THE GOLDEN PALOMINOS – Visions of Excess (Celluloid)

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Se in Inghilterra Peter Gabriel rappresentò in qualche modo l’anello di congiunzione fra la new-wave e il residuato della stagione prog, in America un ruolo del tutto simile venne rivestito da Anton Fier e Bill Laswell, le due menti dietro il progetto Golden Palominos. Stilisticamente ad accomunare loro a Peter Gabriel è il comune amore per l’enfasi ritmica mutuata dal tribalismo africano, ovviamente innestata in un contesto inedito che se nel disco d’esordio della band di Anton Fier era quasi puro esibizionismo, qui su Visions of Excess ridimensiona le sovrabbondanze per assecondare una forma musicale più ordinaria seppur mai scontata e quasi sempre disomogenea conservando tuttavia quel tratto percussivo deciso ed invadente che dalle primissime battute di Boy (Go) si riverbera fino alla conclusiva Only One Party.

Le superstar coinvolte per l’occasione sono Jack Bruce dei Cream, Arto Lindsay, Chris Stamey, John Lydon, Richard Thompson e soprattutto Michael Stipe che presta il suo caratteristico timbro vocale a ¾ della prima facciata del disco, compresa una rilettura di Omaha dei Moby Grape seguita a ruota da una The Animal Speaks in cui nascono di fatto i PiL strabordanti di Album e che sono fra le cose migliori dell’album assieme al blues sintetico (armonica pruriginosa, organo Hammond e chitarra slide da un lato, drum machine dall’altra) di Silver Bullet, al contorto pastiche sonoro di Only One Party sorta di funky androide come avrebbero potuto pensarlo i Led Zeppelin se avessero messo i piedi negli anni Ottanta e alla gemella Clustering Train tenuta assieme dalla grande prestazione di Michael Stipe in stato di grazia e da uno dei refrain (anzi due) più epici della stagione (Snake walkin’, train riding. Song, not, yeah. Clustering Train. Tell the man who loves yourself round and round and round his head throw the rock beside your bed) e realizzando un archetipico ibrido che i Meat Puppets razzieranno anni dopo per la loro Scum. L’anno dopo, in una rovente Milano, Michael Stipe e i Golden Palominos sarebbero stati costretti ad abbandonare il palco tra i fischi di una folla urlante che scalciava per una reunion dei Cream che nessuno aveva mai annunciato.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PLASTICLAND – Wonder Wonderful Wonderland (Pink Dust)

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Opera apicale del mondo fiabesco della psichedelia inglese degli anni Sessanta, anche se sfogliata con venti anni di ritardo, Wonder Wonderful Wonderland dei Plasticland sfuma ulteriormente i margini del disco d’esordio della band del Wisconsin per diventare pura nebbia purpurea di demenza post-lisergica e torpore psichedelico portando a compimento e piegando ad un ineccepibile rigore filologico il recupero di vecchio fogliame freakbeat iniziato da Julian Cope e Robyn Hitchcock dall’altra parte dell’Oceano e separandosi dunque coscientemente dal resto della grande pattuglia di revival-band americane decidendo di affondare le proprie radici lontano dalla fertile terra delle garage band a stelle e strisce per spingersi nel magico bosco incantato di Albione. Wonder Wonderful Wonderland gode di questo autoisolamento e lo canta su No Shine for the Shoes materializzandolo in una scatola di legno dentro cui preservare il segreto di cui i Plasticland sono custodi.

Il suono del gruppo volteggia così fra atmosfere prossime all’asfissia dentro i campi di ovatta e alluminio di Syd Barrett, Twink e Brian Jones stillando miele e veleno in egual misura dall’alto del suo tappeto magico. Portando in dono oro, incenso e mirra e spargendolo sul Paese delle Meraviglie.   

  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DAS DAMEN – Jupiter Eye (SST)

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Un po’ di trucco, un po’ di pelle e i Das Damen sarebbero apparsi come una classica band di rock and roll. Ma grazie a Dio non andò così.

Così si chiudeva anni fa una bellissima bio scritta dall’ufficio stampa della Twin/Tone, l’etichetta che avrebbe accolto la band di New York negli ultimi anni della sua breve avventura, dopo i dischi per la SST che ne aveva intuito per prima il potenziale, la capacità condivisa con altre band del suo catalogo di tirare fuori il punk dalle secche dell’hardcore e di spingerlo verso territori inesplorati, sconfinando in altre terre che nel caso dei Das Damen erano tanto l’acid-rock hendrixiano che certo metal di base, tanto il noise-rock che la psichedelia più torbida e putrescente. Nel 1987, all’epoca del loro primo vero album, la loro immagine è perfettamente sovrapponibile a quella dei Miracle Workers di Overdose. E come loro amano camminare sui confini di genere, rimescolare le carte, imbastardirsi. A costo di non piacere a nessuno. Ecco perché fra i precursori del grunge, seppure li si dimentichi spesso, vanno messi sia gli uni che gli altri. È un suono pervasivo e metallico, grumoso e infetto. Che però mantiene una sua coerenza, una sua salda compattezza rock ‘n’ roll senza sfilacciarsi in verbosi e vanesi esibizionismi, approdando a forme simili a quelle di Hüsker Dü (Where They All Went), Screaming Trees (Girl with the Hair) e dei primissimi Jane’s Addiction (Trap Door) senza in realtà volerne coscientemente ricalcare le orme e scaraventandoci mezz’ora di fumante ed impattante rock pesante come il piombo.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE CRIMSON SHADOWS – It’s the Crimson F****n’ Shadows (Busy Bee)

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Se pensavate, possedendo le essenziali raccolte Out of Our Minds e One Step Beyond Sanity pubblicate ormai venti e dieci anni fa, di possedere tutto quanto prodotto dai Crimson Shadows dovrete rifare i conti e comprare la nuova selezione pubblicata dalla svedese Busy Bee che aggiunge allo striminzito repertorio della band garage-punk di Vallingby due inediti, due scarti di prove in studio risalenti al 1986, ovvero un attimo prima dello scioglimento avvenuto nel marzo di quello stesso anno. Non molto in realtà ma quanto basta a stuzzicare la curiosità di chi come me ha visto in quella meteora che solcò i cieli del nord una delle stelle più luminose del teen-punk degli anni Ottanta. Radicali nel look quanto nel suono, i piccoli giganti di Even I Tell Lies, When I’m Going Away, Gonna Make You Mine e I Want You to Leave Me segnarono indelebilmente la grande stagione del neo-garage svedese (lo stesso, per intenderci, di Wylde Mammoths, Creeps, Backdoor Men e Stomachmouths) e se pure Let It Be Me di Jens Lindberg e Now I Have to Go di Månsson (ovvero i due inediti dell’occasione) soffrono il complesso di inferiorità al cospetto di quei monoliti, poco importa. Tanto basta a riaccendere in noi devoti il culto per gli dei cremisi del nord.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL – Ombre nel canneto

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Ciò che il resto del mondo importa dalla rivoluzione californiana degli anni Sessanta è qualcosa che con quella rivoluzione non ha nulla a che spartire, ne’ a livello filosofico ne’ in ambito strettamente musicale. Fatte salve le vendite mainstream occasionali dei Doors di Light My Fire e dei Byrds di Turn! Turn! Turn! la vera dominatrice delle chart, fra tutte le formazioni che hanno infiammato i palchi dei grandi festival, è una band “volgarmente” restauratrice. Una formazione che piuttosto che volare in alto come molte delle formazioni della Summer of Love, preferisce viaggiare verso sud su scomodi e inquinanti trabiccoli diesel. L’originale suono della band, ovvero un validissimo garage-rock portato su disco e sul palco sotto il nome di Golliwogs, si è via via sempre più sporcato con la musica nera, quella della Louisiana, quella di New Orleans, quella del Delta, quella di Porterville che guarda caso è la stessa città a dare il titolo all’ultima canzone incisa come Golliwogs e la prima ad essere ripubblicata dalla Fantasy sotto il nuovo nome di Creedence Clearwater Revival. Tom Fogerty ha intanto lasciato il posto di cantante al fratello John il cui timbro rauco e verace si combina alla perfezione con i timbri paludosi della musica che stanno elaborando. Un suono che del misticismo lisergico degli altri compagni californiani non sa che farne. Il suono dei Creedence è un ritorno agli elementi base non solo del rock ‘n’ roll ma anche a quelli classici della materia.

Aria, fuoco ma soprattutto terra e acqua.

Terra da affondarci i piedi, acqua da inzupparsi come in un rito battesimale.  

Terra e acqua come quelle che segnano il lungo viaggio del Mississippi.

E ad avvolgere questa distesa di paludi, acquitrini, campi da coltivare, fattorie, boschi e piogge rigeneranti il turbante color sabbia di Marie Laveau e il macabro mantello di Bayou John, il grande evocatore di spiriti della Louisiana.

La musica dei Creedence Clearwater Revival esercita sin da subito un appeal grandissimo, ma non è musica “per giovani”. Anzi, mi correggo: la musica dei Creedence esercita un appeal grandissimo perché non è musica “per giovani”.

È il corpo (che si credeva) morto del passato che riemerge dalle acque dopo che il sogno d’amore delle comunità hippie è evaporato, dimostrando che, svanito l’inganno, quello che resta è un mondo immutabile e forse proprio per questo, rassicurante. Una tecnica che la band californiana affinerà l’anno successivo in un trittico mozzafiato di grandissimo successo e che in questo omonimo disco d’esordio emerge ancora in sordina sul materiale autoctono mostrando invece un’ottima carburazione sui pezzi altrui (Susie QI Put a Spell on YouNinety-Nine and a Half), quelli dove il gruppo inizia a sfoderare il suo mood e a liberarsi dalle ultime (e uniche) esfoliazioni acide del suo repertorio.  

 

Difficile stabilire quale sia il miglior album dei CCR, visto che una vera flessione artistica si registrerà solo con l’uscita di Mardi Gras, settimo ed ultimo album per la formazione californiana. Però, se dovessi sceglierne uno, il mio voto andrebbe probabilmente a Bayou Country. Nonostante contenga uno di quegli standard che i gruppetti da birreria ci obbligheranno ad odiare come Proud Mary.

Restituzione e restaurazione sono le parole chiave del secondo album dei fratelli Fogerty.

Bayou Country è infatti il disco che si fa carico di restituire il rock ‘n’ roll al popolo americano riportandolo ai suoi elementi lirici e musicali di base. L’intuizione dei fratelli Fogerty è altrettanto semplice ed azzeccata: di tutte quelle compagini di giovani hippie che sciamano per l’America annunciando l’era dell’Acquario resterà ben presto solo qualche foto da mostrare ai figli e che si tornerà a viaggiare per le strade d’America trasportando carne di manzo, fieno, cibo in scatola e tabacco da un lato all’altro degli Stati Uniti. La musica dei Creedence è fatta per loro, rozza e disadorna, spogliata sia delle utopie dei figli dei fiori che della sensualità ammiccante del rock ‘n’ roll degli anni Cinquanta. Sporca come i loro camperos quando attraversano i fienili e lo sterrato delle strade d’America.

I Creedence suonano per loro e vestono come loro. Camicie di flanella, baffi, capelli incolti, pantaloni da campiere, giacche di renna, cinturoni di cuoio, cappelli di feltro o da cowboy.

Non sono i 400.000 assiepati davanti al palco di Woodstock ma sono gli altri.

E gli altri sono duecento milioni di individui.

Quella è la loro forza. A differenza di quelli di altre band, i fan dei Creedence possono identificarsi totalmente con i loro idoli. Sono pari a loro. Solo, suonano e cantano canzoni stramaledettamente belle. Canzoni che parlano di cose che chiunque tra i loro ascoltatori può capire al primo ascolto. Niente tappeti che volano o bianconigli, nessuna porta della percezione da aprire o convulsioni da sofferenze amorose. Nei Creedence tutto è schiettezza e il loro pubblico sa che possono fidarsi di Fogerty quando canta dei lavapiatti di Memphis, degli uomini del voodoo di New Orleans o quando aspettano il loro turno per morire su un’autostrada.    

 

Uscire dalla palude attraversando un fiume verde, approfittando della bella stagione e senza indugiare oltre. Ecco così che a pochissimi mesi da Bayou Country i Creedence si trovano ad attraversare il Green River.

Strofinano i piedi sull’erba. Anche se sei stato nel bayou non li avrai mai puliti del tutto. E infatti Green River qualche sporcizia se la porta dietro, solo che stavolta il disco ha il passo svelto, rapido, spedito di chi non vuole indugiare oltre. Il passo di chi ha capito che ha in mano le carte per vincere. E molte delle canzoni della band (Cross-Tie Walker, Green River, Bad Moon Rising, Commotion) sembrano adesso avanzare fiere assecondando questa necessità travestendosi in una sorta di alter-ego country del blues dei Cream (Sinister Purpose, Tombstone Shadow).

Le ombre del grys-grys sembrano dissiparsi e tutto, anche la copertina, appare adesso più nitido e definito. Tolti gli spilli voodoo dagli attributi, i fratelli Fogerty dimostrano ancora di essere ben dotati.

 

Solo tre mesi separano Green River da Willy and the Poor Boys. Ma a separare l’uno dall’altro c’è soprattutto il Festival di Woodstock, al quale la band viene chiamata a partecipare e quindi ad esibirsi nella notte fra il Sabato e la Domenica, dopo l’estenuante set dei Grateful Dead. Nascosti dalle ombre della notte, quando metà del popolo hippie che non li ha mai amati dorme già sognando pace e amore e dopo essersi ingozzato però di sesso e marijuana. L’esibizione è incerta, con la band provata da una giornata di gozzoviglie. Tanto che il concerto non verrà nemmeno porzionato per essere inserito sul film e sul disco commemorativi salvo poi essere pubblicato per intero solo cinquant’anni dopo, quando la generazione di Woodstock è ormai comodamente in pensione e parte di essa ha finalmente raggiunto quel paradiso che volevano ripristinare sulla Terra.

Per nulla scalfiti da quell’esperienza i fratelli Fogerty tornano ad affondare i piedi nella terra delle fattorie americane con un disco che riconferma i margini di una musica che parla più alle classi salariate della middle-age che ai giovani stesi al sole. Sono canzoni che parlano di fatica e di terra, dell’orgoglio del possesso e della maledizione della perdita e della rovina che ne deriva.

Trattori, campi di cotone e musicisti da strada al posto di centauri, lingue di asfalto e comuni hippie popolano l’immaginario dei Creedence.

Sogni concreti.

Nessun bianconiglio da inseguire fin nella sua tana.

Nessuna pillola, nessuno zuccherino.

 

Nel 1970 i Creedence sono ormai una pianta infestante che ha raggiunto proporzioni mostruose. Il loro repertorio viene adottato da centinaia, forse migliaia di band da bar in tutto il mondo e il gruppo stesso guardato come esempio vivido di una coerenza inappellabile e di una creatività straripante. Possono permettersi di essere banali come una formazione doo-wop qualsiasi o una cover-band di Presley (Ooby Dooby, My Baby Left Me), di scrivere classici elogi alla vita on the road (Travellin’ Band, Up Around the Bend) o di rituffarsi nel suono paludoso degli esordi senza neppure togliere i vestiti (Run Through the Jungle, I Heard It Through the Grapevine), mettere in scena la rock band più rassicurante del mondo (Long As I Can See the Light) o quella più minacciosa (il crescendo chitarristico di Ramble Tamble, epocale tripudio elettrico che contiene già tutta la genetica dei Dream Syndicate).

Cosmo’s Factory mostra con grandissima abilità e sicurezza tutte queste facce, continuando a pagare tributo ai padri (ben quattro le cover sul disco), come una garage-band qualsiasi. Come se fossero ancora i Golliwogs che suonano nel college della loro città.

I Creedence di Cosmo’s Factory non si prendono rischi. Scendono ostinati, implacabili e decisi come una truppa di soldati confederati. Ad armi spianate.

L’estate dell’amore è finita da un pezzo.

 

La stretta frequentazione dei Creedence con Booker T. Jones a cavallo fra anni Sessanta e Settanta (con qualche sortita in studio che verrà documentata anni dopo su Fantasy session ’70, NdLYS) si rivela per John Fogerty fonte di ispirazione. È lui, dei quattro componenti del gruppo californiano, quello che ne subisce la fascinazione maggiore, tanto da voler convogliare il suono della sua band verso una formula che contempli un ruolo-chiave delle tastiere. Un cambiamento per cui è disposto a sacrificare pure il sangue del suo stesso sangue. In chiusura del 1970 esce Pendulum, figlio del nuovo gusto di John per l’Hammond e per i fiati della soul music.

È là che la band vuole portare il suo pubblico.

E per farlo mette all’ingresso qualche vecchia mollica del pane duro di Cosmo’s Factory: Pagan Baby è di fatto l’unico brano a richiamare nel suono i vecchi CCR, con la sua chitarra ruggente e il suo stomp martellante. Il resto, tutto il resto, è un’annacquata versione del populismo che era già emerso nei loro precedenti lavori ma che qui perde ogni mordente espressivo per diventare brodaglia AOR. Tastiere o fiati dilagano ovunque esondando anche, per fortuna senza inondarla, nella canzone destinata a futura memoria ovvero l’esangue Have You Ever Seen the Rain, finendo per assomigliare ad una versione proletaria dei Procol Harum nell’orrida (Wish I Could) Hideway, ai Dik Dik in It’s Just a Thought e sconfinando nell’onanismo del prog con Rude Awakening #2, al termine della quale Tom Fogerty apre la porta e la richiude, sbattendola, alle sue spalle. Lasciandoci dentro in compagnia dei fantasmi.

 

Per sopravvivere a sé stessi dopo la fuga dello zio Tom i superstiti dei Creedence stringono un patto: in estrema sintesi ognuno contribuisca a scrivere qualche pezzo e ognuno canti quel che ha scritto. È l’ennesimo, definitivo stravolgimento nell’assetto artistico e stilistico del gruppo californiano che pure torna, per l’ultimo atto della sua travolgente carriera, all’essenzialità degli esordi, pur traghettando la scialuppa dentro le acque più quiete di un folk-rock e di un country parente prossimo di quello dei Buffalo Springfield. Su Mardi Gras a far bella figura rispetto al resto sono ovviamente le tracce firmate (e cantate) da John Fogerty, in particolare il fumante rock and roll alla Steppenwolf di Sweet Hitch-Hiker e la dolente ballad Someday Never Comes. Ma sono sassi lanciati dentro l’acqua di una palude ormai bonificata, senza più fango e senza più mostri ad abitarne gli abissi. E alla fine, un attimo prima di venire inghiottiti, l’enigma delle “acque pulite” viene finalmente svelato, come prima quello del revival.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE B-52’S – Wild Planet (Warner Bros.)

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Da-daaa! Sorpresaaaa! Festa!

Sono le meccaniche anni Ottanta innestate su un fragoroso twangin’ di Party Out of Bounds, in tutto e per tutto un’anticipazione dello stile dei Wall of Voodoo, ad introdurre il secondo album dei B-52’s, replica meno esuberante del debutto pubblicata ad appena un anno di distanza dal disco d’esordio, come vogliono i serrati ritmi discografici dell’epoca. 

Quella del brano di apertura è una formula replicata fedelmente su Runnin’ Around e Quiche Lorraine e poi con qualche variante lungo le altre tracce del disco ed è una formula già collaudata che abbina magistralmente linee di sintetizzatori, ritmica robotica, riff spezzettati dai timbri surf/western e un mirabile gioco delle parti simulato davanti ai microfoni o al telefono come nella richiesta sessuale di Strobe Light. Visioni futuriste e palesi richiami retrò che fanno a botte come due capsule effervescenti dentro il medesimo bicchiere d’acqua. Quello della band di Athens è un appassionante corto circuito fra il mondo festoso dei party a bordo piscina degli anni Sessanta e il cinematico modernariato new-wave, una contagiosa miscela di buonumore offerta senza sfoggiare alcun sorriso, come un atto concettuale che contempla il divertimento fra le possibili varianti e ne offre una versione stilizzata, collaudandone la persistenza e la resistenza alla mancanza d’ossigeno lanciandola dentro una capsula depressurizzata in rotta verso lo spazio.       

                                                                                Franco “Lys” Dimauro 

BLACK FLAG – My War (SST)

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Al netto dell’importanza che gli verrà riconosciuta a posteriori il secondo travagliato album dei Black Flag è a livello artistico un disco che non si regge in piedi, pur tenendone uno ancora saldamente poggiato sull’hardcore dell’esordio e un altro traballante sull’hard rock sabbathiano, inaugurando di fatto lo sludge rock e diventando, almeno per la seconda parte della sua pur breve durata, fra i precursori del genere. Capelli lunghi e sporchi come degli hippie o dei metal kids, i Black Flag sembrano adesso l’archetipo di quelle band zozze e vagamente proletarie che diventeranno icona del grunge. E tornano con un disco in cui le tre tracce della seconda facciata durano, in totale, più dell’intero set dei loro primi concerti.

Il suono si fa sulfureo, leggermente torvo e sinistro ma il vigore di Damaged si è, appunto, “danneggiato”. La ricerca di nuove possibilità, legittima, sembra togliere ossigeno all’insieme col risultato che la musica ne esce soffocata, quasi dolorante e contratta per l’ipossiemia, addirittura straziante e affannosa nel suo ultimo quarto d’ora di vita. Agonizzante davanti ai nostri occhi, noioso alle nostre orecchie, My War è un disco sacrificale e rischioso e racconta di una metamorfosi non ancora compiuta, racconta di come quattro ragazzi californiani decisero di far affondare il loro battello caricandolo di piombo. Usandolo come zavorra laddove prima lo avevano scelto come esplosivo.

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

FACTRIX – Scheintot (Adolescent)

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Se gli esperimenti di Lou Reed da una parte (Metal Machine Music) e Pete Shelley dall’altro lato dell’Oceano (Sky Yen), risalenti alla metà degli anni Settanta non ci consentono di usare a nostro agio il termine “avanguardia” per un disco datato 1981, è pur vero che il crudele e a tratti spietato mondo sonoro dei Factrix rimarrà a lungo la più alta duna di polveri di silicio di tutta la Silicon Valley e forse l’unica autentica propaggine americana della musica industriale forgiata nella città d’acciaio di Sheffield da band come Clock DVA e Cabaret Voltaire.

Come loro, i Factrix scrutano un orizzonte privo di qualsiasi armoniosa linea di azzurro o qualsivoglia morbida curva di verde. Solo un desolante panorama di grigio e di sulfureo rosso, nella terra che una volta aveva cantato i colori dell’estate dell’amore, ora sepolta dai fumi e dagli scarti di produzione. La chitarra-radio di Bond Bergland sembra catturare le cattive vibrazioni di quella nuova civiltà post-industriale governata dai circuiti stampati, ingobbita dalle profezie svelate dal neonato regno del personal computer e ne riverbera ed amplifica la loro natura sinistra e distopica dentro questi mantra agghiaccianti, dentro queste stanze ammobiliate solo dal rumore e dall’eco di quelle frequenze spurie captate dall’esterno, ricoperte da vetri oscurati, illuminate da “luci inquietanti”. Fuori, una nebbia che sa di ferraglia. Identica a quella di Scheintot, il suo specchio deformante, con le sue voci farfugliate, le percussioni che si nascondono sotto il pavimento ed escono solo per graffiare strisciando le unghie sul vetro (Heavy Breathing) o per picchiettare sul parquet di legno di bambù (Anemone Housing), i suoi scrosci elettronici confusi col feedback delle chitarre che suonano senza sviluppare un solo accordo, men che meno una melodia o una parvenza di struttura armonica/armoniosa. Musiche che non producono allegria e non conoscono la luce del sole. La California nell’estate dell’orrore.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PRETENDERS – II (Real)  

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Quella che Vivienne Westwood considerava una “ignobile stronzetta” torna con un nuovo album ad un anno e mezzo dal primo. Sulla copertina lei e la sua gang sono agghindatissimi ma quella miscela tra tardo punk e new wave che era stata già sperimentata sul debutto si ammorbidisce stavolta più del dovuto, mostrando quel romanticismo velato sul primo album. Chrissie Hynde si diverte a sculacciare i maschietti ma anche a coccolarli con le sue ninne nanne o quelle del marito. Sempre con grandissimo stile.

Però no, la bellezza del primo album non viene replicata e il disco di spegne lentamente, canzone dopo canzone, minuto dopo minuto, come se la band abbia deciso di tranciare il cordone ombelicale che sembra collegare II al disco di debutto nelle iniziali The Adultress e della, quella si davvero bellissima, Bad Boys Get Spanked man mano che il tempo scorre, e di farlo davanti alle nostre orecchie, davanti ai nostri occhi. Senza neppure versare le lacrime di coccodrillo che sono tipiche di queste occasioni.

Anche la Louie Louie che la band porta in giro per i concerti e sui palchi luminosi degli show televisivi dandole lo stesso nome del famoso pezzo di Richard Berry viene qui resa innocua stringendole i polsi con un arrangiamento alla Rocky Roberts, in un finale del disco che sa di R&B indigesto.

I Pretenders abili intrattenitori degli anni futuri fanno a pugni con i reduci del punk battendoli in almeno otto riprese sulle dodici previste dal match. Il trionfo dei pesi piuma sui pesi massimi in tre quarti d’ora di musica pop.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE PROCLAIMERS – Sunshine on Leith (Chrysalis)  

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Se pensate di aver letto questo titolo su un grande schermo piuttosto che tra gli scaffali di un negozio di dischi, non avete le allucinazioni: è successo molto tempo dopo, però è successo: Dexter Fletcher, attore di discreto successo (The Elephant Man di Lynch e Caravaggio di Derek Jerman tra gli oltre cinquanta film del suo curriculum, NdLYS), per il suo secondo lavoro dietro la macchina da presa decide di adattare il canzoniere dei suoi amati Proclaimers ad una sceneggiatura cinematografica. Il risultato è un film di amore e guerra già proposto come musical circa sei anni prima e chiamato proprio Sunshine on Leith in cui le canzoni dei fratelli Reid fungono da collante.

Ma torniamo a venticinque anni prima: i Proclaimers sono reduci dal buon successo della loro Letter from America arrangiata da Gerry Rafferty e la Chrysalis decide di investire subito sul loro secondo album. Il risultato, Sunshine on Leith, è una conferma del consenso che le canzoni del duo scozzese possono ottenere, in virtù soprattutto della bella folk-song battente I’m Gonna Be (500 Miles), ma è anche un parziale fallimento dal punto di vista artistico, con canzoni imbellettate di tutto punto a sacrificio quasi totale dello spirito ruspante e naif esibito sul disco di debutto. Quel che viene fuori è una manciata di canzoni a metà strada tra i Lovin’ Spoonful (It’s Saturday Night è quasi una parodia di Daydream) e il soul con gli occhi turchini degli Housemartins.

Un po’ come quando ti apposti allo zoo per vedere i leoni ruggire e invece scopri che passano il 99% della giornata a sbadigliare e il restante 1% a leccarsi le zampe. 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro