THE GHIBLIS – Domino (Area Pirata) 

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Difficile riuscire a dire qualcosa di nuovo nel genere proposto dai Ghiblis.

E infatti il gruppo di Piacenza non parla. Ad onta della pioggia di parole scritte, parlate, cantate cui siamo costretti a piè sospinto e che comunque aggiungono solo ignoranza ad ignoranza. Domino ci offre dunque una bella pausa dalle insidie del mondo, per una mezz’oretta di strumentali di surf esotico tutti di alto livello più altri tre minuti e mezzo di livello stratosferico: il pit-stop di Slow Grind col suo passo ferale e il suo riff tetro e gommoso si candida sin da subito a diventare uno standard del genere elevando i Ghiblis a tre metri dal terra o comunque abbastanza in alto per non confondersi coi comuni mortali. Poi i motori si riaccendono e sassofono, chitarre e batteria ripartono per la tangente, più luccicanti di prima, come se il tempo non li scalfisse e neppure voi che continuate a comprare dischi di musica moderna che diventerà triste paccottiglia nel giro di un anno o due.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BANANAGUN – The True Story of Bananagun (Full Time Hobby)

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Come il Rio delle Amazzoni infestato dai caimani, ad inizio dell’estate 2020 ci piove in testa il disco di debutto dei Bananagun, australiani col cuore che dimora in Brasile e il culo che poggia sul ventre d’Africa.

Musica coloratissima come il mantello di un’ara macao quella del quintetto di Melbourne, una psichedelia (Nick Van Bakel, principale autore del gruppo, era il leader dei Frowning Clouds, NdLYS) rimodulata secondo i canoni della Jovem Guarda brasiliana, della salsa del re dalle mani callose Barretto, della plena portoricana e dell’afro-beat del Presidente Kuti e dei suoi discepoli nigeriani Funkees che ci porta in dono la leggerezza del miglior Sérgio Mendes e l’incenso fumante dei Beach Boys ormai lontani dalle spiagge ma ancora zuppi fradici d’estate. Un disco che forse non sopravviverà alle piogge autunnali o che forse si, chi può dirlo. A noi basta che ci faccia sopravvivere a questa estate e ai suoi tormenti radiofonici. Poi, ne riparleremo.    

 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

BARRENCE WHITFIELD – Il Papa nero

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Mandato a quel paese Jeff Conolly prima di potergli augurare un buon 1983, Peter Greenberg, Phil Lenker e Howie Ferguson mollano i Lyres per tirare su una band con cui mettere mano a vecchi reperti che Peter custodisce nella sua collezione privata (Frankie Lee Sims, Charlie Rich, Fats Domino, Don Covay, Andre Williams, Esquerita, Ike Turner, Little Richard, Smiley Lewis i suoi amori di sempre) e suonare qualche originale in stile.

Roba tirata fuori dal buco del culo di New Orleans.

Non hanno ancora un cantante e il ruolo di “voce solista” è affidata al sax di Steve LaGrega. Peter Greenberg si diverte ma non è soddisfatto: sono dei selvaggi con un barrito d’elefante. E lui invece vuole il ruggito di un leone.

Gira per la città, fiuta l’aria, chiede.

Finchè chiede alla persona giusta: si chiama Des McDonnell.

Vuole uno che canti come i vecchi shouter neri di trent’anni prima.

Des gli dice che lo conosce uno così: lavora da Nuggets, uno dei negozi di dischi più ricercati della città. È un afro-americano tarchiato che si chiama come un eroe della disco-music, mette su vecchi dischi di Northern Soul, doo-wop e R ‘n B e ci urla sopra, facendo scappare i clienti.

Barry White, il nigga di cui sopra, non lo sa ancora, ma è già diventato il cantante dei Savages. Peter lo mette alla prova con uno dei suoi pezzi preferiti: Walkin’ with Frankie di Lee Sims. Barry sembra un facchino del porto di Boston morso da un qualche cazzo di aracnide tropicale. È lui l’uomo che stanno cercando.

Barry si ribattezza Barrence Whitfield in onore di Norman Whitfield e diventa l’urlatore più famoso di Boston, lasciando a bocca aperta tutti, musicisti compresi.

Quando i Del Fuegos decideranno di dare una mano di “nero” alla loro musica con Stand Up è all’energia di Barrence Whitfield che pensano, anche se non lo dicono.

L’album omonimo viene registrato a Boston nell’estate di quello stesso anno, con l’aiuto di Bill Mooney-McCoy all’Hammond e viene pubblicato l’anno successivo per la piccola Mamou Records.

Lo comprano in pochi.

Qualcuno se lo registra in cassetta, giusto per fare quattro salti quando ne ha le palle piene di fare l’air guitar sui pezzi di Bon Jovi o dei Van Halen o di guardare i video degli Eurythmics e dei Real Life su Videomusic.

Il 1984 è anni luce lontano dal rock ‘n’ roll.

I Savages degli inutili nostalgici che non sanno dove sta andando il mondo.

Quei dieci che se l’erano comprato l’aspettavano però da venticinque anni questa ristampa in digitale che arriva adesso con l’aggiunta di qualche demo e altrettanti pezzi dal vivo a salutare la recente reunion della band.

Bentornati a casa, Selvaggi.

Oh Boston…you‘re my home.

 

Impregnata di soul e rock ‘n’ roll della peggior fattura, la musica dei Savages approda alla Rounder nella metà degli anni Ottanta per devastare il suo catalogo di musica roots con Dig Yourself, numero di catalogo 9007. La band ha alle spalle un disco di debutto rovente come un dardo che però, a causa di una produzione casalinga e di una distribuzione carbonara, non ha varcato i patri confini. Stavolta, grazie all’apporto della Rounder, va molto meglio, tanto che la loro musica finisce per varcare non solo i confini del Massachusetts ma quelli dell’intero continente, portando per la prima volta i Savages in Europa, a pisciare tra uno spostamento e l’altro sotto l’ombra dei platani.

In Inghilterra, dove l’eco del revival rockabilly non si è ancora spenta, il fuoco rock ‘n’ roll dei Savages viene accolto meglio che in patria. Il disco è snello (25 minuti in totale) ed energico. È nero fin dentro le viscere ed allinea oscurissime cover che nessuno riesce a distinguere dai quattro originali scritti da gruppo. Piano honky-tonk, sassofono sguaiato, una voce in falsetto come quella di Little Richard e chitarre che brucano tra i pascoli di Memphis e quelli di Tacoma: roba buona per tirarci su una festa stile Animal House.

Il rientro a Boston disperde però la band, e per il secondo lavoro su Rounder Whitfield si vede costretto a ricorrere a personale del tutto nuovo. Il risultato delle registrazioni con la nuova line-up è un mini-LP intitolato Call of the Wild, poi allungato di qualche traccia e ripubblicato con il titolo di Ow! Ow! Ow!.

Il suono si è parecchio ma parecchio ammansito, tanto che quando passa Livin’ Proof sembra quasi di intravedere le sagome di Huey Lewis and the News e tutto il disco sembra avvicinarsi più al revival dei Blues Brothers che all’urticante soul dei due dischi precedenti. Che però è una formula vincente, in America, tanto da portare i Savages ad un successo mai raggiunto prima quando, l’anno successivo, la loro Stop Twistin’ My Arm viene scelta accanto alle canzoni di Eurythmics e Graham Parker per accompagnare le scene di True Love.

Ma per essere felici bisogna farsi bastare quel che ci è stato concesso. Almeno per lo spazio di un disco.

 

Negli anni Novanta la francese New Rose si accaparra molto del migliore rock ‘n’ roll mondiale, soprattutto “d’autore”: dai Gories ai Panther Burns di Tav Falco, da Paul Roland a Calvin Russell, da Elliott Murphy ai Gun Club, da Johnny Thunders ad Alex Chilton, da Robert Gordon agli Unknowns, dai Saints ai Dim Stars, da Arthur Lee ai Purple Helmets. Nel catalogo della label di Patrick Mathé e Louis Thévenon finiscono pure Barrence Whitfield e i Savages.

Sotto l’egida della New Rose (per la quale uscirà anche la bellissima raccolta di demo e session inedite Savage Tracks con una Ramblin’ Rose da spazzolarvi i capelli, NdLYS) esce Let’s Lose It, disco esplosivo del quale neppure una produzione discutibile riesce a soffocarne i fumi, come si può appurare infilando il naso tra le nubi tossiche dell’incendio che divampa nei tre minuti scarsi della title-track oppure nel curioso jive di Dust on My Needle in cui Barrence si prende gioco dei suoi ascoltatori obbligandoli ad alzare il culo dalla sedia per verificare che la testina non si sia inceppata o ancora nella scolastica (ma poi mica tanto) My Mumblin’ Baby o anche nelle più educate (ma anche queste mica tanto) Under My Nose, I Smell a Rat, Callin’ All Beasts. L’R&B conquista la Francia, piazzando dei petardi sotto il Louvre.

 

Durante una pausa dai Savages Barrence Whitfield stringe una temporanea ma fruttuosa alleanza artistica con Tom Russell prestando la sua voce per un progetto in linea con il rinnovato interesse per la tipica musica americana dei primi anni Novanta. Ecco allora subito allestita una scaletta che, insieme a quattro originali “in stile” (tra cui la bella Jack Johnson), propone un repertorio rubato a Bob Dylan, Lucinda Williams, Lightnin’ Hopkins, Jimmie Driftwood, Louis Jordan. Hillbilly Voodoo è la prima parte di un progetto replicato nel giro di pochi mesi che divaga tra folk, country & western, hillbilly, blues e in realtà privo di una identità decisa.

Un disco che girovaga per l’America, come tanti dischi prima e dopo di lui.

Mentre noi guardiamo dal finestrino un po’ annoiati.

 

A stretto giro da Hillbilly Voodoo ecco uscire per la medesima etichetta il secondo atto del matrimonio interraziale fra Barrence Whitfield e Tom Russell, il folksinger californiano di cui si ignora l’anno di nascita.

Il ricettario di Cowboy Mambo è il medesimo, anche se stavolta si registra uno sguardo un po’ più ampio che cattura anche certe musiche di confine come mambo e zydeco, in particolare nelle tracce scritte da Tom Russell e Peter Case che si aggiungono ad un repertorio che include cover di Richard Thompson, Gram Parsons, Steve Earle, Jimmie Rodgers, Pops Staples, Ukulele Ike, The Band.

Ad eccezione del geniale arrangiamento di Insufficient Sweetie che suona come fosse solcato da un chiodo arrugginito e dal sound alla Los Lobos di A Little Wind, tutto un po’ troppo levigato per i miei gusti.

Aspetterò si rovini il vinile.

 

Chiusa la parentesi con Russell Barrence Whitfield costringe la nuova line-up dei Savages (Milton Reder, Dean Cassell, David Sholl, Ducky Carlisle, Karen Durkott) a realizzare Ritual of the Savages a metà degli anni Novanta, un discaccio pubblicato dall’inglese Demon Music e disseminato di petardi soul in parte scritti assieme a Ben Vaughn come Shoot Me Through the Heart, Jump Jive and Harmonize, Wiggy Waggy Woo, Stupidity, Caveman, House of Love cui difetta solo una produzione pensata per le radio più che per le bettole. Ma magari ce ne fosse di roba così che salta fuori quotidianamente dalle casse della nostra autoradio, tutta scivolosa di bave e di liquami che con l’”anima” hanno ben poco a che vedere ma hanno invece molto a che vedere col corpo. E con la sua dannazione. E col suo piacere.

Il rituale dei selvaggi.

 

Messi in standby i Savages, Barrence Whitfield cerca di capitalizzare quanto registrato con l’amico Tom Russell concentrandosi su una attività live che gli rende più di qualsiasi disco con la band. Assieme al chitarrista dei Radio Kings Michael Dinallo mette dunque in piedi gli Hillbilly Voodoo, con un set di canzoni di stampo country con cui gira per l’America prima e per l’Europa dopo.

