GANG GREEN – Another Wasted Night (Taang!)

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Una vera forza della natura, i Gang Green di Chris Doherty, sciolti e riformati dal loro leader già prima dell’esordio fino a reclutare il “personale” che può garantirgli la potenza necessaria per sostenere i pezzi che ha scritto nel frattempo. E i pezzi che ha scritto nel frattempo sono roba come Skate to Hell, Another Wasted Night, Have Fun, Last Chance, 19th Hole, Alcohol, pirotecnici assalti alla fortezza hardcore dal fronte bostoniano.

Con un repertorio simile, viene piuttosto da chiedersi da dove nasca l’esigenza di infilare in scaletta un pezzaccio come Voices Carry dei ‘Til Tuesday, che non c’è modo di rendere dignitoso neppure vestito di ferramenta punk, neppure coperta di sarcasmo. Il suo passo stentato è l’unico messo in fallo nei pochi ma fondamentali minuti di Another Wasted Night, la prima corsa a rotta di collo della band più verde d’America.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CIRCLE JƎRKS – Wild in the Streets (Faulty Products)

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Mentre gli ex compagni Black Flag cercano di esperire le nuove influenze musicali che graveranno sul post-Damaged e che dopo due anni confluiranno nei controversi dischi del 1984, Keith Morris torna a due anni di distanza da Group Sex replicando la furia hardcore di quel debutto, mandando stavolta in avanscoperta addirittura un “vecchio” numero di Garland Jeffreys (mentre i “titoli di coda” sono firmati da Paul Revere e Jackie DeShannon), chiamato ad intitolare l’intero album.

Tecnicamente, il gruppo californiano ci tiene a mostrare di essere migliorato e non di poco: ce ne dà dimostrazione in particolare su Murder the Disturbed e Leave Me Alone e in quella Defamation Innuendo che, senza volerlo (oppure, chissà…) anticipa di dieci anni buoni quel che Henry Rollins farà con la sua band. L’impianto, tuttavia, resta tipicamente hardcore, come peraltro confermato dal minutaggio inferiore alla mezz’ora, dunque con una media inferiore ai due minuti per pezzo e mazzate come Forced Labor, Question Authority, Trapped e Meet the Press a creare ancora scompiglio, dentro e fuori la California.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

GORILLA BISCUITS – Start Today (Revelation)

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Le peculiarità dell’hardcore americano si definirono in California grazie ai seminali lavori di Germs, Black Flag, Dead Kennedys pubblicati nel triennio ‘79/’81. La scena newyorkese sarebbe rimasta al palo per un po’ e anche successivamente avrebbe faticato nello sfornare band capaci di sottrarre lo scettro alla costa ovest.

I “rinforzi” newyorkesi sarebbero arrivati con grande ritardo e non sempre i granatieri delle compagnie orientali si sarebbero rivelati dei grandi tiratori. Fra tutti, il miglior reparto d’assalto fu quello dei Gorilla Biscuits. Formatisi solo due anni prima e con un bellissimo EP pubblicato nel 1988, arrivano all’unico album nel 1989 con una sferragliante sequenza di brani in tipico stile hardcore ma che rivelano anche la volontà di lanciarsi oltre quell’angusto steccato, con pezzi come la title-track, Sitting Around at Home e Competition dove la velocità compulsa si ridimensiona e trova il modo di riassettare la mira e riallestire i bersagli mandati in frantumi con New DirectionDegradationThings We SayCats and Dogs e definitivamente polverizzati sull’attacco conclusivo della loro innodica Gorilla Biscuits.

Gorilla Biscuits in your head
One more time and you’ll be dead
Better watch out better be scared
Heading for the dragon’s lair
G-O-R-I-double L-A biscuits!
  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

LA’s WASTED YOUTH – Reagan’s In (ICI Sanoblast)

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La prima “opera su copertina” di Pushead, il grafico divenuto poi famoso per i lavori per Metallica, Misfits, Exploited e Megadeth, è il Reagan sfregiato dall’aerosol che campeggia sul debutto dei Wasted Youth. Ed è probabile ci abbia messo più lui a disegnarlo che i quattro musicisti a registrarlo: solo tredici minuti per incidere uno dei dischi fondativi dell’hardcore di Los Angeles, quello con inni bestiali come Fuck Authority, Uni-High Beefrag e la You’re a Jerk che eredita e riverbera tutto lo sfasciume dei Germs. Tutto dentro i canoni tipici del genere, dalla velocità che rallenta solo in un paio di brani al suono “strappato” della chitarra, dai temi politici sdoganati dai Dead Kennedys al basso prepotente e legnoso.

Possibilità di essere apprezzati fuori dalla cerchia di appassionati pari a zero.

In coerenza con la volontà di farlo.            

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SCREAM – Still Screaming (Dischord)

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Il primo album interamente accreditato ad una band in seno alla Dischord è quello degli Scream, la band in cui sarà coinvolto poi Dave Grohl, ma a quel punto si tratterà di una mina del tutto disinnescata. Chi volesse invece assistere all’innesco della bomba hardcore washingtoniana, è qui che dovrebbe volgere le orecchie.

I fratelli Stahl sono ancora adolescenti quando si bruciano le loro al suono del primo hardcore punk dei Germs e nel 1981, quando l’intera scena hc esplode, decidono di tirare su una band che sulle rovine di quel suono possa erigere il proprio monumento, avvicinandosi geograficamente e stilisticamente a band come Government Issue, Bad Brains e Minor Threat spostandosi dalla Virginia a Washington. Il risultato delle prime sessions con Don Zientara e Ian MacKaye è Still Screaming, disco grondante di sudore e pieno di anthem da urlare a squarciagola. Un album che su Laissez-Faire anticipa fra l’altro, senza che nessuno gliene riconosca la paternità, l’intuizione degli Hüsker Dü di Zen Arcade di piegare il ferro punk creando un nuovo manufatto punk domestico ed introspettivo.

Il Polifemo dell’alternative-rock era già rimasto accecato dalla magnificenza della SST ma era in casa Dischord che si faceva la storia. Gli Scream erano fra i primi a dimostrarlo.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE EXPLOITED – Punks Not Dead. (Secret)

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Wattie Buchan, nativo di Edimburgo, sarebbe diventato con la sua altissima cresta colorata il “Grand Camée” di tutto il punk britannico dagli anni Ottanta in poi, Punks Not Dead., il disco di debutto dei suoi Exploited il titolo più citato, spesso senza neppure conoscerne la fonte, sui muri delle città per rivendicare la vita eterna del punk dopo la deflagrazione dei loro primi eroi Sex Pistols. Gli Exploited erano stati chiamati in qualche modo a raccoglierne l’eredità, portando il genere verso le nuove forme che il punk andava assumendo che erano innanzitutto quelle dell’hardcore ma anche dello street-punk poi formalizzato nell’Oi!, alla cui estetica però gli Exploited non avrebbero mai aderito, prediligendo la velocità al corporativismo.

Gli Exploited annientano ogni concetto di “post-punk”: dopo il punk, può esserci solo il punk. Forse ancora più estremo, forse più caricaturale, più esacerbato, più grottesco, più approssimativo e violento ma ancora punk nella forma e nella struttura. Il loro esordio dimostra in quindici canzoni che durano ognuna meno della metà dello sviluppo di un’istantanea Polaroid, sostenute da un riff essenziale e da un cantato in cui l’espressività è ridotta a quella di un corteo politico che, esaurita la carica di novità, il punk sarebbe sopravvissuto riciclando in eterno la sua idea base.    

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Urla dal Granducato #3 (Area Pirata)

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Il Granducato urla ancora.

A venti anni dalla prima raccolta che raccoglieva l’eco delle urla lanciate da band come War Dogs, Auf’schlag, Senza Sterzo nel cuore della Toscana Area Pirata rimette le mani nella merda. Senza guanti. Senza mascherine. Senza Amuchina. Che ci siamo rotti i coglioni di disinfettarci le mani ad ogni scorreggia.

I protagonisti di questo nuova autopsia sul corpo ormai gelido dell’HC toscano sono i Dements, gli IMMENSI Testemarce (con il loro intero e unico 7” qui incluso per intero e che pare sarà presto oggetto di ristampa a parte), i Dia-triba, i Lanciafiamme, i Soviet Sex e gli Sweet Baby Oi!, tutti con roba sopravvissuta chissà come dalle inondazioni d’acqua e dal deposito di polvere che si è accumulata non solo sulle loro produzioni ma soprattutto sulla nostra caduca memoria e sulla nostra transitoria gioventù. Ora che oltre alla memoria ci stanno arrugginendo anche le ossa e l’anima, le urla dal granducato post-mediceo servono a risvegliarci da un torpore che rischia di renderci sempre più simili a quello che prima aborrivamo.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MINOR THREAT – Out of Step (Dischord)

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Un’autentica batteria antiaerea piantata nel cuore di Washington.

Già sciolti e riformati quando sparano in aria i missili di Out of Step i Minor Threat vergano il loro testamento artistico con un lavoro stratosferico.

Sono in molti a sparare, in quegli anni.

Ma i Minor Threat sparano meglio di tanti altri.

Precisi, rigorosi, perforanti, pignoli. Pronti a sbriciolare ogni muro, anche a rischio di non averne più uno su cui attaccare i volantini con i loro documenti programmatici usando i droplets di saliva di Ian MacKaye.

Un disco lucidissimo per contenuti e potenza, pure quando sceglie di spezzare le catene dell’HC classico interrompendone il convulso passo ritmico, giocando sullo sfasamento delle chitarre anziché sul loro raddoppio, fischiando come turisti a passeggio (come nell’impercettibile finale di It Follows) oppure sganciando a fine corsa una canzone come Cashing In, che in tutto questo furore suona quasi come una lusinga pop.

La pecora nera lascia il gregge, senza più tornare indietro.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

OSEES – A Foul Form (Castle Face)

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Il bello (o il brutto) dei dischi degli Osees è che li compri e non sai cosa ti stai portando a casa. Autrice di una discografia ingombrante, la band californiana continua a cambiare pelle quasi ad ogni uscita. Stavolta tocca all’hardcore e allo scum punk a venir, diciamo così, “dissotterrato”. Senza che se ne sentisse davvero la necessità, a dire il vero. Però è successo che John Dwyer, che all’epoca dell’esplosione hardcore era ancora alle scuole elementari, ha riscoperto il genere durante l’isolamento da pandemia, assieme a tonnellate di thrash metal, di anarco-punk e in generale di tutte quelle musiche estreme del rock dei primi anni Ottanta, e così si è immaginato proiettato in quell’universo per una ventina di minuti, che sono quelli di A Foul Form.

Dieci canzoni veloci e scheletriche, con la chitarra collegata direttamente ad un monitor Tekton Tweeter Array apposta per “depotenziare” le frequenze medie e renderle simili al rumore di una friggitoria di Chinatown e creare dunque l’effetto monodimensionale tipico del genere. Unico pezzo a distogliere lo sguardo da quel mondo cruento, la Too Late for Suicide che nei suoi tre minuti e mezzo rivendica la sua natura di pezzo alieno e fuori contesto. Il resto è un insieme di sputi crassiani e di invettive che dalla politica tracimano nello splatter di cui onestamente non si sentiva grandissima nostalgia.     

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RAW POWER – Screams from the Gutter (Toxic Shock)

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Dichiarare guerra agli Stati Uniti usando le loro stesse armi. L’idea non era nuova, ma era stata sempre fallimentare. Gli unici che erano riusciti a conquistare qualche territorio, fino a quel momento, lo avevano fatto esportando roba che laggiù aveva un che di esotico o che attirava il fiuto degli emigrati lungo una nuvola di nostalgia che da Little Italy faceva a ritroso il percorso dei grandi transatlantici che tra fumo e puzzo di vomito avevano portato lì i loro nonni.

I primi a riuscire nell’impresa furono gli emiliani Raw Power, col loro furioso hardcore. Aiutati dall’uso della lingua inglese (armi alla pari, abbiamo detto), ovviamente, ma anche delle capacità funamboliche della band, capace di buttare giù interi plotoni nel breve volgere di un minuto e mezzo.

Dal buco del culo all’ombelico del mondo come un fiotto di sperma caldo.  

A prendersi la rivincita su quel micro-universo hardcore italiano in cui se non cantavi in italiano eri un pirla.

Screams from the Gutter è il manifesto di quel riscatto. Lo registrano in trenta ore soltanto, alla fine del tour con i Dead Kennedys, con Paul Mahern degli Zero Boys alla produzione ed è un disco MOSTRUOSO. La potenza del gruppo è devastante e ognuno di loro, anche il giovanissimo Helder Stefanini che non ha ancora compiuto diciotto anni e che alla batteria è già un octopus a otto tentacoli, è in grado di far sanguinare il proprio strumento. Pezzi come My Boss, Joe’s the Best, We’re All Gonna Die, Police, Police, Start a Fight, State Oppression, A Certain Kind of Killer fanno il vuoto attorno a loro.

Quando il disco arresta la sua corsa, dopo meno di mezz’ora, hai preso tanti di quei calci nel culo da avere le chiappe rosse come dopo uno spanking.

I Raw Power si son presi tutto.

Anche te.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro