BRIAN ENO/DAVID BYRNE – My Life in the Bush of Ghosts (Sire)  

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Nell’agosto del 1982 presso gli uffici della Sire viene recapitata una lettera che profuma di incenso. Ad inviarla è il Concilio Islamico della Sharia, con sede al n. 34 della Francis Road di Londra. Il tagliacarte affonda dentro una corposa lingua di pergamena per tirare fuori un foglietto di poche ma autorevoli righe. La Sire e due musicisti della loro scuderia vengono accusati, senza diplomazia, di blasfemia per aver usato dei versi del Corano dentro un prodotto non religioso, alterandone la sacralità.

Quei due musicisti sono Brian Eno e David Byrne.

Quella canzone, Qu’ran.  

È uno dei primi atti di censura imposti dalla cultura araba a quella occidentale in rispetto della fede musulmana. Uno di quelli che si ricordano con meno clamore ma che di fatto “storpiò” il contenuto di uno dei dischi più importanti della storia che da allora in poi non venne più ristampato nella sua forma originaria. Mai più.  

Un po’ per rispetto, un po’ per paura, My Life in the Bush of Ghosts fu costretto all’automutilazione, sebbene restasse inalterato il senso di un disco seminale per intuizione e tecnica di montaggio.

Qualcuno aveva alzato un muro dentro un disco che progettava di abbatterli.

All’interno di questa zona aperta vibrano le “musiche possibili” a cui Brian Eno sta lavorando proprio in quegli anni, un enorme oscilloscopio agitato dai ritmi e dalle voci di ogni mondo conosciuto. Un safari virtuale di conciliazione panteista percorso da rumori occasionali, risacche elettroniche, percussioni tribali, voci captate da un etere che non è altro se non il respiro di Dio. E che qualcuno si ostina a pensare abbia un ritmo diverso da quello di Allāh.      

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

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FELT – Let the Snakes Crinkle Their Heads to Death (Creation)

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Inaspettatamente, col passaggio alla Creation, i Felt deviano verso una sorta di muzak dando alle stampe un miniLP interamente strumentale dai titoli vagamente evocativi ed indicativi, almeno nelle intenzioni, delle suggestioni che le hanno ispirate o che dovrebbero ispirare: Nazca Plain, Indian Scriptures, Ancient City Where I Lived, Viking Dress e così via, in una sorta di pinacoteca impressionista che in realtà mantiene meno di quel che ci si attendeva dal grande “salto di qualità” sancito dal contratto con l’etichetta del momento e chiusa da una futile canzonetta per organetto vintage come Sapphire Mansions che rappresenta il punto più basso toccato dai Felt, che pure nei siparietti strumentali diluiti sui dischi precedenti avevano sempre raggiunto ben altre vette e che adesso paiono invece scivolare fatalmente e consapevolmente nell’oblio.      

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JON HASSELL/BRIAN ENO – Fourth World # 1 – Possible Musics (Glitterbeat)    

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Musica etnica per anime apolidi, queste sono le “musiche possibili” che Jon Hassell dipinge con il suo sbuffo e che l’eco digitale di Brian Eno soffia su tutta la crosta del mondo. Il primo, il secondo, il terzo.

E il quarto.   

Quello sognato da Jon Hassell nei primi anni Ottanta.

Che è un mondo trasversale.

Nessuno vi abita, in realtà. Ma è popolato dalle ombre di tutti gli uomini del pianeta.

Possible Musics è la linea di partenza di tutta la world music che verrà da lì in avanti e che all’epoca (siamo nel 1980) non ha ancora un suo “reparto” nei negozi di dischi e che a casa trova posto sullo scaffale di qualche collezionista di musica etnica, nonostante qualche timido tentativo, soprattutto in ambito jazz, di varcare i propri confini geografici.

La world music di Hassell non è invasiva, è come un velo ambient permeabile alle musiche che dal mondo evaporano e sul mondo piovono, dense. Questo effetto entropico e meteorologico viene reso secondo una struttura ad eco apparentemente disorganizzata, con gli effetti eco di Brian Eno che rimandano, a rovescio, le vibrazioni di Hassell, secondo l’effetto monofonico a bordone tanto caro alla musica asiatica e affine a certo minimalismo della musica colta occidentale del dopoguerra.

È uno scambio simbiotico e allusivo quello che si snoda lungo le sei contemplative tracce dell’album, qualcosa che conserva in se qualcosa di sciamanico e vocazionale. Un’immersione in un Gange di suoni atavici che la sezione “world” della Glitterhouse ristampa adesso con un interessante libretto di sedici pagine con interviste e dissertazioni dei protagonisti di questo straordinario viaggio tra le pieghe del quarto mondo.

 

Franco “Lys” Dimauro

 

CORNELIUS – Fantasma (Trattoria)

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Un patchwork elettronico che tenta di costruire una scala che dal Giappone arrivi a qualche altro pianeta abitabile, portando con sé le polveri sottili del Sol Levante ma anche molti scarti del mondo occidentale. Quella del Cornelius è un residuato della muzak degli anni Settanta, rivista con l’attitudine (e i mezzi) degli anni Novanta, proponendosi come moderno surf-rider e dissimulandosi dietro un’immagine concettuale legata a quella delle band teppiste degli anni Sessanta visionabili nel booklet interno, richiamate anche nella scelta sibillina di titoli come New Music Machine e Count Five or Six, pur divergendone assai in termini strettamente musicali (regalando però una perla folk-rock come Thank You for the Music, NdLYS)    

L’album abbonda però anche di immaginario giapponese, in particolare quello dei videogames della Ninendo®, tanto che alcuni “numeri” sembrano degli spot impersonati dai nanerottoli del Glee Club di Rhythm Heaven.

Fantasma è insomma come quei film in cui tutti sparano ma nessuno si fa male.

Un ristorante fusion da cui si esce fondamentalmente a pancia vuota ma con le mani che profumano di acqua di rose.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro