BLACK HELIUM – The Wholly Other (Riot Season)                              

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Il mio scaffale di dischi dedicato ai gruppi “black” (non nell’accezione che si soleva dare negli anni ’50 ai cosiddetti race records, sia chiaro) è ormai straboccante di roba. Dai Black Angels ai Black Merda, dai Black Lips ai Black Keys, dai Black Rebel Motorcycle Club ai Black Moses, dai Black Crowes ai Black Mountain, dai Black Grape ai Black Sabbath, dai Black Flag ai Black Widow diciamo che il nero è nel rock, come nella vita, il colore che sta bene a tutti.

Alla lista si aggiungono ora questi Black Helium, in verità giunti al secondo album con questo The Wholly Other che miscela sapientemente Doors e Black Sabbath, space rock, doom e wall of sound psichedelico.

Sei brani dalla durata spesso spropositata, come potete ben immaginare. Come i dieci minuti del letargico mantra di Death Station of the Goddess, sospeso su una sorta di nulla psichedelico per tre quarti di durata prima di schiantarsi su un muro di rumore che la manda a brandelli. Oppure l’altrettanto estesa chiazza d’olio di Pink Bolt, con la nave cosmica degli Hawkwind costretta ad un pit-stop che ne rimetta in sesto i pistoni e ne ricalibri le pulegge. Quando il suono si ricompatta, come su Two Masters o Hippie on a Slab, lo fa attorno a un monolite di fumosa distorsione valvolare che ricorda gli Spacemen 3, gli Heads e i Loop, salvo poi disperderne le polveri nello spazio, aprendo le urne cinerarie di One Way Trip e Teetering on the Edge come degli enormi vasi di Pandora che non riescono più a trattenere i mali del mondo con cui sono stati riempiti per millenni.       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

REVEREND BEAT-MAN – Meet Ze Monsta

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Berna, metà anni Ottanta.


Un ragazzone appassionato di blues, garage punk, rockabilly e death metal lavora come commesso nel miglior negozio di dischi della città. Finito il lavoro si sposta dall’altro lato della strada, nel suo pub preferito, beve qualcosa, si intrattiene con i clienti, poi tira fuori la sua chitarra e si esibisce come Teab Zerfall. E intanto sogna di realizzare un disco da esporre assieme agli altri, sugli scaffali di Record Junkie. Ne parla a Pfifu, il proprietario. E Pfifu che quel sogno lo ha sempre inseguito senza mai raggiungerlo, decide di investire nel sogno dell’amico. Nasce così il progetto Monsters, con Beat-Man alla voce e chitarra e Pfifu alla batteria, e un disco stampato dal negozio ora riconvertito in etichetta discografica dal titolo Masks.


666 copie in vinile e numero di catalogo 667, che il numero del diavolo era già stato usato per il singolo d’esordio di qualche mese prima.  Dodici originali che vanno da hoedown/ska ubriachi come Whisky Song a putridi numeri psychobilly come Addams Family, da strumentali di serie Z come Real Monster Theme a un garage rock per cavemen ritardati come Wilma e Rosemary Mc Coy per chiudere con una versione di Wild Thing in cui clave e bave fanno chiasso oltre che rima.


Nessuno stato è indipendente, quando i mostri si destano dal sonno.   

Dilapidate tutte le finanze per registrare un disco più professionale del debutto, i Monsters sono costretti a lasciare lo studio di registrazione prima di aver completato il lavoro e obbligati a completare The Hunch con alcuni estratti di un concerto all’ISC di Berna con un nuovo batterista dietro i tamburi.


Il deragliante treno psychobilly dei Monsters sembra inarrestabile, sbuffando di fumi garage rock e di combustibili rock ‘n’ roll che rimandano ai Cramps, ai Mɘtɘors e ai Polecats e annerendo di fuliggine tutta la Svizzera.


I riferimenti agli inferi e ai mostri da fumetto e letteratura di serie B si sprecano (The Creature from the Black Lagoon, Honeymoon at Hell, The Hunch, Teenage Werewolf, Wicked Wanda, Day of the Triffids, I Came from Hell) e fanno da immaginario consono alla causa abbracciata dal terzetto di Berna, trasformata per una volta in una Transilvania alpina.


Abito bianco e cinturone alla Elvis, mantello, cappuccio da lottatore di wrestling calato sul cranio e chitarrone a tracolla. Così si presenta sul palco Taeb Zerfall al suo rientro da un lungo viaggio in America dove si è ritrovato più volte ad assistere a queste lotte mezze finte e molto trash dello sport più amato dai giovani americani.


