Nell’agosto del 1982 presso gli uffici della Sire viene recapitata una lettera che profuma di incenso. Ad inviarla è il Concilio Islamico della Sharia, con sede al n. 34 della Francis Road di Londra. Il tagliacarte affonda dentro una corposa lingua di pergamena per tirare fuori un foglietto di poche ma autorevoli righe. La Sire e due musicisti della loro scuderia vengono accusati, senza diplomazia, di blasfemia per aver usato dei versi del Corano dentro un prodotto non religioso, alterandone la sacralità.
Quei due musicisti sono Brian Eno e David Byrne.
Quella canzone, Qu’ran.
È uno dei primi atti di censura imposti dalla cultura araba a quella occidentale in rispetto della fede musulmana. Uno di quelli che si ricordano con meno clamore ma che di fatto “storpiò” il contenuto di uno dei dischi più importanti della storia che da allora in poi non venne più ristampato nella sua forma originaria. Mai più.
Un po’ per rispetto, un po’ per paura, My Life in the Bush of Ghosts fu costretto all’automutilazione, sebbene restasse inalterato il senso di un disco seminale per intuizione e tecnica di montaggio.
Qualcuno aveva alzato un muro dentro un disco che progettava di abbatterli.
All’interno di questa zona aperta vibrano le “musiche possibili” a cui Brian Eno sta lavorando proprio in quegli anni, un enorme oscilloscopio agitato dai ritmi e dalle voci di ogni mondo conosciuto. Un safari virtuale di conciliazione panteista percorso da rumori occasionali, risacche elettroniche, percussioni tribali, voci captate da un etere che non è altro se non il respiro di Dio. E che qualcuno si ostina a pensare abbia un ritmo diverso da quello di Allāh.
Franco “Lys” Dimauro