo, seppur tutto venga sempre suonato ad alta velocità. Come dentro una decapottabile che dal Canada corre veloce verso la California.

Un disco deragliante dove ancora una volta la band di Mark Sultan e King Khan non sbagliano un solo pezzo, nonostante la mira volutamente imprecisa e i bersagli scelti in maniera arbitraria. Tra cui sicuramente quelli di Bo Diddley, dei Generation X, dei Ramones, dei Gruesomes. Canzoni funamboliche come She’s a Bad Luck Charm, Tell Me Your Name, We Know Where the Girls Are, Won’t Bring You Back, Turn Off Your Radio meriterebbero sorte migliore di quella cui sembrano destinate a schiantarsi contro.

Porn Losers.   

 

Sul fare del nuovo secolo, il punkettone dalla pelle ambrata si converte al soul. Così, per tutti coloro che si trovano a lagnarsi per aver sprecato i soldi comprando l’ultimo Jon Spancer, è d’obbligo asciugarsi le lacrime rubando Three Hairs and You‘re Mine di Mr. King Khan and His Shrines. Lo sporco meticcio di Re Khan tira fuori un party-album capace di mangiarsi ogni disco di Spencer da 5 anni a questa parte e di provocare movimenti al basso ventre degni di un live-set di James Brown. Merda, questa è soul music col pepe al culo (Kukamonga Boogaloo, Don’t Walk Around Mad, Live Fast Die Young, The Mashed Potato Itch, Tell Me….provate a resistergli e, se così fosse, fatevi controllare dal vostro urologo, NdLYS) capace di quelle classiche pause pomicione (Fool Like Me, Shivers Down My Spine) che ti fanno rallentare il culo per tentare l’operazione-rimorchio classica di ogni festa.

Il debutto degli Shrines diventa il mio disco del mese.

Di tutti e dodici.

 

Allo scoccare dei due anni, riecco il Papa Nero del moderno boogaloo, lo scimmione nato dall’incesto tra Screamin’ Jay Hawkins e Joe Bataan, il figlio svitato di Andre Williams e Mick Collins che ci concede un’altra ora di delirio soul. Appena un po’ meno debosciato rispetto al Three Hairs and You’re Mine di tre anni fa che godeva dell’Imprimatur di Liam Watson, Mr. Supernatural è comunque il campionario di stomps affogati nell’orgia ritmica di fiati e tastiere che era lecito attendersi. Il miglior party-album che possa capitarvi sotto le unghie, una valvola metrale che vi pompa sangue alle natiche e che può incrementare la produzione di ormoni riproduttivi nelle vostre feste, farcito di opportune pause pomicione per tentare l’operazione-rimorchio. Pezzi come la title track, Destroyer, Pickin’ Up, Lovetruck o Burnin’ Inside sono in grado di regalarti gli stessi sussulti al basso ventre del James Brown all’Apollo. E ditemi voi se è poco.

Ma l’anno non si è ancora concluso, che ecco un altro candidato a diventare disco dell’anno. 

Lo “scontro” è infatti quello tra due delle formazioni più cazzute del momento e tra due personaggi tutto sommato non molto dissimili nell’approccio verso il rock ‘n’ roll e inclini alle collaborazioni e ai progetti paralleli. Categorie cui questo Billiards at Nine Thirty tuttavia non appartiene, in quanto le band stanno chiuse nel loro recinto e mostrano ognuno dal loro lato del tavolo verde, i loro attributi metaforicamente rappresentati in copertina dalle stecche e dalle palle del biliardo.

Sei tiri per uno attorno al tavolo verde.

Ogni tiro, una buca.

Con i Dirtbombs che giocano spesso di sponda, affinando la tecnica dei tiri ad effetto (I Had to Chew My Own Leg Off, The House as a Giant Bong) sperimentata sul recente Dangerous Magical Noise ma che non rinunciano a mirare direttamente in buca, come nella strepitosa The Size of Ottawa. Che se ti attardi un attimo per bere un sorso di birra ti perdi il colpo.

Ma è un quarto d’ora dopo le 9:30, quando il gioco passa a King Khan e ai suoi Shrines che nel locale scatta l’afterhour alcolico. Agli inizi di Sweet Tooth si sente già il tintinnio dei bicchieri. Poi il gioco al biliardo si fa puro spettacolo alticcio e acrobatico, come se James Brown in persona fosse salito sul tavolo a bucare il tappeto strisciando e battendo il suo tacco cubano come ai tempi dell’Apollo.

Burnin Inside è un tripudio, un baccanale funky/soul che trascina giù anche le colonne del locale. 40 uccelli cercano scampo, prima di finire travolti anche loro dalle macerie. Take a Trip è il boogaloo tarantiniano ballato dai superstiti sulle rovine di questo tempio pagano.

Sono a malapena scattate le dieci.   

 

Un re e un sultano. Diventati sovrani dopo un’adolescenza da balordi in quel di Montréal e ora ritrovati quasi per caso ad Amburgo.

E così l’ex serpente nero e l’ex ago degli Spaceshits, che sono avvezzi agli espedienti, pensano di mettere insieme per strada il loro spettacolo di lo-fi rock.

Sull’insegna di cartone campeggiano i loro nuovi nomi: The King Khan & BBQ Show.

Due chitarre, un paio di tamburi e un microfono davanti al quale il Re indiano e il sultano italiano, canadesi di nascita e ora tedeschi di adozione si alternano cantando canzoni sguaiate come Love You So, Get Down, Got It Made, Pig Pig Pig, Shake Real Low, Am I the One, Outta My Mind che sono in percentuali variabili figlie di Buddy Holly, degli Stooges, dei Gruesomes, di Gene Vincent. La festa è meno ricca, meno colorata, meno prorompente di quelle organizzate da Khan con gli Shrines ma è giusto sia così. Questa è roba da buskers alticci, punti sul sedere dal forcone del diavolo per intonare qualche canzone sulle donne e sui vizi a cui non viene concesso di replicarne alcuna ma di usare il trucco diabolico di camuffarle sotto decine di maschere diverse, per poterle suonare infinite volte a noi pubblico sbalordito.  

 

Dopo il primo pasto del 2005 la cena viene servita l’anno successivo. Per l’occasione King Khan si è vestito da drag-queen e BBQ, ovviamente, da sultano. Sono gli avanzi del pranzo, che era già un pasto di avanzi. Panni soul sciolti nella varichina, stracci rock & roll logori e consunti. Qualche lentaccio da struscio (ricordate i Creeps di Darlin’? Ecco, quel genere di cose lì) e tanto rock and roll sornione e beffardo che cerca di sconfinare nel punk da garage in almeno un paio di occasioni. Nel country da galera in almeno un altro paio.

L’unica regola di What’s for Dinner? è non avere regole. O perlomeno attenersi a quelle sommarie dettate dall’amore per le frattaglie del rock, gli avanzi dei pasti ricchi con cui le rockstar sono diventate obese o cocainomani.

Uno spettacolo di viscere e liquidi corporali. Ecco cosa c’è per cena.   

 

Three Hairs and You’re Mine fu uno dei miei dischi dell’anno nelle playlists del 2002. Non serve ve ne ricordiate, ma è invece importante che serbiate memoria di quel disco. Un autentico R&B della giungla capace di ribaltare ogni festa e trasformarla in un vaso voodoo traboccante di sudore e liquidi vaginali.

Il tiro di quel disco si è via via smorzato, e non poteva forse essere diversamente. Ma King Khan continua a fare dischi che spaccano il culo e a tirar fuori le zanne, quando è necessario. Qui succede ad esempio mentre i primati ballano lo ye-ye su Land of the Freak. Ma What Is?! apre il mondo del Re ad altre influenze, molto più inquietanti: la trance angosciosa dei Velvet (vi dice qualcosa un titolo come The Ballad of Lady Godiva?) e certo free-jazz che da Sun Ra (Cosmic Serenade) arriva fino agli Stooges malati di L.A. Blues (Fear & Love è un bug che può perforarvi la mente, ai volumi opportuni, NdLYS). Meno ballabile, certo. Ma cazzo, anche stavolta lascerete la festa con la pelle solcata da lividi viola.

 

Una bestia nera. Un cuore indiano trapiantato a Montreal. Altro che banghra-pop e brimfuls of Asha. King Khan è la soul music del nostro tempo: sporca, corrotta e peccaminosa. Una creampie lattiginosa che schiuma dalla carne rosa di Tina Turner e delle Ikettes le cui gocce più dense vengono raccolte su una coppiera pubblicata dalla Vice col titolo di The Supreme Genius. Si va dal primissimo singolo del 2000 fino all’ultimo, eccellente What Is?!, tutto senza un momento di stanca. Convulso e psicotico voodoo-funky annegato nei fiati, deformato da una eccitazione sessuale nevrastenica, tesa e malata (come nel baccanale di Sweet Tooth) o rotondo e bavoso come le natiche di una chica (Live Fast, Die Strong dal primo inarrivabile album), figlio bastardo di James Brown (Tell Me), Sun Ra, Question Mark (Land of the Freak), Screamin’ Jay Hawkins (Shivers Down My Spine) e Ike Turner (Welfare Bread).

Pochi degni di rubarle il trono, Re Khan. Il regno è Suo!

 

Continua il viaggio antropologico-musicale di King Khan e Mark Sultan attraverso le condotte fognarie che li/ci riportano al frat-rock, al boogaloo e al doo-wop degli anni ’50 e ’60. Nel loro viaggio incontrano creature e mostri immaginifici.

Perché quello di Invisible Girl è pure l’ennesimo tuffo nel mondo della science fiction, dei mondo-movies, delle buffe gag dei Three Stooges. Un mondo che è parallelo a quello ordinario e grigio del quotidiano. Un mondo invisibile al pari della protagonista dell’album e dei mostri che lo abitano, che tuttavia possono liberarci dai nostri, almeno per mezz’ora. Canzoni come Tastebuds, Anala, Crystal Ball, Do the Chop, I’ll Be Loving You, Truth or Dare hanno esattamente questo potere.  

Molto meglio di quello che i vostri supereroi riescano a fare.  

 

Il termine “supergruppo” mal si adatta, per definizione, al rock ‘n’ roll di basso profilo. Non ci sono virtuosismi da esibire o innesti miracolosi. Il più delle volte sono collaborazioni “chiassose”, omaggi collettivi o condivisi alla musica amata, flirt consumati sotto l’ombrello del r&r spesso senza alcuna volontà o necessità di svelare al mondo con chi si è stati sotto le coperte.

Silky di Andre Williams era un disco così. The Get-Down Imperative del King Sound Quartet era un disco così. Tasty dei Demolition Doll Rods era parimenti un disco così. Gli album degli Heavy Trash erano dei dischi così.  

Esce ora questo The Almighty Defenders che è, come quelli, un album dove si consuma un atto d’amore collettivo, sotto le stelle cadenti del rock and roll. I protagonisti di questa ennesima copula sono interessanti tanto quanto gli antefatti: i Black Lips si trovano in tour in India quando pensano bene, durante uno show a Chennai, di lasciarsi andare sul palco a qualche bacio gay e a una parziale seppur palese denudazione pubblica.

Il pubblico va in delirio. Ma non tutto. Qualcuno, a spettacolo concluso, avvicina la band nei camerini e suggerisce loro di lasciare il Paese il prima possibile, perché l’oltraggio al pudore in India è un reato punito con la galera. E loro rischiano grosso. I Black Lips non aspettano neppure di smaltire l’adrenalina che hanno ancora in circolo: saltano sull’auto che hanno noleggiato e in aeroporto prendono il primo volo disponibile. Che è un volo che parte dalle terre delle vacche sacre e atterra in Germania. I Black Lips salgono con i pantaloni ancora slacciati: in Germania hanno un paio di amici pronti ad andarli a prendere in aeroporto e ospitarli per tutto il tempo che serve.

I due amici si chiamano Mark Sultan e King Khan, stranieri in terra straniera come loro. Musicisti, come loro.

Ecco, l’estemporaneo progetto Almighty Defenders parte da qui. Come uno spy-movie che si incastra con una scheggia di vetro dello specchio infranto del sogno rock and roll. Ed è già bello così.

Una “superstoria” prima che un “supergruppo”. Il disco che documenta quell’incontro, consumato tra casse di birra e la voglia di un souvenir che celebri quella storia.

Potrebbero scegliere di farsi un tatuaggio.

Invece scelgono di fare un disco.  

Un disco “di fortuna”, un disco di scalcinato rock ‘n’ roll, di soul sbiancato, un disco dove convivono a qualche solco di distanza vaghi echi gospel e tremebonde atmosfere sinistre da scary-movie, canzoni d’amore e canzoni sui fantasmi. Canzoni che vanno bene per chi ama i Black Lips e per chi ama King Khan & BBQ Show.

E a chi crede che il rock ‘n’ roll val bene un oltraggio.

E una fuga nottetempo.  

E un disco.

  

Circolato solo in versione promo qualche anno prima, documentando alcune vecchie sedute di registrazione effettuate tra Berlino (dove vive tuttora) e Bordeaux durante i soggiorni europei del Re Nero del Canada, Turkey Ride esce ufficialmente a nome King Khan Experience nel 2011.

Gli Spaceshits si sono sciolti da pochissimo e King Khan si reinventa totalmente come cerimoniere di un’orgia soul-funk trascinante, folle e colorata. Siamo agli albori di quella che sarà la musica degli Shrines ma l’energia dirompente di quel gruppo è già tutta qui: ascoltate I Got Love, Knock Me Off My Feet o Hey Rudi e ditemi se riuscite a restare fermi. Folate di organo che ti spettinano come un soffio di bora, lampi psichedelici di chitarre wah-wah, pattern di batteria che sembrano scivolati via da un disco di James Brown e un groove funkedelico da branco animale. Il boogaloo di King Khan, quello che produrrà capolavori come Three Hairs and You’re Mine, Mr. Supernatural e Idle No More è già tutto qui.

L’estate pure.    

 

Dio Khan!

L’estate è finita e il disco dell’estate arriva adesso che le donne cominciano di nuovo a coprirsi.

Idle No More, ispirato dal movimento per i diritti civili nato in Canada lo scorso dicembre, Mr. King Khan (che Canadese è di nascita) rimette in piedi in fretta e furia i suoi Shrines lasciati a marcire per un intero lustro e assembla un nuovo, straordinario disco.

Un album che più di ogni precedente profuma di aromi sixties, nel consueto narghilè dal sapore boogaloo. Meno tossico rispetto a certi fumi che uscivano fuori dalle feritoie di What Is?! che lasciavano immaginare gli Shrines come una moderna versione della band di Sun Ra.

Qui sembra di stare con un piede ficcato nei dischi dei Love e il sedere infilato dentro il juke box che passa Nino Ferrer.

Un disco festoso, finchè non arriva il buco in gola di Darkness. Un atto di dolore che inaugura lo spazio dedicato al ricordo di Bobby Ubangi (Bad Boy), Jay Reatard e Jay Montour (So Wild). Due ultime pacche sulle spalle degli amici andati a far baldoria altrove.

Of Madness I Dream, inizialmente pensata per intitolare l’intero disco, è la ballata scivolata giù da un disco degli Stones (Beggars Banquet? Sticky Fingers? Let It Bleed?) che ci sorprende quarantenni bisognosi di un sogno per cui poter ancora sanguinare.

Un giorno farò una festa e inviterò tutti gli amici che mi sono rimasti.

Mi basteranno due metri quadrati e un disco di King Khan.

Non ci sono più gli Shrines a coprire le nudità del Re Khan su Murderburgers.

A porgergli il mantello e dividere con lui gli hamburger sono Greg Ashley e Oscar Michel, ovvero due/quarti di quelli che furono i Gris Gris. E il risultato, ahimè, si sente. L’energia positiva e travolgente dei dischi con gli Shrines è quasi del tutto dissipata, soffocata da una rilassatezza che non concede al ritmo che pochissimi Joule di energia (il tiro garage scriteriato di Teeth Are Shite, il suono dei Saints replicato quasi alla perfezione su Born in 77).

Murderburgers non ha insomma la stessa spettacolarità dei dischi con gli Shrines, preferendo adagiarsi su un folk rock che tenta addirittura l’assalto alle fortezze di Dylan (It’s Just Begun) e di Beck (Too Hard Too Fast), scivolando in realtà molto prima di aver raggiunto la salda certezza di una balaustra. Anche la carica esplosiva di Born to Die soccombe alla psichedelia sgraziata di Greg Ashley.

Un diversivo che concediamo con piacere a King Khan, per tutto quello che ci ha regalato in quindici anni di dischi.

Ma adesso ridateci gli Shrines, per favore.

E qualcuno dica al Re che è nudo.

 

Ci mettono più del solito, King Khan e Mark Sultan, a far confluire i loro impegni e mettere su un nuovo disco. Ben sei anni separano infatti Bad News Boys dal precedente Invisible Girl. Nel frattempo anche King Khan, seguendo l’esempio dell’amico fraterno, ha messo in piedi un’etichetta personale anche se per la vecchia sigla comune hanno scelto ancora una volta le garanzie della In the Red.

Di veramente nuovo ci sono i costumi di scena disegnati dalla moglie di Khan, due tute nere come la notte forate sui capezzoli e due mascheroni a coprire metà del viso con cui i due hanno dato il via al Nipples ‘n Bits tour e posato per le foto promozionali di rito. Per il resto, le canzoni scollacciate del duo non conoscono margini di miglioramento, e se per qualcuno questo può voler dire una “cattiva notizia” per altri, me compreso, non lo è. Nonostante continui a preferire le canzoni meglio rifinite degli Shrines, lo spettacolo che i due riescono ad allestire grattugiando solo due chitarre ha del prodigioso, riuscendo ancora una volta a riempire il foglio di schizzi rock ‘n’ roll, doo-wop e frat-rock (e anche qualche numero di punk schizoide come Zen Machines e D.F.O.) senza stare attenti ai margini. Anzi, imbrattando più quelli che le rigorose e composte righe a centro pagina. Avercene, di ultimi della classe così.   

 

L’acronimo relativamente anonimo nasconde in realtà King Khan e Fredovitch dei mai dimenticati Shrines più Looch Vibrato e Aggy Sonora dei francesi Magnetix, il che vi dà già la misura di un disco come “Stop und Fick Dich!”.  

Larry Hardy della In the Red, dal canto suo, garantisce e mette la firma sul registro dei testimoni in quest’ennesimo matrimonio artistico del Re Khan, il cui vizio di mescolare il proprio sperma a quello altrui supera di gran lunga le perversioni di qualsiasi caserma militare e di qualsiasi college universitario e pareggia le zozzerie di Mick Collins.

Nonostante qui (a casa mia, intendo. E nella mia auto, dove un loro album qualunque non manca mai, NdLYS) la nostalgia per i dischi degli Shrines rimanga a livelli altissimi, questo ritorno alle radici fracassone dei suoi venti anni quando, sotto il nome di Blacksnake, suonava il basso negli Spaceshits. Se però quel gruppo lì guardava verso il garage rock degli anni Sessanta, pur se attraverso l’oblò del punk, i Louder Than Death quell’oblò lo lasciano ben chiuso e, opportunamente coperto di vapore, ci scrivono sopra con le dita proprio la parola punk, scrivendo canzoni in classicissimo ’77-style come la bellissima ABC’s in Old Berlin, che è anche l’unico vero motivo per portarsi a casa questo disco. Non perché sia brutto, affatto, ma solo perché in realtà l’intero repertorio è prelevato in toto dai dischi dei Black Jaspers, in versione ancora più deragliante. Però se non avete quello e in ultima analisi anche se ce l’avete ma non lo ascoltate da dieci anni, potete tranquillamente sentirvi ancora teppisti ascoltando la musica del Dio Khan e dei suoi compari.

Messo in piedi in piena pandemia, il Global Solidarity Forever è un collettivo artistico fondato da King Khan assieme al leader delle Pantere Nere Malik Rahim con l’obiettivo di “sfruttare” i proventi artistici delle varie discipline artistiche degli affiliati per sostenere diverse iniziative che vanno dal sostegno dei lavoratori immigrati alla riforestazione delle zone colpite dagli uragani, dalla messa al bando della carta igienica e altri derivati del legno alla creazione di una “banca dell’insulina” per la comunità di New Orleans.

Soul Eruption è il primo album vero e proprio pubblicato sotto l’egida della GSF e il primo lavoro che King Khan si intesta a suo nome, continuando la sua circumnavigazione di tutte le musiche possibili e atterrando stavolta in territori hip-hop ispirati al funky primigenio di James Brown e George Clinton e alle gesta degli Invaders di Memphis raccontate nell’omonimo lungometraggio di Prichard Smith del quale Khan ha curato la colonna sonora assieme a Jack Oblivian. Il risultato non è da buttare ma a dispetto dei nomi detti prima, è un po’ arido di sudore e di groove. Esercizi riusciti neppure malaccio (See You in Hell, Get Up Off Yo’ Thang, The Plague of Putin) ma che sembrano costruiti un po’ a tavolino (sul desk forse suona più fico e rende meglio l’idea di quel che voglio dire) dando l’impressione che Khan si stia lentamente trasformando dal Dio della caciara nel Dio del cacio.

Dopo Barrence Whitfield anche King Khan cede all’infatuazione per lo space-jazz di Sun Ra e Pharoah Sanders pubblicando un disco di arcano, sfilacciato, schizoide e disarticolato jazz suonato da una tribù aliena nascosta dietro delle identità terrene che rispondono ai nomi di John Convertino, Brontez Purnell, Knoel Scott, Maureen Buscareno, Marshall Allen, Davide Zolli, Florent Mannant, Gillian Rivers, Allesandro Piretti, Daniel Allen, Max Weissenfeldt, Ben Ra e Martin Wenk oltre che l’onnipotente Dio Khan. The Infinite Ones è una deriva tortoisiana di ottoni, bastoni della pioggia, languidi fraseggi di chitarre e organi che alterna brani burrascosi, stemperate pause di jazz liquido e un paio di episodi che non avrebbero sfigurato su qualche disco dei Tuxedomoon come Xango Rising o Follow the Mantis. Non quello che vi immaginereste da King Khan, nonostante neppure lui sappia più cosa aspettarsi da sé stesso. “L’artista conosciuto come Blacksnake” è diventato una viscida tenia che vi abita nell’intestino. Pensateci, ogni volta che vi prude il culo.

Shrines per due/quarti e Magnetix per i restanti due, la King Khan Unlimited saluta il 2021 con un album che riporta il Re Khan dentro i territori del rock ‘n’ roll dopo la sbandata free jazz di The Infinite Ones.

Opiate Them Asses putroppo non va molto oltre il simpatico gioco di parole del titolo. Pur non essendo affatto un brutto disco, è uno di quei dischi di cui io e molti altri hanno già gli scaffali pieni e dunque faticherà a trovare spazio. E di certo non aiuteranno i video low-budget che ne hanno distillato il contenuto su YouTube, francamente brutti. Certo, non mancano canzonacce da canticchiare come Modern Frankenstein, Narcissist, Crime Don’t Pay o Al Capone’s Syphallytic Fever Dream però i bei tempi degli Shrines sembrano davvero definitivamente andati e la battaglia intrapresa da King Khan contro Ty Segall su chi riesce a pubblicare più dischi in un anno, finisce per dare la meglio all’uomo dalla pelle perlacea.

Il regno traballa.

Ci sono nuovamente John Convertino e Davide Zolli fra i musicisti coinvolti nel nuovo progetto di King Khan legato al jazz e alla musica etnica inaugurato con The Infinite Ones e ispirato stavolta all’omonimo programma di divulgazione scientifica canadese condotto da David Suzuki e che è il corrispettivo del nostro Quark. 

I nove pezzi di The Nature of Things non sono affatto malvagi (con una splendida e free Snarlin’ Lil Malcolm piazzata proprio in mezzo) ma la questione a questo punto è comprendere quale sia il pubblico che King Khan cerca o pretende di abbracciare avendo abiurato in parte o forse in maniera definitiva dal suo potentissimo R&B scegliendo uno stato di musicista apolide che tocca infinite terre senza mai approdare ad una. 

Agosto del 2023 vede la pubblicazione integrale della colonna sonora del documentario sulla storia degli Invaders, il gruppo per i diritti civili di Memphis, uscito nel 2015 e di cui King Khan si occupò della scrittura dell’intera parte musicale, con echi di soul music, spruzzi hendrixiani e funky “nebbioso”.

Siamo insomma ancora dentro i confini musicali del Re, poi abbondantemente superati negli anni successivi in molteplici e non sempre concrete direzioni. The Invaders invece, nonostante l’ambizione del progetto e l’altissimo orizzonte di attesa che ne è derivato, ha superato brillantemente la prova acquisendo credibilità anche al di là del suo compito primario di musica per film anche se alcune tracce sono ovviamente quasi del tutto simbiotiche a quelle delle immagini e dunque qui sembrano sdrucciolare un po’ fuori dalla carreggiata. King Khan porta a casa un gran bel risultato, anche se di fatto The Invaders resta testimonianza tardiva di un King Khan che quelle strade sembra averle abbandonate già da un po’, sterzando verso percorsi sempre più difficili da seguire.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro              

KingKhan1BZ1

ANATROFOBIA – -Lecosenonparlano- (Wallace)

0

Il nuovo disco degli Anatrofobia, così come quelli che lo hanno preceduto (quattro, credo…perlomeno tanti sono quelli in mio possesso) ti costringono ad un’attenzione a cui ormai ci si è in larga parte disabituati. Un disco difficile, penserete voi. Dipende. A me di recente è risultato più difficile e molto, ma moooolto più indigesto ascoltare l’ultimo Red Hot Chili Peppers, ad esempio. No, molto più semplicemente Lecosenonparlano- è un disco che si prende ciò che gli spetta di diritto: la vostra attenzione, la vostra capacità di farvi sorprendere, non di aspettare il ritornello mentre vi state calando le braghe nel bagno di casa vostra, smaniosi di cantare il refrain.

La musica degli Anatrofobia è invece sfuggente, smaniosa, in movimento perpetuo. Mai paga, mai comoda, mai sicura. Imprevedibile, come il suo pubblico. Che dubito abbia un’identità precisa siccome è vero che il pennello del gruppo piemontese si intinge spesso nella tavolozza jazz ma quelli che poi mette sulla tela non sono quadri che potrebbero andare nella stessa galleria di Gillespie, Mingus o Parker. Non gli sono superiori, semplicemente diversi. Vicini si allo spirito di un Coleman o di un Coltrane ma anche a quello di certi Tortoise, per esempio, o di certi scorci prog dei 70’s (non che i Tortoise non ne siano distanti…) anche italiani (penso agli Area).

Una cosa che mi piacerebbe sviluppassero sarebbe invece l’uso della voce che, inserita come elemento di disturbo più che come elemento melodico (come succede qui in Fleurdumirage e Propaganda), potrebbe accentuare l’effetto straniante della musica anatrofobica. O forse è meglio lasciare che lecosenonparlino?

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

SUN RA AND HIS ARKESTRA – At Inter-Media Arts (Modern Harmonic)

0

Mille copie in doppio CD, mille in triplo vinile.

È uno dei due “regali” della Sundazed per il Black Friday del 2016 (in realtà disponibile in download già da un anno, NdLYS).

È il Sun Ra del 9 novembre 1991, quello già colpito dalle malattie terrene nonostante la sua corazza interstellare e che lesina le sue apparizioni sui palchi, affidando la sua Arkestra alle mani amorevoli di John Gilmore.

È il Sun Ra che fa rientro sul pianeta, anche a livello umano. Dopo aver abbandonato la città, la famiglia e gli affetti, andrà a trovare la sorella a Birmingham, dove morirà appena due anni dopo questo show registrato negli studi della WNYC di New York con la stessa “arkestra” di quello destinato a restare il suo ultimo album in studio, registrato a Milano nei primi giorni d’estate del 1990. Il suono è ormai lontano dalle spietate forme spaziali dell’epoca newyorkese finendo per abbracciare una sorta di jazz universale che parte dal suono delle big band di Duke Ellington fino al free jazz ineducato di Coleman, Ayler e Coltrane.  

Il disco è ovviamente un’uscita per fanatici, quindi perfettamente sensata per il pubblico folle che cerca (senza riuscirci probabilmente, vista la mole industriale di dischi pubblicati) di seguire i mille rivoli di una discografia folle quanto la mente che l’ha prodotta, ma è anche un modo come un altro per approcciarsi al mondo del Sun Ra, partendo da terre meno impervie di quelle che vi capiterà di attraversare se vorrete proseguire l’avventuroso percorso.   

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE LOUNGE LIZARDS – The Lounge Lizards (EG)

1

Le donne dell’alta borghesia newyorkese si alzarono le vesti, come cortigiane lascive. E lasciarono vedere quel che la fantasia aveva già disegnato. Erano etti di carne pallida su cui qualche sporcaccione nero aveva lasciato qualche piccolo livido a forma di polpastrello. Erano stringhe di pizzo e giarrettiere a contenerne il volume, come insaccati turgidi che stuzzicavano narici e palato.

L’orchestra jazz barriva come un pachiderma in cattività, immaginando di insinuarsi dentro quelle voragini di carni femminili. Cigolando come porte irriverenti che custodiscono a malincuore e non senza protestare i segreti degli amanti. Miagolando come gatte incuranti dell’altrui riposo. Accarezzava e poi sferrava qualche colpo inaspettato e taurino, come se quella sala carica di odori si fosse trasformata in un’alcova impetuosa ed anarchica alle regole del buon costume.

Era un enorme voluttuoso brindisi di piatti scroscianti e di martelletti maleducati e impertinenti seguito da singhiozzi etilici che schioccavano come baci. E poi minùgie che cercavano altre intercapedini, altri orifizi, altre budella.

Le signore si erano ritrovate in atteggiamenti scomposti. I musicisti ne avevano osservato ogni movenza, ricostruendone lo sfacciato rito di adescamento o certi sofisticati giochi di caviglie con i loro strumenti, fino a scoppiare in un rantolo di bramoso, volgare, turpe desiderio.

Le cravatte diventate eleganti cappi dentro cui strozzarsi.   

Le camicie bianche di un candore che il sesso sconosce e la donna insegna a violare.

New York diventa la Parigi del Re Sole, la Mantova dei Gonzaga, la Roma dei Cesari, la Gomorra del Re Birsa, suonando le arie di Thelonious Monk o John Coltrane come fossero le trombe dei Cavalieri dell’Apocalisse.      

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

the-lounge-lizards-54301ba41cf1b

EAE – Meditations in Motion (Manza Nera)  

0

I titoli contano poco. Nel caso specifico ma pure, per il sottoscritto, nella vita reale. Ho sempre chiamato “signore” chi reputavo tale, anche se la targhetta del campanello cui suonavo recava qualche altro altisonante titolo davanti al cognome oggetto della mia visita.

Poco male dunque se dentro Meditations in Motion i titoli, a parte pochissimi casi, mancano. “Meditazioni” le chiamano Bruno Romani e Fred Casadei, queste schegge folleggianti che poco hanno a che fare pure con quello che il luogo comune associa alla meditazione. Di meditabondo c’è veramente poco dentro questo progetto dei due musicisti italiani.

L’Electro Acoustic Ensemble tira sassate alle vetrate del jazz.

Quello che ascoltate è il rumore di quei vetri che vanno in frantumi. Geometrie disordinate e aguzze disegnate dagli strumenti a corda che si dispiegano come funi di giocolieri e dai pungenti interventi di un sassofono che si cala nelle vesti di un funambolo ardimentoso e virile. È musica in qualche modo furiosa, disubbidiente all’ordine. Che medita più su come fuggire dalla gabbia del mondo che sulle leggi che ne regolano la disciplina.

Forse sarebbe il caso cominciaste a farlo pure voi.       

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

a3133939747_16

NAKED CITY – Torture Garden (Shimmy Disc)  

0

Spingersi oltre. Varcare la soglia dell’udibile. Rifare tutto da capo. Centrifugare tutto l’udibile e renderlo inudibile, estremo, inavvicinabile. Pochi si sono spinti oltre i recinti del giardino delle torture con cui John Zorn sposta i confini del free-jazz sodomizzandolo con vergate grindcore e thrash metal sperimentando un museo degli orrori oltre il quale era impossibile andare. Come infilare le mani nel cestello del Bimby, a lame azionate. Un lavoro dalla violenza inaudita e parossistica che porta il gusto perverso del macabro a livelli insostenibili, con quarantadue canzoni che schizzano sulle pareti come brandelli di carne e grumi di sangue ancora caldo.

L’amore di John Zorn per le musiche noir che aveva acceso la scintilla dei Naked City era stato completamente devastato dalla nuova passione per il grindcore di band inascoltabili come Boredoms e Napalm Death. Dei primi, per dare sfogo alla nuova perversione che gli tormentava la mente, aveva assoldato il “cantante” Yamatsuka Eye e gli aveva chiesto di urlare mentre tutto attorno a lui sembrava esplodere in un assalto da Arancia Meccanica.

E così era stato. Ventidueminuti e mezzo di agonia. Che possono sembrare un tempo brevissimo. E che invece sembrano non finire mai.

Quando la band si presenta negli uffici della Nonesuch portando un sacco con quelle quarantadue frattaglie in cui avevano sezionato il corpo e le interiora del jazz e del metal, il boss dell’etichetta richiude quella bisaccia inorridito, cacciando via quei sei dementi seriali. Il disco uscirà alla fine per la Shimmy Disc, salvo essere ritirato dai negozi perché accusato dalla Committee Against Anti-Asian Violence di deviare, a causa dello scatto di copertina e delle altrettanto esecrabili ed estreme “immagini” di bondage, eiaculazioni devastanti e deviazioni necrofile e coprofaghe che compongono la scioccante sequenza delle polaroid di dolore dell’album, l’immagine degli asiatici e di alimentare fobie razziste.

Poco importa. Torture Garden resta ancora oggi uno dei più aberranti documenti di psicopatologia criminale che siano mai stati scritti.   

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

cover_1161720112010

MOTORPSYCHO & STÅLE STORLØKKEN – The Death Defying Unicorn (Rune Grammofon)

0

Nel 2012, su esortazione del prestigiosissimo Festival Jazz di Molde, i Motorpsycho decidono di cimentarsi con quella che è la loro Divina Commedia trovando in Ståle Storløkken il loro Virgilio. Ne esce fuori l’opera più solenne e vanitosa della loro discografia. Il concept è incentrato sul naufragio della baleniera Essex e sull’odissea cannibale del suo equipaggio, un immaginario dunque per certi versi simili a quello narrato da Vinicio Capossela per il suo Marinai, profeti e balene pubblicato qualche mese prima che ha però qui un differente approccio narrativo e musicale. Il matrimonio artistico con i musicisti free-jazz e le orchestre coinvolte fa infatti deragliare il suono in una sorta di alchemico pastiche tra prog, classica e no-wave che ha King Crimson (Mutiny!), György Sándor Ligeti (Doldrums) e Naked City (Through the Veil) come numi tutelari.

Un lavoro complesso, lungo ed articolato, a tratti di una prosopopea insopportabile (il gioioso finale di Into the Mystic è autentico scoppio di petardi P.F.M., tanto per dire su che “mari” stiamo viaggiando, NdLYS) se non si è soliti avventurarsi con lo spirito da argonauti che un’opera simile ci impone  e nel quale pochissimi gruppi contemporanei potrebbero invero cimentarsi, per capacità, inventiva e libertà espressive. Che poi ogni tanto si senta il bisogno di affacciarsi dall’impavesata per tirar giù qualche conato di vomito, è faccenda cui gli ammiragli, accecati dalla caccia al capodoglio, non sembrano interessarsi.   

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro  

 

Motorpsycho-The-Death-Defying-Of-The-Unicorn