E poi, una volta attaccato lo spettacolo, una serie di calci e pugni, chitarre sfregate sugli ampli o sull’asta del microfono, quando c’è. Perché spesso Beat-Man preferisce usare la voce filtrata da un fono per capelli. E alcol, fiumi di alcol.


Oppure, come sulla copertina del suo album di debutto in solitario, semplicemente a torso nudo in perfetta tenuta da wrestler con la carcassa di una chitarra elettrica in bella vista. Un costume e un immaginario che verranno adottato da una miriade di band e solisti in tutto il mondo, soprattutto in ambito neo-surf e lo-fi blues ma che Taeb, ora ribattezzato Lightning Beat-Man è fra i primi a sfruttare.


Una one-man band senza talento, come lui stesso tiene a farci sapere. Che però sul palco dà tutto se stesso fino a collassare sulle assi di legno, tanto che quando passano dall’Europa anche i Ramones e Dick Dale lo vogliono in apertura dei loro show per scaldare e stordire il pubblico a dovere.


Imprecazioni e minacce precisissime e blues viceversa molto approssimativi che su Wrestling Rock ‘n’ Roll prendono titoli come HELL YA!, Mindfuckinbitchass, Wild Baby Wow, Wrestling with Satan, I’m Gonna Kill You Tonight, I Wanna Be Your Pussycat, Baby Fuck Off. Nessun successo, nessuna acrobazia, nessun tecnicismo ma una rabbia famelica e un appetito necrofilo di frattaglie blues e rock ‘n’ roll.

 

Nel 1994, con l’ingresso in formazione di Robert Butler (già bassista per Untold Fables e Miracle Workers) e la fuoriuscita del chitarrista solista, i Monsters si “solidificano” in una rocciosa massa trivalente di garage-punk, raddrizzando il tiro rockabilly dei primi due dischi. Le prime testimonianze di questo nuovo assetto sono delle home-recordings pubblicate l’anno seguente su un’etichetta tedesca chiamata Jungle Noise come il disco. Quel dieci pollici, presto irreperibile, verrà poi nuovamente messo in circolazione per l’etichetta del Reverendo Beat-Man assieme ad altri brani dello stesso biennio col titolo di The Jungle Noise Recordings.


Robaccia per zombie e chirotteri.


Stomp malfermi che avanzano su una stampella cercando di raggiungere i fantasmi di Screaming Lord Sutch e Kip Tyler. Riuscendoci. Jungle NoiseRock Around the TombstonePsych-Out with Me, le cover di Searching e di Lonesome TownMummie Fucker Blues e il loro campionario di ululati, versacci di primati, rumori di giungla e di ferraglia, distorsioni fuzz e tamburi di latta sono qui a provarlo.

 

Youth Against Nature certifica l’avvenuta filiazione dei Monsters al garage-punk con parziale sconfessione dal vecchio psychobilly. Abiura che non può che essere parziale per un inevitabile sconfinamento dovuto al comune riferimento alla musica-spazzatura degli anni ‘50/’60 e alla sottocultura trash/horror cui i due generi, almeno nell’accezione dei Monsters, amano guardare con occhio ludico e perverso.


Ecco dunque che certi riverberi, certe “sgasature”, certi ritmi voodoo, gli accordi fuzzati ma anche l’irriverenza volgare e hooligan di molti pezzi finiscono per stare perfettamente al confine fra il vecchio suono e il “nuovo” sound dei Monsters, altrettanto sporco, approssimativo, nefando e molesto quanto il primo.


Beat-Man aggiunge altri demoni alati alla sua pinacoteca mentre i bambini giocano nei giardini luminosi e curati della soleggiata Svizzera.

Ancora una copertina incompatibile e discorde col contenuto quella di Birds Eat Martians, un esuberante cromatismo che contrasta con le prime copertine su Record Junkie e che dopo i giardini ben curati di Youth Against Nature zooma adesso su due coloratissimi uccellini teneramente appoggiati ad un ramoscello. Il contenuto dei solchi è però un assordante prolasso di accordi fuzz, vibrati rockabilly e voci riverberate che danno vita a numeri di garage punk sguaiato come We Are Middle Class, Black, Pony Tail and Black Cadillac, I Got My Brain Up My Ass, Down the Road e a piccole sceneggiature horror come Walking Through a Cemetery o I Wanna Be Dead. Un bosco dove gli uccelli si cibano di marziani e cagano vermi.


Tutto diseducato e sguaiato come nei peggiori Morlocks e Cannibals.


HIC SUNT MONSTROS.


Versione “da appartamento” condiviso (ovvero, finalmente, realizzato in studio e non con un semplice registratore a nastro) del disco d’esordio, Apartment Wrestling Rock ‘n’ Roll vede Lightning Beat-Man alle prese con il suo repertorio stavolta accompagnato da una vera band. Musicisti del suo giro, opportunamente “mascherati”, che aggiungono baccano al baccano in un’orgia di (r)umori blues e bozzetti garage-punk (I Said Yeah, Take It Off, I Love You, la nuova versione di I’m Gonna Kill You Tonight) inframmezzati da estratti di interviste e piccole divagazioni dalla dubbia utilità.


Il Lightning Beat-Man è già in odore di santità e si prepara a sfilarsi la maschera continuando a sporcarsi le mani con le musiche meno sante della storia.


Fresco di nuova, solenne investitura, il Beat-Man torna a far danno nel 2001


La prima sortita da Reverendo per l’uomo-fulmine del primitive-gospel-blues-trash europeo è il disco che ci obbliga a stare sulle ginocchia, non proprio in atteggiamento di preghiera. Forse, anche se il disco successivo chiarirà meglio a chi fa finta di non capire, per provare a tirar via lo sporco con il pulisci-fughe comprato in qualche televendita. Ovviamente fallendo miseramente. Qui parliamo di mattonelle talmente incrostate che le feritoie che le separano sembrano dei canali di scolo di qualche latrina da ospedale da campo.


Disco primitivissimo e bellissimo, questo Get on Your Knees del Reverendo e dei suoi seminaristi Robert Butler, Gerry Mohr, Chris Rosales e Brother Janosh.


Essenziale senza essere scheletrico e solcato da una voce che sembra avvitarsi tra Captain Beefheart ed Edgar Summertyme.


Sporco anzi sporchissimo. Con quel pizzico di tiro garage (Come Back Lord sembra una versione scoscesa e scosciata di Primitive, NdLYS) che non guasta mai e un’attitudine che ci ispira a santificare le feste. Quelle che piacciono a noi.

 


Due batteristi che battono il piede destro su un’unica cassa e che picchiano invece su rullante e timpano separati, con margine d’errore bassissimo.


Questa è la macchina del ritmo introdotta a partire da I See Dead People nell’assetto-base della formazione svizzera, che per il resto si avvale sempre e solo della chitarra e dell’urlo ferino di Beat-Man e del basso di Janosh (con qualche contrappunto di una tastiera fantasmagorica) per sputarci addosso la solita mezz’ora di garage punk rumoroso e sempre meno imparentato con lo psychobilly degli esordi, anche se certi vibrati crampsiani restano ad ammorbare l’aria o gran parte di essa e intatta resta l’ispirazione di certo horror-garage che Lux e compagni misero in scena su Psychedelic Jungle.


A dispetto del titolo, I See Dead People è un disco vivissimo, forse il più omogeneo della discografia dei Monsters, con quattordici tracce una migliore dell’altra, con autentiche scariche fuzz come You Know Why, I See Dead People, Acid Dreams a penetrarci le orecchie come uno sciame di api attirate dal cerume.


Se avete paura dei mostri, avete ragione.

 


Siamo ancora in ginocchio dai tempi di Get on Your Knees.


Cinque anni ad imparare le terzine del primo epistolario blues di Reverend Beat-Man e adesso l’organo cerimoniale di Your Favourite Position Is on Your Knees sembra a momenti trasformarsi nel sintetizzatore diabolico di Martin Rev (che guarda caso prima di mettere in piedi i Suicide stava in ginocchio in una band chiamata Reverend B, NdLYS) facendo con Blue Suede Shoes quello che il suo gruppo faceva con 96 Tears.


Poi il Reverendo sale sul pulpito raccontandoci le profezie apocalittiche, al suono di una ghironda sputata fuori dalla bocca dell’Inferno. Poi lascia il libro delle letture a Suor Hope Urban per parlarci di fede, amore e speranza, mentre le navate si riempiono di una musica livida e spettrale, come di ombre minacciose che lievitano a sei metri dal pavimento.


Quando il sacrestano si appende alla corda delle campane, arriva l’ultimo atto. Higher risuona di quel tetro rintocco per tre minuti.


L’assemblea è tolta, sotto l’ombra del campanile.


Fuori la meridiana segna le sette e sei minuti.

 


Dalla posa ginocchioni a quella all’impiedi con le natiche ben in vista, il kamasutra blues di Beat-Man non conosce sosta.


Registrato per metà fra il salotto di casa e il bagno del Reverendo e per metà in studio assieme a Robert Butler (l’ex Miracle Worker che tutti sapete) e Delanay Davidson (un vivissimo “fratello morto”) Surreal Folk Blues Gospel Trash # 1 è un album che raschia il culo al blues delle radici e al folk rurale come pochi altri sono in grado di fare e con una credibilità assoluta. Il rockabilly di Another Day Another Life, la marcia funebre di Meine Kleine Russin, il garage rock nudo di I Wanna Know, lo psychobilly di Jesus Christ Twist, il blues fangoso di The Clown of the Town, la deliziosa caramella di zucchero al veleno dedicata a Coco Grace, la discarica di rottami che è diventato il Delta del Mississippi e che si può osservare dal drone di I Belong to You sono l’abbecedario che Lucignolo sta provando a venderci per versare il guadagno a qualche svuotacantine che gli ha promesso altri dischi del Diavolo. Versate il vostro obolo e andate in pace.

Il Reverendo Beat-Man ci presenta la sua famiglia e ci racconta la sua storia familiare, delle sue solitudini e della sua ricerca di Dio sul secondo appuntamento col suo Surreal Folk Blues Gospel Trash, quello che precede il terzo conclusivo incontro, stavolta visivo, con il DVD del terzo volume già previsto per il prossimo anno. Numeri da circo blues strepitosi come Letter to Myself, I Want to Feel, I’ve Got the Devil Inside, I See the Light, uno stomp come Don’t Stop to Dance che sembra un pezzo dei Troogs sordinato, un gospel esotico come Jesus, uno spettro dei Beasts of Bourbon come Lonesome and Sad, una versione in solitaria di Another Day Another Life risolta alla maniera di Langhorne Slim e una polka intitolata Blue Moon of Kentucky sono il bottino di questa nuova messe di volgari blues-spazzatura che di surreale hanno solo la vostra paura a lasciarvene possedere.

 

Copertina disegnata da Robert Butler e una cover degli Scorpions buttata tra gli altri scarti, indistinguibile dall’altro pattume. Così si presenta …Pop Up Yours!, il disco con cui i Monsters tornano al loro Raw Riff Trash Rock dopo quasi dieci anni di quiete. L’assetto strumentale è il medesimo di I See Dead People, con le due batterie unite come due gemelle siamesi.


E pure il chiasso è uguale: garage rock dementi come Blow Um Mau Mau e More You Talk Less I Hear, un numero alla Gruesomes come Cry, qualche blues scuoiato (Blues for Joe), punk al fulmicotone (Watcha Gonna Do), una When I’m Grown Up che sembra tirata fuori qualche demotape dei Morlocks e un numero catacombale intitolato Ce Soir tutto bagnato dalle acque surreali dei Monty Phyton ci fanno benedire il giorno ormai lontano in cui i Monsters decisero di uscire dall’orinatoio psychobilly per infilarsi, scrollandosi, nei luridi cessi del garage punk.

 

Vi viene mai voglia di spegnere radio e tv ed accartocciare i giornali mandando a cagare progressisti, conservatori, vegani, ecologisti, guerrafondai, giornalisti, politici, tronisti, cacciatori, razzisti, separatisti, no-global, puttane di regime e tutto il mondo creato?


A me si.


All’altro Reverendo, sua eminenza Beat-Man, pure.


Io mi metto ad ascoltare dischi di infimo gusto. Lui si mette a registrarli.


Insomma, in qualche modo, ci incrociamo.


Nel 2016, ben due volte.


Se il disco uscito qualche mese prima, The Jungle Noise Recordings era un riciclaggio di vecchie schifezze M, come Il mostro di Düsseldorf di Lang, è la pattumiera stipata di immondizia calda calda appena prodotta a Toulouse, che i bidoni svizzeri erano già tutti pieni.


M come merda, pure.


Dodici canzoni che grondano fuzz come nei vecchi singoli di Swamp Rats, degli Arrows o degli Omens, dodici canzoni folli come quelle dei Monks, dodici canzoni folli come quelle dei Monsters.


Se non vi piacciono, continuate pure a sputare veleno a salve come Napalm51.

 


Era solo questione di tempo.


Poi, il Reverendo Beat-Man avrebbe scritto il suo capolavoro.


Quel momento arriva nel 2018. Quel capolavoro si intitola Blues Trash.


Che è il titolo prevedibile che vi aspettavate ma non è esattamente quello che vi aspettate. Non come ve lo aspettate, in ogni caso.


Non è quel gran casino da bottega da rigattiere che potreste immaginare, insomma. Blues Trash brucia piuttosto come una greve pira dentro cui ardono le vecchie ossa dei Black Keys e di Jack White. I loro amici e parenti stanno lì davanti al rogo, a rendere loro l’estremo saluto. La Magic Band del Capitano Beefheart applaude e serve da bere, mescendo dal torbido. I Dead Brothers raccolgono le ceneri e le mettono dentro le urne e le dividono ai presenti, perché ognuno ne tenga una sul davanzale di casa o sulle mensole del salone. A monito futuro.


Auuuuuwlll! The white wolf is back in town!


Per le feste di fine anno non ce l’ha fatta, ma Viva La Figa è destinata a diventare un tormentone di tutte le feste di quello appena iniziato, dal lunedì di Pasquetta fino al San Silvestro che chiude la passerella dei Santi del calendario del 2019. Statene certi.


Non è l’unica cosa politicamente scorretta di Baile Bruja Muerto, realizzato dal Reverendo realizza assieme alla novizia messicana Izobel Garcia e che di sermoni ne ha da poterci fare tutto il periodo quaresimale senza rischio di repliche, a cominciare da Black Metal (si, quella che ascoltavamo da pischelli sotto la truce forma datale dai Venom) fino alla lingua piena di lardo di Come Back Lord, passando per il turpe, lungo maleficio di My Name Is Reverend Beatman per finire a quella lode all’amore infuso nell’odio di Pero Te Amo che ha dentro tutto il dolore meraviglioso, tutto il fiele mieloso della musica subtropicale.


Un disco che voi uomini senza fede ve lo sognate.


Anzi, manco quello.

Novembre, si sa, è il mese dei morti, e dai camposanti svizzeri ecco riaffiorare i mostri col loro carico di rockabilly necrofilo. You’re Class, I’m Trash si compone perlopiù di velocissime canzoni di punk ferale, con appena un paio di eccezioni (lo stomp di Dead, il tappeto horror-noise di Devil Baby, il surf post-ecatombe di My Down Is Your Up): un suono che precipita verso l’Inferno a velocità insostenibile facendone il disco più eccessivo, maniacale e violento fin qui registrato dal combo di Reverend Beat-Man. Un apocalittico hi-speed-boogie-fuzz-garage-trash-rock-n-roll lo definiscono loro stessi, e di quello si tratta. Una apoteosi di sghembo, demente e maleducato rock and roll fagocitato e risputato da creature immonde. Se il puzzo delle discariche vi provoca fastidio al vostro nasino all’insù, state lontani da qui.

Registrato fra le montagne svizzere nello scenario incantevole del PALP Festival, ma con dentro tutto l’umore tossico delle città, It’s a Matter of Time suona come un fiume di merda che inonda Berna.

Reverend Beat-Man, Beatrice Graf, Milan Slick e Benjamin Glaus, a quote altissime, realizzano un disco di putrido rock and roll, un acquitrino blues lassù sui ghiacciai, nel punto dove i mongoli parlano con gli alieni e da qui se ne ode il riverbero come di una lastra metallica che si flette fra la terra e il cielo. E dove gli uomini sono ancora capaci di intonare languide canzoni d’amore come It’s a Matter of Time, dove ogni spazio sembra infinito quanto la distanza che ci separa dall’oggetto del desiderio.

Le macchine elettriche del quartetto, chitarre e synth in primis, fungono da catalizzatrici per tutte le particelle metalliche che coprono il pianeta, attirandole come un gigantesco magnete e usandole come un meccano per tirar su rockabilly marci come Banned from the Internet, innesti subumani fra i Monks e i Suicide come Shut Up!, atmosferici numeri che sembrano arrivare direttamente dallo sfintere di Mefisto come You’re on Top, spettrali numeri alla Screamin’ Jay Hawkins come Back in Hell o sculacciate garage-punk come Get Down on Me o I Want to Fuck You Baby.

Il demone del rock ‘n’ roll invade il cantone di Vaud.

L’Hexenabfahrt si allunga fin davanti alla porta dell’Inferno.

 

Franco “Lys” Dimauro

reverend beat-man

DAYGLO DEMONS – Dayglo Demons (autoproduzione)

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Attitudine hardcore, approccio freak, arnesi domestici e lo-fi. Dayglo Demons è un disco apparentemente illogico e straordinariamente vitale, una sputacchiera dove la one-man band salentina fa i conti con molti dei suoi demoni, finendo per prendersi gioco di loro infilandoli dentro un labirinto come Minosse col Minotauro e costringendoli a cibarsi di viscere ed interiora. Se appoggiate le orecchie alle pareti potete sentire la bestia graffiare le pietre con le unghie facendo un suono simile a quello di una chitarra elettrica. O sentirlo picchiarsi sui denti come fosse un glockenspiel. Oppure potrete sentire la sua voce, i suoi sospiri, le sue urla rimbalzare da una parete all’altra in una sorta di dub catacombale, la sua disperata ricerca di una frequenza libera sulla carcassa di quello che doveva essere una radio per comunicare con l’esterno.

E di bestie è popolato questo disco. Elefanti blu, polipi tentacolari, dinosauri, roditori. Tutti fatti a brandelli come i ventotto pezzi di questo lavoro disarticolato dove è possibile incrociare gli spettri di tutte le musiche del mondo, dal reggae al garage-punk, dal surf all’hardcore, dalla no-wave al glitch, dal Pop Group ai Beatles, dai Cramps ai Germs.

Dario Troso sembra aver mangiato di tutto, anche quello per cui non” è diventato famoso nel giro cult italiano col nome di Gopher D. Anzi, soprattutto quello. E adesso pare aver voglia di vomitarlo sui vostri piatti.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STORMY SIX – L’unità (First)

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Dopo l’esordio beat di tre anni prima e l’abbandono di Claudio Rocchi, gli Stormy Six inaugurano gli anni Settanta partecipando al Festival di musica d’avanguardia e di nuove tendenze di Viareggio assieme a Finardi e al primo Festival del proletariato giovanile organizzato dal Re Nudo: è il battesimo di fuoco della formazione meneghina, il momento che sancisce il passaggio dalla canzone disimpegnata alla canzone politica. Un passaggio che discograficamente viene inaugurato nel 1972 con la pubblicazione de L’unità, il disco con cui Franco Fabbri e “compagni” decidono di raccontare la storia taciuta dai libri di scuola, che è sempre la storia dei vincitori, delle minchiate che ancora oggi ci impongono di celebrare come festa nazionale quello che in realtà fu il più grande eccidio della storia italiana, ovvero quella lunghissima scia di sangue meridionale che portò alla colonizzazione piemontese del Sud e venduta al mondo come Unità d’Italia. Un “castello di bugie” che gli Stormy Six si prendono la briga, primi fra tutti (Brigante se more, il capolavoro dei Musicanova, arriverà solo nel 1980), di buttare giù e che usano come pretesto per rivendicare il clima di tensione, i conflitti latenti, le agitazioni operaie e le rivolte studentesche che stanno infiammando l’Italia a loro contemporanea.

Musicalmente il disco si muove raccordando il folk popolare italiano sulla falsariga dei Cantacronache/NCI (dei quali rappresenta in qualche modo la naturale linea evolutiva) e il country-rock che in quegli anni, grazie a Bob Dylan, Arlo Guthrie e CS&N, sta furoreggiando dappertutto. Rivoluzione si, ma musicalmente molto molto contenuta.

A questo gli Stormy Six aggiungono una naturale predisposizione per la dizione e la fonetica da far gola ad ogni editore di audio-libri e fiabe per bambini tanto in voga in quel periodo, al punto tale che verranno costretti da lì a breve a misurarsi con l’infame Sotto il bam-bù, innocua canzonetta per ragazzi che solo nella loro cantina gli Stormy Six possono togliersi lo sfizio di riadattare sostituendo le sagome di Mussolini, Nixon e Mao al posto di quelle del pirata, del mercante e del profeta protagoniste del testo di Mario Barbaglia scelto per partecipare a Un disco per l’estate.

Il Re Nudo si riveste.

Stavolta ha qualcosa da nascondere.   

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

HARRY NILSSON – Pussy Cats (RCA Victor)  

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Negli anni Settanta Harry Nilsson e John Lennon inciampano spesso uno con l’altro.

Letteralmente.

Succede soprattutto quando si incontrano all’Hollywood Vampires, il club di alcolisti inaugurato da Alice Cooper di cui loro sono, assieme a Ringo Starr, Keith Moon, John Belushi, Bernie Taupin, Keith Emerson, Marc Bolan, Micky Dolenz quelli che vanno al tappeto più spesso e più volentieri di altri.

L’idea di fare qualcosa insieme anche da sobri nasce proprio durante l’ennesima bevuta. Ed è così che nasce Pussy Cats, registrato dai due mentre uno ha le corde vocali lacerate dall’alcol e l’altro è stato gentilmente invitato ad accomodarsi fuori di casa dalla moglie Yoko Ono. In studio i due si portano altri bevitori incalliti come Keith Moon, Klaus Voorman, Pete Kleinow e Ringo Starr e realizzano un disco da bivacco post-sbronza spettacolare, prodotto da Lennon con la caratteristica andatura felpata e le tipiche batterie ovattate a lui tanto care.

Pop orchestrale, sapori caraibici, sviolinate, melanconie per pianoforte e voce, nostalgie da American Graffiti e da British Invasion e un paio di piccole perle come Don’t Forget Me e All My Life dove Nilsson si lecca le ferite e prova a metterci sopra un cerotto destinato a scollarsi. Un tintinnio di calici pieni di lieta amarezza.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro  

 

MESSAGE – From Books and Dreams (Bellaphon/Bacillus)  

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Nella giungla di guerrieri cosmici provenienti dalla Germania i Message di Düsseldorf erano molto, molto più terreni. Ma guerrieri quantunque. Una storia durata sette album di altalenante fattura, con in mezzo un capolavoro piantato sul ponte di comando intitolato From Books and Dreams che ammaina le vele prog del primo album per far sventolare al vento cinque canzoni magnifiche di hard-rock allucinato e dilatato giusto a metà strada fra gli inferi e lo spazio profondo. Che è forse il posto su cui poggiamo il culo noi. Un’autentica guerra di Troia che cinge d’assedio, indebolisce e quindi abbatte le mura dell’Inghilterra neo-romantica dei Genesis e conquista l’intera terra di Albione con un assalto di chitarre elettriche e un lancio di dardi catapultati dal sax di Tommy McGuigan, per poi ripopolarla con una nuova forma mutante di prog senza alcun barocchismo, senza unicorni, senza fate alate, senza popolane che portano al pascolo le greggi.   

A cominciare dalla splendida copertina opera di Helmut Wenske, From Books and Dreams è un viaggio immaginifico e pre-kyussiano nelle visioni oniriche più inquietanti e angosciose, quelle che poi spesso ci accompagnano anche nelle ore di luce, trasformandoci in un cono d’ombra di emozioni fobiche.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

DESTINATION LONELY – Nervous Breakdown (Voodoo Rhythm)  

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Il lunghissimo tour del Reverendo Beat-Man lo ha tenuto lontano dall’altro suo impegno: quello di discografico, portando la Voodoo Rhythm ad uno hiatus produttivo, interrotto finalmente dalla pubblicazione di questo nuovo album dei francesi Destination Lonely che dal canto loro hanno recuperato il loro gap registrando un album doppio.

Tutto il loro fatiscente campionario di spazzatura rock ‘n’ roll raddoppiato per due, quindi. C’è dunque abbondante spazio per accogliere tutto e ancor di più: ad esempio per pescare due meduse come I Want You dei Troogs e Ann degli Stooges. Oppure per mettere le dita sui fili scoperti di Lovin’. O ancora per il delirio di fuzz e wah wah di Nervous Breakdown. Per una ballata western come Blind Man o per un obliquo doppio numero cantato in italiano come Follia e poi in inglese col titolo di Cry. Per un allucinato e lunghissimo incubo sintetico di quattordici minuti e per un crepitante numero garage come Out of Your Head, per un country da spaventapasseri come In That Time o uno stordente, conclusivo tutorial su come fare dei nodi scorsoi con i cavi elettrici.  

Periferici a tutto e tutti, i Destination Lonely.

Con un doppio bianco che non entrerà in nessuna delle apologie del rock che si continuano a scrivere in tutto il mondo.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro  

MY MIDNIGHT CREEPS – Histamin (EMI)  

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Se nella musica dei Ricochets il blues imbrattato di punk era rimasta poco più che una tentazione, nel nuovo gruppo messo su assieme a Robert Burås dei Madrugada, Alex Kloster-Jensen cede completamente a quella lusinga realizzando prima un disco imperfetto e poi un abominevole leviatano come Histamin dove i My Midnight Creeps suonano come dei pistoleri finiti nel deserto sbagliato, ora alzando nuvole di polvere che coprono l’orizzonte boreale, come su Kitchie Kitchie Ki Me O (Everything’s Gone Wrong), Don’t Let ‘em Bring You Down ebbre della stessa elettricità dei Crazy Horse, ora incalzando il nemico fino a tendergli un’imboscata dentro i cerchi di tamburi dei powwow di Violet e One Last Dance oppure contorcendosi in sabba stoogesiani come quelli di Shakin’ Off My Demons o Speaking in Tongues tentando di schiacciare la testa al serpente come se quel deserto si fosse trasformato nell’aspra radura dello Yeshimon o, ancora, cercando di sedurlo con un lungo rito voodoo come I’ll Let the Light Shine on You in cui sembra di sentire Ry Cooder farsi scivolare tra le dita un qualsiasi brano di Sonic Boom. Fino a fregarlo iniettandogli più veleno di quanto la sua striscia di carne squamosa possa sopportare.

A chi avesse nostalgia dei Ricochets e in generale di tutto quel garage ‘n roll scandinavo di stampo Flaming Sideburns, Histamin offre una cosa come Shot by the Blues che suona come se lo sleaze rock californiano avesse trovato una seconda patria nel Nord Europa e ci avesse fatto dimora.

Per tutti gli altri, gli hobo men che non ne hanno trovata ancora una, questo disco può rappresentare un ispido giaciglio dove sostare senza paura di essere colti dal sonno improvviso o da un improvvido nemico.        

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

VIBRAVOID – The Decomposition of Noise (Stoned Karma)  

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C’è sempre un altro mondo possibile. E uno di questi è quello dei Vibravoid. Una galassia che ha ormai trent’anni di esistenza anche se l’avvistamento dai telescopi terrestri delle sue forme di vita risale solo all’alba degli anni Zero con quel Love Is Freedom che lanciava i primi segnali di comunicazione col nostro pianeta.

The Decomposition of Noise è il disco (volante, al pari degli altri) chiamato a celebrare questo importante anniversario dell’equipaggio tedesco guidato dal capitano Christian Koch facendo sfoggio di tutta l’effettistica psichedelica d’ordinanza. Oscillatori, riverberi, nastri magnetici amplificano l’assalto delle chitarre dei Vibravoid capaci stavolta di aggredire l’ascoltatore da subito con due tracce di coloratissimo e ammiccante pop psichedelico come The Decomposition of Noise e World of Pain che, se la Madchester degli anni Novanta avesse vinto la storia e non solo un paio di campionati, adesso potrebbero dominare le radio di tutto l’occidente. Il suono si fa più barrettiano con It Happened Tomorrow, vicina a certi cristalli cremisi degli inglesi Breathless di Dominic Appleton per poi perdersi un po’ su Eardrum, indecisa prova che oscilla tra kraut-rock, l’acid-rock degli Elevators e un basso legnoso e liverpooliano sfumando un po’ irrisolta e incompiuta. Sorte che la accomuna alla successiva Plastic Covered Tangerines, esperimento un po’ cannibale di rumorismo che finisce appunto per divorare sé stesso. Il disco si chiude con la lunghissima divagazione spaziale di The Essence of Noise, una fluttuante suite stereofonica di venti minuti sospesa su un punto indefinito del cielo che ci lascia col naso all’insù, in attesa di vedere nuovamente arrivare gli alieni planare sul nostro pianeta con la loro navicella optical, portando in dono il Verbo e le chiavi per aprire le porte della percezione, visto che quelle del cielo ci sono state negate.       

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Go Down Records 2003-2020 (Go Down)

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Il come eravamo vs. il come siamo dell’etichetta romagnola, con un passato glorioso che tra mille fatiche non ha mai tradito la sua fede nel rock ‘n’ roll e con un roster di assoluta eccellenza che si muove tra stoner, psichedelia, hard rock, garage, rawk ‘n roll.

Questo sampler ne ripercorre sommariamente la storia senza in realtà aggiungere nulla a quanto già si sapeva. Anche se, e questo è forse l’obiettivo, c’è sempre qualcuno che non sa o finge di non sapere. Nel rock come altrove.

Ma al di là di questo vedere sfilare uno dopo l’altro Morlocks, Vibravoid, Glincolti, Fatso Jetson, OJM, Diplomatics, Mad Dogs, Small Jackets, Ananda Mida, Link Protrudi o i Diggers di Dome La Muerte, Yawning Man, Karma to Burn è roba che ti fa allungare i capelli meglio di un siero per la crescita.

Insomma, la Go Down sembra dirci: con un catalogo così, non c’è altro da aggiungere.

Voi vi sentireste di smentirli?

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro