Berna, metà anni Ottanta.
Un ragazzone appassionato di blues, garage punk, rockabilly e death metal lavora come commesso nel miglior negozio di dischi della città. Finito il lavoro si sposta dall’altro lato della strada, nel suo pub preferito, beve qualcosa, si intrattiene con i clienti, poi tira fuori la sua chitarra e si esibisce come Teab Zerfall. E intanto sogna di realizzare un disco da esporre assieme agli altri, sugli scaffali di Record Junkie. Ne parla a Pfifu, il proprietario. E Pfifu che quel sogno lo ha sempre inseguito senza mai raggiungerlo, decide di investire nel sogno dell’amico. Nasce così il progetto Monsters, con Beat-Man alla voce e chitarra e Pfifu alla batteria, e un disco stampato dal negozio ora riconvertito in etichetta discografica dal titolo Masks.
666 copie in vinile e numero di catalogo 667, che il numero del diavolo era già stato usato per il singolo d’esordio di qualche mese prima. Dodici originali che vanno da hoedown/ska ubriachi come Whisky Song a putridi numeri psychobilly come Addams Family, da strumentali di serie Z come Real Monster Theme a un garage rock per cavemen ritardati come Wilma e Rosemary Mc Coy per chiudere con una versione di Wild Thing in cui clave e bave fanno chiasso oltre che rima.
Nessuno stato è indipendente, quando i mostri si destano dal sonno.
Dilapidate tutte le finanze per registrare un disco più professionale del debutto, i Monsters sono costretti a lasciare lo studio di registrazione prima di aver completato il lavoro e obbligati a completare The Hunch con alcuni estratti di un concerto all’ISC di Berna con un nuovo batterista dietro i tamburi.
Il deragliante treno psychobilly dei Monsters sembra inarrestabile, sbuffando di fumi garage rock e di combustibili rock ‘n’ roll che rimandano ai Cramps, ai Mɘtɘors e ai Polecats e annerendo di fuliggine tutta la Svizzera.
I riferimenti agli inferi e ai mostri da fumetto e letteratura di serie B si sprecano (The Creature from the Black Lagoon, Honeymoon at Hell, The Hunch, Teenage Werewolf, Wicked Wanda, Day of the Triffids, I Came from Hell) e fanno da immaginario consono alla causa abbracciata dal terzetto di Berna, trasformata per una volta in una Transilvania alpina.
Abito bianco e cinturone alla Elvis, mantello, cappuccio da lottatore di wrestling calato sul cranio e chitarrone a tracolla. Così si presenta sul palco Taeb Zerfall al suo rientro da un lungo viaggio in America dove si è ritrovato più volte ad assistere a queste lotte mezze finte e molto trash dello sport più amato dai giovani americani.
E poi, una volta attaccato lo spettacolo, una serie di calci e pugni, chitarre sfregate sugli ampli o sull’asta del microfono, quando c’è. Perché spesso Beat-Man preferisce usare la voce filtrata da un fono per capelli. E alcol, fiumi di alcol.
Oppure, come sulla copertina del suo album di debutto in solitario, semplicemente a torso nudo in perfetta tenuta da wrestler con la carcassa di una chitarra elettrica in bella vista. Un costume e un immaginario che verranno adottato da una miriade di band e solisti in tutto il mondo, soprattutto in ambito neo-surf e lo-fi blues ma che Taeb, ora ribattezzato Lightning Beat-Man è fra i primi a sfruttare.
Una one-man band senza talento, come lui stesso tiene a farci sapere. Che però sul palco dà tutto se stesso fino a collassare sulle assi di legno, tanto che quando passano dall’Europa anche i Ramones e Dick Dale lo vogliono in apertura dei loro show per scaldare e stordire il pubblico a dovere.
Imprecazioni e minacce precisissime e blues viceversa molto approssimativi che su Wrestling Rock ‘n’ Roll prendono titoli come HELL YA!, Mindfuckinbitchass, Wild Baby Wow, Wrestling with Satan, I’m Gonna Kill You Tonight, I Wanna Be Your Pussycat, Baby Fuck Off. Nessun successo, nessuna acrobazia, nessun tecnicismo ma una rabbia famelica e un appetito necrofilo di frattaglie blues e rock ‘n’ roll.
Nel 1994, con l’ingresso in formazione di Robert Butler (già bassista per Untold Fables e Miracle Workers) e la fuoriuscita del chitarrista solista, i Monsters si “solidificano” in una rocciosa massa trivalente di garage-punk, raddrizzando il tiro rockabilly dei primi due dischi. Le prime testimonianze di questo nuovo assetto sono delle home-recordings pubblicate l’anno seguente su un’etichetta tedesca chiamata Jungle Noise come il disco. Quel dieci pollici, presto irreperibile, verrà poi nuovamente messo in circolazione per l’etichetta del Reverendo Beat-Man assieme ad altri brani dello stesso biennio col titolo di The Jungle Noise Recordings.
Robaccia per zombie e chirotteri.
Stomp malfermi che avanzano su una stampella cercando di raggiungere i fantasmi di Screaming Lord Sutch e Kip Tyler. Riuscendoci. Jungle Noise, Rock Around the Tombstone, Psych-Out with Me, le cover di Searching e di Lonesome Town, Mummie Fucker Blues e il loro campionario di ululati, versacci di primati, rumori di giungla e di ferraglia, distorsioni fuzz e tamburi di latta sono qui a provarlo.
Youth Against Nature certifica l’avvenuta filiazione dei Monsters al garage-punk con parziale sconfessione dal vecchio psychobilly. Abiura che non può che essere parziale per un inevitabile sconfinamento dovuto al comune riferimento alla musica-spazzatura degli anni ‘50/’60 e alla sottocultura trash/horror cui i due generi, almeno nell’accezione dei Monsters, amano guardare con occhio ludico e perverso.
Ecco dunque che certi riverberi, certe “sgasature”, certi ritmi voodoo, gli accordi fuzzati ma anche l’irriverenza volgare e hooligan di molti pezzi finiscono per stare perfettamente al confine fra il vecchio suono e il “nuovo” sound dei Monsters, altrettanto sporco, approssimativo, nefando e molesto quanto il primo.
Beat-Man aggiunge altri demoni alati alla sua pinacoteca mentre i bambini giocano nei giardini luminosi e curati della soleggiata Svizzera.
Ancora una copertina incompatibile e discorde col contenuto quella di Birds Eat Martians, un esuberante cromatismo che contrasta con le prime copertine su Record Junkie e che dopo i giardini ben curati di Youth Against Nature zooma adesso su due coloratissimi uccellini teneramente appoggiati ad un ramoscello. Il contenuto dei solchi è però un assordante prolasso di accordi fuzz, vibrati rockabilly e voci riverberate che danno vita a numeri di garage punk sguaiato come We Are Middle Class, Black, Pony Tail and Black Cadillac, I Got My Brain Up My Ass, Down the Road e a piccole sceneggiature horror come Walking Through a Cemetery o I Wanna Be Dead. Un bosco dove gli uccelli si cibano di marziani e cagano vermi.
Tutto diseducato e sguaiato come nei peggiori Morlocks e Cannibals.
HIC SUNT MONSTROS.
Versione “da appartamento” condiviso (ovvero, finalmente, realizzato in studio e non con un semplice registratore a nastro) del disco d’esordio, Apartment Wrestling Rock ‘n’ Roll vede Lightning Beat-Man alle prese con il suo repertorio stavolta accompagnato da una vera band. Musicisti del suo giro, opportunamente “mascherati”, che aggiungono baccano al baccano in un’orgia di (r)umori blues e bozzetti garage-punk (I Said Yeah, Take It Off, I Love You, la nuova versione di I’m Gonna Kill You Tonight) inframmezzati da estratti di interviste e piccole divagazioni dalla dubbia utilità.
Il Lightning Beat-Man è già in odore di santità e si prepara a sfilarsi la maschera continuando a sporcarsi le mani con le musiche meno sante della storia.
Fresco di nuova, solenne investitura, il Beat-Man torna a far danno nel 2001
La prima sortita da Reverendo per l’uomo-fulmine del primitive-gospel-blues-trash europeo è il disco che ci obbliga a stare sulle ginocchia, non proprio in atteggiamento di preghiera. Forse, anche se il disco successivo chiarirà meglio a chi fa finta di non capire, per provare a tirar via lo sporco con il pulisci-fughe comprato in qualche televendita. Ovviamente fallendo miseramente. Qui parliamo di mattonelle talmente incrostate che le feritoie che le separano sembrano dei canali di scolo di qualche latrina da ospedale da campo.
Disco primitivissimo e bellissimo, questo Get on Your Knees del Reverendo e dei suoi seminaristi Robert Butler, Gerry Mohr, Chris Rosales e Brother Janosh.
Essenziale senza essere scheletrico e solcato da una voce che sembra avvitarsi tra Captain Beefheart ed Edgar Summertyme.
Sporco anzi sporchissimo. Con quel pizzico di tiro garage (Come Back Lord sembra una versione scoscesa e scosciata di Primitive, NdLYS) che non guasta mai e un’attitudine che ci ispira a santificare le feste. Quelle che piacciono a noi.
Due batteristi che battono il piede destro su un’unica cassa e che picchiano invece su rullante e timpano separati, con margine d’errore bassissimo.
Questa è la macchina del ritmo introdotta a partire da I See Dead People nell’assetto-base della formazione svizzera, che per il resto si avvale sempre e solo della chitarra e dell’urlo ferino di Beat-Man e del basso di Janosh (con qualche contrappunto di una tastiera fantasmagorica) per sputarci addosso la solita mezz’ora di garage punk rumoroso e sempre meno imparentato con lo psychobilly degli esordi, anche se certi vibrati crampsiani restano ad ammorbare l’aria o gran parte di essa e intatta resta l’ispirazione di certo horror-garage che Lux e compagni misero in scena su Psychedelic Jungle.
A dispetto del titolo, I See Dead People è un disco vivissimo, forse il più omogeneo della discografia dei Monsters, con quattordici tracce una migliore dell’altra, con autentiche scariche fuzz come You Know Why, I See Dead People, Acid Dreams a penetrarci le orecchie come uno sciame di api attirate dal cerume.
Se avete paura dei mostri, avete ragione.
Siamo ancora in ginocchio dai tempi di Get on Your Knees.
Cinque anni ad imparare le terzine del primo epistolario blues di Reverend Beat-Man e adesso l’organo cerimoniale di Your Favourite Position Is on Your Knees sembra a momenti trasformarsi nel sintetizzatore diabolico di Martin Rev (che guarda caso prima di mettere in piedi i Suicide stava in ginocchio in una band chiamata Reverend B, NdLYS) facendo con Blue Suede Shoes quello che il suo gruppo faceva con 96 Tears.
Poi il Reverendo sale sul pulpito raccontandoci le profezie apocalittiche, al suono di una ghironda sputata fuori dalla bocca dell’Inferno. Poi lascia il libro delle letture a Suor Hope Urban per parlarci di fede, amore e speranza, mentre le navate si riempiono di una musica livida e spettrale, come di ombre minacciose che lievitano a sei metri dal pavimento.
Quando il sacrestano si appende alla corda delle campane, arriva l’ultimo atto. Higher risuona di quel tetro rintocco per tre minuti.
L’assemblea è tolta, sotto l’ombra del campanile.
Fuori la meridiana segna le sette e sei minuti.
Dalla posa ginocchioni a quella all’impiedi con le natiche ben in vista, il kamasutra blues di Beat-Man non conosce sosta.
Registrato per metà fra il salotto di casa e il bagno del Reverendo e per metà in studio assieme a Robert Butler (l’ex Miracle Worker che tutti sapete) e Delanay Davidson (un vivissimo “fratello morto”) Surreal Folk Blues Gospel Trash # 1 è un album che raschia il culo al blues delle radici e al folk rurale come pochi altri sono in grado di fare e con una credibilità assoluta. Il rockabilly di Another Day Another Life, la marcia funebre di Meine Kleine Russin, il garage rock nudo di I Wanna Know, lo psychobilly di Jesus Christ Twist, il blues fangoso di The Clown of the Town, la deliziosa caramella di zucchero al veleno dedicata a Coco Grace, la discarica di rottami che è diventato il Delta del Mississippi e che si può osservare dal drone di I Belong to You sono l’abbecedario che Lucignolo sta provando a venderci per versare il guadagno a qualche svuotacantine che gli ha promesso altri dischi del Diavolo. Versate il vostro obolo e andate in pace.
Il Reverendo Beat-Man ci presenta la sua famiglia e ci racconta la sua storia familiare, delle sue solitudini e della sua ricerca di Dio sul secondo appuntamento col suo Surreal Folk Blues Gospel Trash, quello che precede il terzo conclusivo incontro, stavolta visivo, con il DVD del terzo volume già previsto per il prossimo anno. Numeri da circo blues strepitosi come Letter to Myself, I Want to Feel, I’ve Got the Devil Inside, I See the Light, uno stomp come Don’t Stop to Dance che sembra un pezzo dei Troogs sordinato, un gospel esotico come Jesus, uno spettro dei Beasts of Bourbon come Lonesome and Sad, una versione in solitaria di Another Day Another Life risolta alla maniera di Langhorne Slim e una polka intitolata Blue Moon of Kentucky sono il bottino di questa nuova messe di volgari blues-spazzatura che di surreale hanno solo la vostra paura a lasciarvene possedere.
Copertina disegnata da Robert Butler e una cover degli Scorpions buttata tra gli altri scarti, indistinguibile dall’altro pattume. Così si presenta …Pop Up Yours!, il disco con cui i Monsters tornano al loro Raw Riff Trash Rock dopo quasi dieci anni di quiete. L’assetto strumentale è il medesimo di I See Dead People, con le due batterie unite come due gemelle siamesi.
E pure il chiasso è uguale: garage rock dementi come Blow Um Mau Mau e More You Talk Less I Hear, un numero alla Gruesomes come Cry, qualche blues scuoiato (Blues for Joe), punk al fulmicotone (Watcha Gonna Do), una When I’m Grown Up che sembra tirata fuori qualche demotape dei Morlocks e un numero catacombale intitolato Ce Soir tutto bagnato dalle acque surreali dei Monty Phyton ci fanno benedire il giorno ormai lontano in cui i Monsters decisero di uscire dall’orinatoio psychobilly per infilarsi, scrollandosi, nei luridi cessi del garage punk.
Vi viene mai voglia di spegnere radio e tv ed accartocciare i giornali mandando a cagare progressisti, conservatori, vegani, ecologisti, guerrafondai, giornalisti, politici, tronisti, cacciatori, razzisti, separatisti, no-global, puttane di regime e tutto il mondo creato?
A me si.
All’altro Reverendo, sua eminenza Beat-Man, pure.
Io mi metto ad ascoltare dischi di infimo gusto. Lui si mette a registrarli.
Insomma, in qualche modo, ci incrociamo.
Nel 2016, ben due volte.
Se il disco uscito qualche mese prima, The Jungle Noise Recordings era un riciclaggio di vecchie schifezze M, come Il mostro di Düsseldorf di Lang, è la pattumiera stipata di immondizia calda calda appena prodotta a Toulouse, che i bidoni svizzeri erano già tutti pieni.
M come merda, pure.
Dodici canzoni che grondano fuzz come nei vecchi singoli di Swamp Rats, degli Arrows o degli Omens, dodici canzoni folli come quelle dei Monks, dodici canzoni folli come quelle dei Monsters.
Se non vi piacciono, continuate pure a sputare veleno a salve come Napalm51.
Era solo questione di tempo.
Poi, il Reverendo Beat-Man avrebbe scritto il suo capolavoro.
Quel momento arriva nel 2018. Quel capolavoro si intitola Blues Trash.
Che è il titolo prevedibile che vi aspettavate ma non è esattamente quello che vi aspettate. Non come ve lo aspettate, in ogni caso.
Non è quel gran casino da bottega da rigattiere che potreste immaginare, insomma. Blues Trash brucia piuttosto come una greve pira dentro cui ardono le vecchie ossa dei Black Keys e di Jack White. I loro amici e parenti stanno lì davanti al rogo, a rendere loro l’estremo saluto. La Magic Band del Capitano Beefheart applaude e serve da bere, mescendo dal torbido. I Dead Brothers raccolgono le ceneri e le mettono dentro le urne e le dividono ai presenti, perché ognuno ne tenga una sul davanzale di casa o sulle mensole del salone. A monito futuro.
Auuuuuwlll! The white wolf is back in town!
Per le feste di fine anno non ce l’ha fatta, ma Viva La Figa è destinata a diventare un tormentone di tutte le feste di quello appena iniziato, dal lunedì di Pasquetta fino al San Silvestro che chiude la passerella dei Santi del calendario del 2019. Statene certi.
Non è l’unica cosa politicamente scorretta di Baile Bruja Muerto, realizzato dal Reverendo realizza assieme alla novizia messicana Izobel Garcia e che di sermoni ne ha da poterci fare tutto il periodo quaresimale senza rischio di repliche, a cominciare da Black Metal (si, quella che ascoltavamo da pischelli sotto la truce forma datale dai Venom) fino alla lingua piena di lardo di Come Back Lord, passando per il turpe, lungo maleficio di My Name Is Reverend Beatman per finire a quella lode all’amore infuso nell’odio di Pero Te Amo che ha dentro tutto il dolore meraviglioso, tutto il fiele mieloso della musica subtropicale.
Un disco che voi uomini senza fede ve lo sognate.
Anzi, manco quello.
Novembre, si sa, è il mese dei morti, e dai camposanti svizzeri ecco riaffiorare i mostri col loro carico di rockabilly necrofilo. You’re Class, I’m Trash si compone perlopiù di velocissime canzoni di punk ferale, con appena un paio di eccezioni (lo stomp di Dead, il tappeto horror-noise di Devil Baby, il surf post-ecatombe di My Down Is Your Up): un suono che precipita verso l’Inferno a velocità insostenibile facendone il disco più eccessivo, maniacale e violento fin qui registrato dal combo di Reverend Beat-Man. Un apocalittico hi-speed-boogie-fuzz-garage-trash-rock-n-roll lo definiscono loro stessi, e di quello si tratta. Una apoteosi di sghembo, demente e maleducato rock and roll fagocitato e risputato da creature immonde. Se il puzzo delle discariche vi provoca fastidio al vostro nasino all’insù, state lontani da qui.
Registrato fra le montagne svizzere nello scenario incantevole del PALP Festival, ma con dentro tutto l’umore tossico delle città, It’s a Matter of Time suona come un fiume di merda che inonda Berna.
Reverend Beat-Man, Beatrice Graf, Milan Slick e Benjamin Glaus, a quote altissime, realizzano un disco di putrido rock and roll, un acquitrino blues lassù sui ghiacciai, nel punto dove i mongoli parlano con gli alieni e da qui se ne ode il riverbero come di una lastra metallica che si flette fra la terra e il cielo. E dove gli uomini sono ancora capaci di intonare languide canzoni d’amore come It’s a Matter of Time, dove ogni spazio sembra infinito quanto la distanza che ci separa dall’oggetto del desiderio.
Le macchine elettriche del quartetto, chitarre e synth in primis, fungono da catalizzatrici per tutte le particelle metalliche che coprono il pianeta, attirandole come un gigantesco magnete e usandole come un meccano per tirar su rockabilly marci come Banned from the Internet, innesti subumani fra i Monks e i Suicide come Shut Up!, atmosferici numeri che sembrano arrivare direttamente dallo sfintere di Mefisto come You’re on Top, spettrali numeri alla Screamin’ Jay Hawkins come Back in Hell o sculacciate garage-punk come Get Down on Me o I Want to Fuck You Baby.
Il demone del rock ‘n’ roll invade il cantone di Vaud.
L’Hexenabfahrt si allunga fin davanti alla porta dell’Inferno.
Franco “Lys” Dimauro