SCIENTISTS – The Human Jukebox (Karbon)

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Gli Scientists lasciano l’Inghilterra facendo un frastuono enorme.

Con una formazione ridotta a trio, Kim Salmon, Tony Thewlis e Nick Combe si danno all’efferatezza estrema con The Human Jukebox, disco-capolavoro che esaspera ulteriormente le due anime del gruppo: quella più iconoclasta e disturbante e quella che invece ama raggomitolarsi nel sudario greve del blues.

The Human Jukebox indugia in sette rappresentazioni del diavolo e del raccapriccio, dal passo strascicato di Shine a quel vilipendio ai resti di Eddie Cochran che è la title-track, dai clangori industriali di Hungry Eyes all’aritmia di Place Called Bad a quella cacofonia di stridori metallici e di carrozze ferroviarie che caratterizzano sin dal titolo Distortion, tutto qui dentro sembra lambire la demenza psichiatrica.

Gli Scientists sfasciano il loro laboratorio, come elefanti tra i cristalli.

Poi telefonano a casa per annunciare il loro rientro.

Imminente, come la morte dopo una catastrofe.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

UZEDA – The Peel Sessions (Strange Fruit)  

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Venti anni dopo la PFM sono i siciliani Uzeda a potersi vantare di essere la seconda band italiana fra le oltre 2000 band in totale ad essere chiamata da John Peel a registrare direttamente dentro gli studi della BBC dove il deejay inglese conduce dal 1967 il suo radio show. E così l’8 maggio del 1994 un panzer catanese fa il suo primo ingresso nei Maida Vale 4 e scarica punzonatrici, seghe circolari, scarificatori, martelli pneumatici, frese, trapani a colonna e un aspiratore per ripulire gli studi dagli scarti di lavorazione. Gli Uzeda sono pronti a registrare i sei pezzi che troveranno anche la gloria di una uscita discografica per la storica Strange Fruit. Tre panni sporchi tirati fuori dall’oblò di “Waters”, altre tre lastre di metallo appena sfornate e rivettate a velocità impressionante davanti ai nostri occhi e soprattutto sotto le nostre orecchie. Higher Than Me e Slow sono virulenti cicloni noise che preludono ai cataclismi vertiginosi di 4 e Different Section Wires.

Da quelle Peel Sessions gli Uzeda non torneranno più uguali a quelli di prima.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Sub Pop 100 (Sub Pop)

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A fare davvero la storia sarà, due anni dopo, Sub Pop 200, ma questo fu l’inizio di tutto. Talmente inizio che non ne trovate menzione neppure sul sito dell’etichetta, dove fra l’altro la nascita della label è attestata addirittura nel 1988.

Siamo qui invece nel 1986, a Seattle, e Bruce Pavitt è ancora un venticinquenne in fissa col “pop sotterraneo” che si muove come una tenia sotto la crosta dura dell’America. Con quel nome ha già messo in piedi una fanzine e ora, facendo tesoro del materiale che gli arriva un po’ da mezzo continente, vuole stampare qualche disco. Senza grosse pretese, generando suo malgrado l’ultimo grande fenomeno di costume del XX secolo. Una rivoluzione che in qualche modo è già in nuce in questa mezz’oretta di musica che vede allineata una dozzina di band che saranno fra gli ispiratori del primo grunge, Wipers, Scratch Acid, Sonic Youth, U-Men in primis. E poi un tot di mentori del “fastidio”, dagli Skinny Puppy ai Boy Dirt Car, dai Lupe Diaz ai Savage Republic fino agli sperimentalismi di Steve Fisk che da lì a breve diventerà uno dei produttori di fiducia dell’etichetta mettendo le mani sui primi singoli di Soundgarden, Walkabouts, Screaming Trees, Beat Happening, Helios Creed. Il mondo non è ancora pronto, ma Bruce Pavitt sta preparando la sua rivoluzione.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GIRLS IN SYNTHESIS – Die Leere (Hound Gawd!)

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Dura appena un quarto d’ora lo spuntino che i Girls in Synthesis apparecchiano fra il pesante pasto di The Rest Is Distraction e la cena prevista per l’anno prossimo.

Direi che se l’appetito vien mangiando, Die Leere si mostra aperitivo alcolico efficace, con i suoi suoni allotropici di grafite nera che ribadiscono la posizione di assoluta centralità che il gruppo londinese ha ormai assunto nella folksonomia del post-punk britannico di ultima generazione che ne fa gli ideali prosecutori dell’elettrico sabba dei Wire (qui Against the Seething potrebbe essere letta come un’operazione di “raschiamento” su I Am the Fly) e dei sortilegi dei vampiri Bauhaus (le camere d’eco di I Know No Other Dub, la tagliasiepe elettrica che falcia Sinking Feeling), in un analogo mondo in bianco e nero.