Per anni.

Durante una data in Norvegia si imbattono in Vidar Busk, piccolo eroe rockabilly locale che pian pianino riaccende in loro la passione per il suono vigoroso di una rock ‘n’ roll band. Nascono così i Mercy Brothers che hanno il compito di dare nervo alle canzoni scritte da Dinallo, scritte pensando a vecchi eroi come Doc Watson, Buddy Guy, Woody Guthrie, Mississippi John Hurt, Leadbelly e alle quali Busk dona un tocco alla Eddie Cochran/Duane Eddy (Mr. Johnson, Stay Away from My Door) che quadra il cerchio.

Strange Adventure contiene tanta America che sembra vederla gocciolare sul pavimento. Barrence Whitfield si toglie il suo fez e la raccoglie come in un catino. E asperge i presenti.

 

Intestato autonomamente e realizzato con l’apporto di Steve Aquino dei Lyres, Scott Cormier, Brian Woraby, Howie Ferguson e lo storico compagno Milton Reder, Raw, Raw, Rough! riporta in pista lo screamer bostoniano dopo quindici anni di silenzio.

Fez maculato calato in testa, occhiali neri sul naso e una commovente dedica alla madre passata a miglior vita tre anni prima il disco del rientro in scena non poteva essere migliore. Come un leone che è stato troppo tempo in gabbia, Barrence torna a ruggire come ai vecchi tempi su canzonacce sporche come Kissing Tree, Long Green, Strychnine, Scratchin’, Baby, Geronimo Stomp, I Want Love and Affection Not the House of Detection, Wear Your Red Dress miscelando James Brown ed Esquerita con i Sonics, urlando sotto il trono di Dio, affinché scenda a visitare i bassifondi.

 

Per conquistare la Spagna Barrence Whitfield si fa dare una mano dal generale Petti e dai partigiani Bloodyhotsak che lo affiancano per un disco collettivo (Barrence Whitfield eta Petti & The Bloodyhotsak) che non riscuote grossa visibilità ne’ grande successo oltre i patri confini. Eppure, si tratta di un disco di roots music che soprattutto nella parte centrale, quando il suono si stempera verso un melanconico blues-rock alla Ry Cooder/John Hiatt, riesce davvero a solcarci la carne. Canzoni come The Lonesome Cowboy, Solasaldia o le cover di Veterans Day di Tom Russell e No Reason dei bostoniani Treat Her Right colorano il tramonto iberico di grandi ombre rosse come quelle dei film western.

Anche fuori dai suoi confini abituali, artistici e geografici, Barrence continua a sorprendere.

 

È la spagnola Munster Records a tenere a battesimo il ritorno ufficiale di Barrence Whitfield con i Savages. Ed è un ritorno di quelli che ci riappacificano col rock ‘n’ roll più viscerale. Quello di Little Richard, Screaming Jay Hawkins, Esquerita e dei Sonics. Accanto al gigante nero ci sono i vecchi amici dei Lyres Phil Lenker e Peter Greenberg mentre è Tom Quartulli a prendere il posto del sex-ofono che fu di David Sholl e Steve LaGrega. Se qualcuno avesse qualche, peraltro motivato, dubbio sul fatto che si possa suonare e cantare del rock ‘n’ roll varcata la soglia della terza età, Savage Kings è il disco che può fugarli.

Quello dei Savages è il ritorno in scena che riesce a fare lo scalpo ai Sonics, tornati in scena col debolissimo 8. Il materiale si concentra soprattutto sulle cover, il più delle volte oscurissime pepite rock ‘n’ roll e soul come Just Moved In, Who’s Gonna Rock My Baby o Bad Girl ma anche due versioni al cardiopalma di Ramblin’ Rose e Shot Down ma ci regala anche una perla come Willie Meehan che è davvero il precipitato tossico di tutto il northwest-punk più trucido e volgare.

Pochissimi, davvero pochissimi, riescono a fare un disco così anche con quarant’anni in meno sul groppone e tanta più fica intorno.

Barrence Whitfield a 56 anni si riprende il suo trono.

Con onore.

 

Barrence Whitfield trova di nuovo dimora stabile.

Dig thy Savage Soul è infatti il primo dei quattro album previsti dal contratto con la nuova etichetta Bloodshot. E quello che l’omone di Jacksonville consegna nelle mani dell’etichetta di Chicago è un cazzo di disco che la Bloodshot non può rifiutare.

Roba che può rimandare nelle tane Detroit Cobras, BellRays e metà delle scuderie Fat Possum e Norton. Stavolta Barrence ha fatto e pensato in grande, arricchendo ulteriormente la sezione fiati, chiamando come seconda voce Beth Harris e affidando ai suoi Savages la scrittura di almeno metà del materiale.

C’è come al solito molto soul (I’m Sad About It è roba in grado di spettinare i capelli laccati di James Brown, NdLYS), molto Little Richard, molto Don Covay e moltissima attitudine garage-punk ma, stavolta, anche una marcata influenza del rock ‘n’ roll della Sun, evidentissima in episodi come Hey Little Girl e, ancor più, Daddy’s Gone to Bed in cui Barrence aggiunge la sua firma a quelle dei soliti Greenberg e Lenker.

Sudicio, sempre più sudicio Mr. Whit(fi)e(ld).

Uno che quando va in bagno ad urinare non alza la tavoletta del WC e probabilmente quando esce non si lava le mani. E che nessuno è in grado di redarguire per questo.

Ventuno agosto 2015.

Rientro a casa dalle vacanze.

Rientro a casa che c’è Barrence Whitfield ad attendermi.

E non è poco, per nulla.

È come se ad aspettarmi ci fossero i Sonics, Wilson Pickett ed Esquerita. E volessero fare festa, dopo un’estate che di feste ne ha viste veramente poche. E dopo aver disertato quelle poche che avevo in calendario.

Un po’ come Barrence, che da sempre diserta le pagine delle riviste patinate, non essendo stato invitato. Si spaventano gliele sporchi, schizzandole di sperma punk come fa con la musica soul. Da trenta anni.

Un po’ quello che facevano i Sonics col rock ‘n’ roll del piccolo Riccardo. Questo almeno dovreste saperlo, se avete messo un disco sul piatto negli ultimi cinquant’anni. Accanto a lui c’è sempre Peter Greenberg, che suonava la lira accanto a Jeff Conolly quando anche lui cantava Skinny Minnie, ma in Massachusetts. L’energia che sprigiona da questo nuovo Under the Savage Sky è identica a quella. Quindi sapete già se può fare al caso vostro o se per voi basta già un disco di Lenny Kravitz o Bruno Mars per essere felici. Se preferite i posti affollati a quelli sudati, insomma. Gli addominali sagomati con l’Arancinotto o la pingue che se ne frega del buon gusto e di MTV.

Ventuno agosto.

Felice di tornare a casa.

Felice che sia venuto ad accogliermi con un abbraccio, Barrence.

Pochi l’avrebbero fatto.

Te lo restituisco, mentre fuori Dio comincia ad orinare.

 

Nei primi mesi del 2018 un petardo bello grosso ci viene recapitato da Boston. Anzi, stavolta da Cincinnati. A lanciarlo è ancora una volta Mr. Barrence Whitfield.

Uno che alla soglia dei settant’anni canta ancora come il Mike Chandler a vent’anni.

Soul Flowers of Titan è un disco di quelli belli luridi.

È soul, è garage, è blues, è rockabilly. Una belva con la testa di Andre Williams e il corpo dei Sonics che ti prende il culo a morsi.

Non vi spiazzi il nuovo vezzo di Barrence di agghindarsi come Sun Ra: il suono dei Savages è un omaggio al sound da latrina soul di etichette come King, DeLuxe e Federal, le stesse dove grondava il sudore nero di gente come Hank Ballard, Otis Williams e James Brown.

È il mondo che si è fermato al 1965 e non vuole saperne di andare avanti, perché non gliene fotte un cazzo di tutto quello che è venuto dopo. Si è bloccato nello stesso magico istante in cui i Sonics incidono Psycho, Wilson Pickett In the Midnight Hour, i Pharaohs Wooly Bully e Otis Redding Mr. Pitiful.

Si è fermato ancora cucciolo, ancora col sorriso sulle labbra e gli ormoni in circolo.

Soul Flowers of Titan ci riporta a quel sorriso e a quel dosaggio ormonale.

Potreste scoprire di averne bisogno, almeno quanto me.

 

Giusto il tempo di poggiare il pork pie e sostituirlo con un copricapo da Faraone ed ecco Mr. Whitfield tornare nelle vesti di Sun Ra, con un incredibile disco di funk dadaista. Pur diverse per provenienza temporale, le tracce di Songs from the Sun Ra Cosmos si integrano come i pezzi di un Tetris a comporre una scaletta fenomenale dove soul music, jazz, exotica, funk esplodono come migliaia di biglie colorate una volta pestate dal piede del gigante Barrence.

Un disco incredibilmente fisico, nonostante vada a pescare in mezzo ad un repertorio fra i più alieni della storia della musica contemporanea. Ecco dunque uno stomp alla New-Orleans come Muck Muck, il profluvio di chitarre distorte di Black Man, il muscoloso e sincopato ritmo di I’m Gonna Unmask the Batman, il P-funk di Everything Is Space e il jazz esotico e liquido di Love in Outer Space riempire quella porzione di spazio che ci è concessa e mostrarci dei Savages in forma smagliante a far dispetto alle rughe.

Trovate un piatto su cui far atterrare questa astronave, terrestri!

Glory arriva nel 2023 a celebrare i quarant’anni di carriera del Papa nero e dei suoi Savages.

Il disco vede la comparsata (anzi, la presenza, visto che spesso è proprio il suo sassofono a dare carattere alla maggior parte dei pezzi) di Spencer degli MFC Chicken e la produzione di Mike Mariconda, il cui contributo in termini di sagacia sonora è evidente in pezzi “sanguigni” come I’m Ready I’m Ready!, Cape May Diamond, Killing Time e Rumble Strip, tutti ottimi numeri da avanspettacolo frat-rock che mettono nuova legna ad un fuoco che arde ormai da decenni, e che riesce a raggrumare i suoni anche quando le strutture sonore non deviano più di tanto da un canonico R&B (I Do My Best to Survive, Play Pen o I’m Young, per esempio) che sembrerebbe procedere verso un solido e rassicurante ponte sonoro che collega gli Animals ai Blues Brothers. Quello che rischia di essere un “ordinario” album di musica soul/R ‘n B diventa così un altro vessillo in grado di tenere alta la credibilità di Mr. Whitfield alla soglia dei suoi settant’anni.

 Franco “Lys” Dimauro

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BARRENCE WHITFIELD SOUL SAVAGE ARKESTRA – Songs from the Sun Ra Cosmos (Modern Harmonic)  

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Giusto il tempo di poggiare il pork pie e sostituirlo con un copricapo da Faraone ed ecco Mr. Whitfield tornare nelle vesti di Sun Ra, con un incredibile disco di funk dadaista. Pur diverse per provenienza temporale, le tracce di Songs from the Sun Ra Cosmos si integrano come i pezzi di un Tetris a comporre una scaletta fenomenale dove soul music, jazz, exotica, funk esplodono come migliaia di biglie colorate una volta pestate dal piede del gigante Barrence.

Un disco incredibilmente fisico, nonostante vada a pescare in mezzo ad un repertorio fra i più alieni della storia della musica contemporanea. Ecco dunque uno stomp alla New-Orleans come Muck Muck, il profluvio di chitarre distorte di Black Man, il muscoloso e sincopato ritmo di I’m Gonna Unmask the Batman, il P-funk di Everything Is Space e il jazz esotico e liquido di Love in Outer Space riempire quella porzione di spazio che ci è concessa e mostrarci dei Savages in forma smagliante a far dispetto alle rughe

Trovate un piatto su cui far atterrare questa astronave, terrestri!

 

                                                                                       Franco “Lys” Dimauro

THE LIMBOOS – Baia (Penniman)  

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Nessun cedimento, dentro la scaletta di Baia. Quella che dalla Spagna digrada direttamente fin dentro le spiagge di Bocas del Toro in Costarica.      

Terzo disco, terzo centro per la band spagnola dunque. Riconfermato l’assetto a cinque e prorogato per la terza volta il contratto con Mike Mariconda, la band di Madrid torna con il suo consueto, energico blend di ritmi latini.

Eleganti senza mai essere di maniera, i pezzi dei Limboos si muovono tra rumba, swing e smooth jazz sfoderando sempre numeri contagiosi, anche quando il contagio può diventare virale per l’ovvio avvicinamento corporale ispirato da brani più lenti come Till the End of Time o Way Too Long. D’altro canto il tiro energico di pezzi come La descarga, Big Shot, Where DId She Go?, The First Degree ricorda quello dei compianti (da me, non so da quanti altri) Royal Crown Revue di cui i Limboos rappresentano un’ottima versione lite.

Se non la prima, la seconda soluzione consigliata per sciogliere le vostre cartilagini rattrappite dal freddo.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LINK PROTRUDI AND THE JAYMEN – Seduction (Music Maniac)

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La grafica di copertina che copia spudoratamente le confezioni dei profumi Dior onestamente non è gran cosa. Però, forse, considerando che all’epoca quelle erano le fragranze preferite dalla compagna Cori e che Seduction usciva dopo il live Lysergic Ejaculations sulla cui copertina Rudi aveva fosse toccato il livello più basso tra i suoi altrimenti apprezzabili lavori grafici, ci troviamo davanti ad uno dei pochi plateali gesti romantici del Protrudi.

Il disco è un tuffo nell’exotica ed è un omaggio alla musica turca di cui Protrudi, a corto di dischi durante il suo “esilio” olandese (eccetto un paio di raccolte psichedeliche di Pretty Things ed Electric Prunes), si intossica nel locale turco dove la sua donna lavora come banconista. I Jaymen lo “supportano” a distanza, inviando su floppy le basi ritmiche su cui Rudi adatta le sue due chitarre, cercando di ricreare il clima delle musiche per la danza del ventre di cui sta facendo incetta. Il risultato è un disco che ha rimpiazzato la emme alla t di torbido e che all’aggressivo burlesque protagonista del disco precedente ha sostituito le più sinuose movenze delle danze medio-orientali. Con risultati non sempre avvincenti, se non supportati dall’adeguato spettacolo visivo che ne è parte integrante.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro  

AA. VV. – Las Vegas Grind! (Strip)  

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Musica per spogliarelli e spettacoli burlesque da infimo ordine. Tutto l’amore di Tim Warren per la musica trash, per l’exotica da bordello, per il rock ‘n’ roll ridotto a puro delirio ormonale, per la lounge music da osteria, per i balli di gruppo svaccati, per la musica da cabaret alcolico risuona in questa raccolta di musiche di ostinata follia ritmica e lessicale. Una raccolta strepitosa con cui Warren, continuando a scavare, finisce per ritrovarsi in un’orgia di musiche degli anni ’40 e ’50, oltre la cortina di ferro e zinco del rock and roll, fra donne pin-up e uomini-scimmia che si scambiano odori e sudore in una danza tribale e rituale di sesso che celebra la fine del proibizionismo e la caduta dei primi tabù erotici. Micidiale.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE GHIBLIS – Surfinia (Area Pirata) / THE BRADIPOS IV – Lost Waves (Area Pirata)  

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Prima di serrare le imposte per la stagione estiva, Area Pirata ci saluta con un paio di produzioni che della bella stagione hanno tutto l’odore e la voglia di fregarsene di tutto il mondo creato andandosi a rifugiare in un microcosmo dominato dalle onde e popolato da esotiche creature zoomorfiche metà donne e metà marziane. Nel caso dei Ghiblis di Piacenza, che raccolgono il testimone dei Diabolico Coupé, questo pianeta prende il nome di Surfinia. Ce lo descrivono, muti, facendoci percepire il barrito dei pachidermi e il rumore delle placche dei rettili marini che di certo lo abitano assieme alle altre creature amene. Riverberi e risacche primitive riempiono gli anfratti delle sei canzoni del loro debutto, analogamente a quanto accade nel quarto album dei casertani Bradipos IV, sebbene il suono di Lost Waves sia meno crepitante e solare. Il mare nella loro città non c’è ma i bradipi riescono a portarci addirittura l’oceano e il fragore delle sue onde. L’immaginario, rispetto alle produzioni che li vedevano impegnati in una “rivisitazione” del patrimonio musicale locale, torna ad essere quello dei grandi spazi americani, californiani in particolare, come nella tradizione del genere. Genere di cui peraltro i Bradipos IV sono tra i migliori a livello mondiale. Questo album ne è l’ulteriore riprova. Attenti a chiudere le finestre di casa, prima che una mega-onda arrivi a sommergervi mentre siete in panciolle aspettando la prova costume. Quella delle donne, si capisce.    

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE LIMBOOS – Limbootica (Penniman)  

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Il primo album dei Limboos, speditomi da Enric Bosser della Penniman il 21 ottobre del 2014, non mi è mai arrivato. Non avendo l’abitudine di andare a cercare in rete quel che sfugge ai miei scaffali di dischi o alle lenzuola del mio letto, non avevo ancora ascoltato la formazione di Madrid fino ad oggi, data di uscita di Limbootica, disco che suona esattamente quel che promette: musica retroattiva ed esotica che guarda all’America Centrale (Cuba, Trinidad e Tobago, le Hawaii) come paradiso immaginato e immaginario. Mambo, son, calypso, guaràcha, limbo, Jawaiian, boogaloo sono le essenze fondamentali della loro miscela. Roba ottima per le feste sulla spiaggia, come alternativa ai consumatissimi ritmi del reggaeton che vi stanno bruciando le cervella. I pezzi sono tutti scritti dalla band ma sono perfettamente integrabili a quelli di gente come Chuck Higgins, Illinois Jacquet, Ruth Brown, Richard Berry. È un bagno nel rigenerante Pachuco boogie in cui tantissimi artisti del primo rock ‘n’ roll e del blues elettrico finirono per bagnarsi se non la testa, quantomeno i piedi e che oggi è fra le musiche roots dimenticate di un mondo che corre troppo veloce e che si diverte con quel poco che ricorda ancora.  

           

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – The Men from O.R.G.A.N. (S.H.A.D.O.)

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Eleganza e coerenza sono doti della S.H.A.D.O. che non si discutono, e chi ama abbandonarsi alle frivolezze amarcord dell’estetica vintage sa che dentro al suo catalogo può trovarsi piacevolmente a proprio agio. Sicché anche questo nuovo lavoro non tradisce quanto promette, ovvero una full-immersion nella riscoperta della tecnologia analogica applicata stavolta ai tasti d’ottone che, più che portarci indietro nel tempo, ci fa penzolare beatamente in una sorta di atemporalità fuori da ogni dimensione che non sia quella del puro piacere auricolare nell’esporsi a questa overdose di soffi Hammond, Vox, Farfisa, e Casio piegati al gioco di questi quadri di pop-art onirica e spumosa dai toni languidi e dilatati (con poche eccezioni: L’Argumentation con un Vox saltellante che pare uscito fuori da qualche inedita jam dei Doors, la discomusic da Via Veneto dei Papas Fritas, il rivolo minimal-disco di Gonzales, la divertente marcetta dei Sukia, NdLYS) che, quasi a voler sfidare le pieghe del tempo, ripesca pure dal passato perle di sonorizzazione di Nino Ropicavoli, Berto Pisano (scomparso, scherzi del destino, giusto due mesi prima dell’uscita di questo disco che ne sigilla il ricordo) e Martin Rev in un esperimento propedeutico al suo ormai prossimo “Suicidio”.

Bravissimi lì alla S.H.A.D.O., a fotografare i graffi e i graffiti di un’epoca che ha il suo fascino immortale.

                         Franco “Lys” Dimauro