I Girls in Synthesis cacano ferro e ruggine sulle vostre teste. Attenti quando passate sul London Bridge.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WORKDOGS – In Hell (Sympathy for the Record Industry)

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All’inferno con altri dannati, lasciando la porta socchiusa in modo che chiunque voglia possa entrare a raccontare la sua perversione, come una seduta psicoterapeutica di gruppo. Laddove psicoterapia fa rima con psicopatia.

Quella dei Workdogs è la versione perversa e post-industriale del talking blues e In Hell uno dei dischi collettivi più sgangherati di sempre. Priva di forma e di bordi, la musica dei Workdogs e dei loro ospiti (fra cui Jad Fair, Moe Tucker, Jeff Evans, Bob Bert, Lydia Lunch, Foetus) tracima dappertutto, in un workshop creativo di destrutturazione armonica in cui strumenti reali, suoni concreti, feedback, modulazioni di frequenza ed altri elementi di disturbo si alternano o si sovrappongono creando grumi e canali di scolo per le confessioni proibite dei protagonisti in un concept sul vizio che unisce trasversalmente la New York di Lou Reed a quella della no-wave e di Jon Spencer, la musica improvvisata e le favole dell’orco cattivo.     

    

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MOODY BEACHES – Acid Ocean (Poison City/Beast)

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Dieci folgorazioni elettriche dal mare acido che bagna Melbourne: le Moody Beaches allungano la tempesta di rumore che ci aveva già investito col mini-lp di cinque anni fa con dieci tracce di noise-rock che, nonostante la grande polvere metallica che le riveste, non perdono mai la bussola melodica, riuscendo a coniugare le due anime con grandissima abilità e creando una sorta di versione deviata e supersonica dello shoegaze e riportando alla memoria il suono e l’urgenza espressiva delle Veruca Salt. I pezzi del terzetto sono modulati secondo due “normotipi”: quelli del crescendo e quelli dell’alternanza fra sezioni cariche di rumore stratificato e momenti di quiete appena increspata, riuscendo in entrambi i casi a creare quella tensione necessaria per rendere Acid Ocean un debutto degno di grandissima attenzione.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PLEASURE DOME – Equinox (Hound Gawd!)

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Dopo un lungo e attento lavoro di fresatura del terreno ecco i Pleasure Dome alle prese con il lungamente protratto appuntamento con l’album di debutto, a qualche mese dal loro esordio su disco a coronamento di una prima fase di carriera avviata solo sul bandcamp personale. I tredici pezzi ordinati su Equinox mostrano un terzetto capace di manovrare un bulldozer noise-rock solidissimo, a tratti esacerbato ma tutto sommato assimilabile a quanto sperimentato qualche decennio fa da Nirvana e Pixies (Pass the Parcel, Love Is Dead, Psychodrama), anche se a volte ancillare ad un declamatorio che ricorda tanto i Fall quanto i Pil o, alla bisogna, memore del tipico screamo hardcore (come nei passi più concitati di Boiler Room o nell’urlato che tracima dall’ultimo solco del disco), pur mantenendo sempre una dose di disciplinata punta melodica.  

In maniera estemporanea (On the Beaches, At Dawn, What a Shame, il lungo incipit di No Guts No Fame) il gruppo di Bristol è felice di disalimentare gli apparati sotto tensione e stemperarsi in una forma di languida quanto sinistra, inquieta ballata.

Fulcro d’equilibrio di queste anime divergenti è la strepitosa Vampire of the Night, capolavoro in grado di profanare, assieme alla lunga traccia conclusiva, il sepolcro in cui ormai da secoli è stato tumulato il death-punk. Chissà che non finiate per restarci sepolti pure voi.  

 

                                                                             Franco “Lys” Dimauro

IL TEATRO DEGLI ORRORI – Il mondo nuovo (La Tempesta Dischi)

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C’è un grande affollamento di nomi, nel “mondo nuovo” de Il Teatro degli Orrori.

Intellettuali, politici, animali domestici e uomini comuni. Continenti e città.

Pasolini, Gramsci, Asor Rosa, Slavoj Žižek, Henry Okah.

E poi Zuzanna, Thomas, Sergej, Ion, Monica, Doris, Pablo, Nicolaj, Adrian.  

Che vivono e muoiono tra Roma capitale, Marghera, Treviso, Milano, Skopje, Cleveland, Baghdad, l’Italia, gli Stati Uniti (d’Africa e d’America) senza che nessuno si accorgerà che siano mai arrivati o andati via.

Come nei debutti di Massimo Volume e Offlaga Disco Pax la provincia italiana si trasforma in un ventre che partorisce personaggi epici e invisibili.  

C’è un occhio sempre più politico e una bocca sempre più polemica che si agitano nella musica della formazione veneta ma c’è soprattutto il tentativo di tagliare le sbarre d’acciaio del loro suono e provare a fare qualcosa di diverso, di insolito, di più strutturato e curato. Di tentare qualche innesto. Meno pancia, meno sangue e più raziocinio un po’ in tutte le tracce.

Pezzi come Ion, Cuore d’oceano, Vivere e morire a Treviso, Gli Stati Uniti d’Africa, Cleveland-Baghdad, Pablo sono un tentativo, non sempre (con)vincente di evitare i luoghi corrotti ed immorali che erano tratti salienti del fascino perverso de Il Teatro degli Orrori. Che ne escono davvero un po’ sfigurati, come la copertina suggerisce.

Un po’ meno necessari.

Come se davvero “si stava meglio prima”, come dicevano gli X di The New World.

E in questo mondo nuovo noi, io, loro ci sentiamo un po’ a disagio.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

 

HEAD OF DAVID – ‘LP’ (Blast First)

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Il fragore è quello dei Killing Joke, centuplicato fino a farlo sembrare il rumore assordante di un’officina industriale. Justin Broadrick ha lasciato i Napalm Death nel bel mezzo delle registrazioni di Scum per diventare il boia di David ed esportandone la brutalità, sfigurando i riff in un maelström catastrofico e metallico dentro cui anche la Rocket U.S.A. dei Suicide finisce per diventare ferro liquefatto, come nelle grandi industrie siderurgiche della Black Country da cui provengono.

Chitarra e basso suonano senza mai “affrontare” veramente un riff ma lavorando per accumulo di tensione e rumore, giungendo con Shadow Hills California all’apice del costrutto, trascinando il glam proteiforme dei primi Bauhaus (le cui sagome da pipistrello si avvertono già fra le ombre della precedente Joyride Burning X sotto le forme del celebre mantello dark con cui coprirono la salma di Bela Lugosi, NdLYS) dentro un altoforno per vederli sciogliere fra le fiamme. Snuff Rider M.C., dal canto suo, si ferma ad un passo dai Ministry, guardando il cyber-punk dritto negli occhi prima di sferrargli un calcio con gli anfibi proprio sulle palle.

Potenziali eredi del male estremo degli Swans, gli Head of David non riuscirono ad andare molto oltre lo status di cult-band, presto risucchiati nell’ombra degli enormi Godflesh che Broadrick riuscirà ad imporre come il nuovo avamposto industrial/noise degli anni Novanta.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SONIC YOUTH – Experimental Jet Set, Trash and No Star (DGC)

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Nell’aprile del 1994 arriva il singolo che anticipa il nuovo album dei Sonic Youth. Annunciato da un riff che è preso pari pari da It’s a Good Thing dei That Petrol Emotion, suona un po’ irrisolto, come del resto tutto l’album che il mese dopo è chiamato a contenerla. L’album sacrifica la densità rumorosa del disco precedente preferendo le cuciture sartoriali del cosiddetto lo-fi rock (registrando ad esempio l’intero lavoro sulle bobine di Sister, il cui fruscio intervalla le singole canzoni) rendendolo zoppicante sin dalla noiosissima introduzione di Winner’s Blues. Non si tratta però di un rifiuto morale ai vincoli imposti probabilmente dalla casa discografica che vuole finalmente sfruttare le potenzialità della band, visto che lungo il viaggio ci si schianta spesso su piccoli iceberg di roccia alternative-rock (l’omaggio ai “bei tempi” della SST Screaming Skull, Self-Obsessed and Sexxee, Waist).

Le condizioni per venire meno a quelle aspettative mainstream che li porteranno ad essere la band guida del Lollapalooza l’anno successivo dovranno necessariamente passare per la scelta della completa autonomia discografica, avviando una etichetta autonoma che viaggerà parallelamente a quella su major e alla quale verranno affidate le uscite più sperimentali e svincolate dallo status professionale raggiunto. Qui ci si limita a fissare su qualche intelaiatura empirica una sorta di nostalgia umorale di se stessi che si risolve in un prevedibile incrocio tra gli Uzeda e Patti Smith, alternando chiasso frastornante (la sbronza no-wave di Starfield Road) e sbalzi di umore, come succede nella Bone piazzata a metà del guado.

Ma Polly Jean Harvey aveva fatto meglio con il suo Rid of Me, senza deludere nessuno.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro